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10 agosto 2025
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I bambini di Sant'Anna
di Rinaldo Battaglia *

Non ci furono solo bambini morti a Sant’Anna di Stazzema il 12 agosto ‘44. Si parla di 560 persone uccise complessivamente, ma nessun conteggio esatto fu mai eseguito. Al processo di La Spezia, iniziato dopo la scoperta ‘dell’armadio della vergogna’ nel 1994 e concluso solo nel 2005 tra rogatorie internazionali, carte introvabili o distrutte, documenti forse rubati e scarsa collaborazione di magistrati locali, si arrivò alla fine a consegnare una sentenza e a certificare come criminali alcuni uomini in carne ed ossa, o almeno – essendo nel frattempo già morti – a identificarli a posteriori come criminali. 60 anni dopo.

Mi riferisco ad esempio al generale Max Simon, comandante della S.S. Reichsfuhrer nell’operazione di Sant’Anna, subito dopo promosso al comando di un corpo d’armata. Imprigionato dopo la guerra, condannato a morte dagli Inglesi, stranamente poi con sentenza tramutata in ergastolo, e che rimase in carcere per solo pochi anni. Nel 1954 venne graziato in virtù delle forti intercessioni dell’arcivescovo di Colonia, Cardinale Josef Frings, che lo definiva «uomo pio e devoto». In una lettera datata 5 maggio ‘54, il Cardinale insisteva: «Avete liberato Kesserling e lui, Simon, perché no? I delitti di cui è accusato sono avvenuti durante l’inasprimento della guerra partigiana. Ha 54 anni, un figlio di 17 e la sua famiglia vive di assistenza pubblica».

Quanta attenzione e cura. Complimenti. Vero cuore cristiano.

Del resto era stato promosso Cardinale nel ‘46 dal Papa di allora, Pio XII, il papa di Hitler. Max Simon morì libero e tranquillo a Londra nel 1961. Era successo anche per un altro collega di Max Simon qualche anno prima.

Nel 1951, al processo per la strage dell’Abbazia di Farneta (Lucca) ove il 2 settembre ‘44 vennero trucidati 12 frati e 80 civili, il responsabile col. Helmut Looss, uomo di Reder e generale della Gestapo, fu dato per morto e quindi condannato ma non cercato per eseguirne la pena. Era invece vivo e vegeto nella sua città a Brema, dove morì da uomo ancora libero nel 1988. E poi pensi ai bambini di Sant’Anna e sei bravo a non andare via di testa.

Conosco molte storie di quei bambini. Potrei farne un libro intero, ma sono convinto che non riuscirei a completarlo per le troppe pause a cui andrei incontro per il dolore, le lacrime e la rabbia. Mi piace però segnalarvene almeno alcune.

La storia del bambino di Evelina, in particolare. Doveva nascere proprio il 12 agosto, era il terzo figlio. All’alba Evelina (Evelina Beretti Pieri) mandò il marito affinché chiamasse un medico, un’ostetrica o meglio, dato il momento, una levatrice. Qualche ora più tardi, anziché il medico o la levatrice alla porta si presentò un fornaio, da qualche anno in servizio come capitano nelle S.S., all’anagrafe Anton Galler. Quando l’ex fornaio di Amstetten se ne andò assieme ai suoi scagnozzi, dei vicini scampati al massacro trovarono solo una donna seduta su una sedia. Sventrata. Il bambino non era mai nato, era a terra ancora legato alla madre dal cordone ombelicale e aveva un foro in testa. Gli avevano sparato prima che nascesse.

Il padre e i due fratelli del bambino di Evelina non seppero nulla. Erano già stati uccisi, poco lontano.

L’ex fornaio vivrà tranquillo e beato fino alla morte in Spagna, vicino ad Alicante, dove protetti da Franco vi erano anche altri criminali nazisti e nostri generali o gerarchi fascisti, legati al Duce e aiutati dal Vaticano di Pio XII. Fuggiti tranquilli tramite la famosa Rat-line o ‘via dei topi’ del vescovo Alois Hudal. Morirà a 80 anni, nel 1995.

Mario (Mario Marsili), invece, quel giorno maledetto aveva invece sei anni. La mamma Genny (Genny Bibolotti Marsili) era sfollata da Pietrasanta e si era fermata a Sant’Anna, in montagna, in quanto più sicura della costa. Il padre era disperso nella disfatta della Russia, mandato là a morire sul Don per soddisfare la gloria di un criminale megalomane. Non ternerà più.

Mi permetto di sottolineare le cause della campagna di Russia, perché dalle mie parti ancora oggi qualcuno scrive in post politici (in ricorrenza della disfatta di Nikolajewka, 26 gennaio 2020) che eravamo andati sul Don per esportare «la libertà e la democrazia». Un po’ come gli USA di Bush con la guerra in Iraq sessanta anni dopo.

Quando Genny, quel giorno, vide arrivare le truppe tedesche, non aveva dubbi su come sarebbe andata a finire e voleva almeno salvare l’unico figlio. E quando assieme ad altre 40 persone, tutte donne coi loro figli, venne chiusa in una stalla, sentendo solo spari e grida, cercò di salvare il piccolo Mario nascondendolo nel sottoscala, dietro la porta, in un piccolo anfratto.

Quando la porta fu aperta e i tedeschi erano già pronti per sparare su tutti, Genny li anticipò lanciando loro l’unica arma di cui era in possesso: gli zoccoli di legno. I soldati, sorpresi, risposero subito sparando e ammazzando tutti. Poi se ne andarono. Nessuno si muoveva. Il piccolo Mario era solo ferito alla schiena ed era stato coperto dal corpo di altri. Fu così che si salvò.

Per tutta la vita portò sulla schiena quelle cicatrici. Ma quelle da cui non riuscì mai a guarire furono le cicatrici del cuore. Sarà presente e con forza al processo di La Spezia e lotterà tutta la vita affinché gli altri, come noi, sapessero di Sant’Anna.

Alberto (Alberto Guadagnucci) il 12 agosto aveva 10 anni. Era sfollato anche lui ed era arrivato a Sant’Anna da pochi mesi. Era un po’ discolo ma molto legato alla mamma, Elena, iperprotettiva come tutte le mamme che si trovano vedove in giovane età, sole con un figlio piccolo da crescere.

Quel giorno accettò l’offerta del coetaneo Arnaldo di andare col nonno di questi, Pasquale, a funghi nel bosco. La mamma stranamente lo lasciò fare senza opporsi, al contrario di altre volte. Capirà più avanti che quel gesto gli aveva salvato la vita. La mamma anche in quel caso lo aveva protetto, senza farglielo capire. Lontani, i tre sentirono spari, grida, fumi e fuochi sulle case di Sant’Anna. Quando arrivarono era troppo tardi. Molti erano a terra uccisi, la mamma Elena stava morendo, come altre donne e bambini. Andarono a cercare soccorso, anche Alberto. La mamma gli aveva detto di andare con il nonno di Arnaldo a cercare qualcuno, non serviva che restasse lì a farle compagnia. Quando ritornarono, mamma Elena aveva già raggiunto il marito in Cielo. Alberto diventò uomo a 10 anni e da solo, orfano, affrontò la vita.

Si farà strada, lotterà nel processo di La Spezia. Il figlio Lorenzo (L. Guadagnucci) ne ha tratto un libro di vita che merita d’esser letto, soprattutto da chi non capisce o non vuol capire l’eccidio di Sant’Anna. Io l’ho fatto e ho pianto. Non lo nascondo. Sebbene da anni io sia iscritto all’Anagrafe Antifascista di Sant’Anna. Anna (Anna Pardini) invece aveva solo 20 giorni. L’ultima volta che la mamma Bruna la prese in braccio era mentre la uccidevano, appoggiata sul muro di casa, con le sorelle al fianco. A sparare con la mitragliatrice c’era uno del posto, uno dei 16 italiani che avevano guidato le S.S. a Sant’Anna.

Alcuni di loro hanno avuto un nome certo, stando agli atti processuali, molti anni dopo. La mamma, spaventata e incredula, morì subito, Maria e Anna, gravemente ferite, qualche giorno dopo la seguirono in Cielo. La più grande, Cesira, 17 anni si salvò, ferita alle braccia e alle gambe, grazie al corpo della mamma, che le cadde addosso.

16 italiani cresciuti nella scuola del Duce del ‘Dio, Patria & Famiglia’.

Cesira 60 anni dopo testimonierà al processo. Parlerà anche del piccolo Claudio. Claudio aveva 4 anni quel giorno. Era ammalato e in braccio alla mamma Maria. Lei, circondata da altri disperati e sotto le armi dei nazisti e di alcuni fascisti della zona, chiese un po’ di compassione per il piccolo: «Abbiate pietà, è leucemico. Sta per morire». Il tedesco tirò fuori la pistola e sparò prima alla donna e poi al bambino.

È curioso sapere che in Italia, paese di grandissimi registi e attori, paese di De Sica, Rossellini, Fellini, nessuno abbia mai pensato di girare qualcosa sull’eccidio di Sant’Anna di Stazzema.

Ci volle un americano, Spike Lee, nel 2008, con un film romanzato (Miracolo a Sant’Anna). Curioso, ma poi neanche tanto.

Perché parlarne? 64 anni dopo… E poi elettoralmente giova?

Al processo di La Spezia alcuni nazisti, individuati per bene, furono rinviati a giudizio per «violenza pluriaggravata e continuata, con omicidio per aver agito contro anziani, donne e bambini che non prendevano parte alle operazioni militari, agendo con crudeltà e premeditazione». 60 anni dopo.

A quel tempo quei militari erano morti in santa pace o tutti troppo vecchi per il carcere. Simon era morto nel ‘61, Galler nel ‘95; nel 2003 Gerhard Sommer aveva 82 anni, Alfred Schoeneberg 82, Werner Bruss 83 e via di questo passo.

Tra gli italiani era morto anche Aleramo Garibaldi - noto fascista della zona e legato da anni ai ‘federali’ di Mussolini del posto - che guidò i nazisti a Sant’Anna e sparò almeno a 17 persone uccidendole (fu provato). Morì a Narni qualche anno prima.

Nel 1999 una sua nipote chiese e ottenne che il cognome da sposata di una zia, “Garibaldi”, inciso sulla lapide che sovrasta l’ossario di Stazzema, venisse cancellato: «Non posso lasciarle questa vergogna addosso».

La vergogna di avere avuto una zia imparentata con un fascista che aveva contribuito alla strage.

Anche gli altri nomi accertati (Giuseppe Ricci e Guido Buratti, ma non solo) avevano da anni abbandonato la zona. Assassini e vigliacchi in fuga nel momento della verità, come il loro Duce, come migliaia di fascisti tramite la Rat-line dopo il 25 Aprile 1945 verso le città del Sud America. Come ladri dopo un colpo andato male. È la storia a dirlo.

10 agosto 2025 – 81 anni dopo – dal mio ’La colpa di esser minoranza’ - ed. AliRibelli - 2020

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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