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I minatori di Noccioleta: una verità scomoda
di
Rinaldo Battaglia *
“I fatti non cessano di esistere solo perché noi li ignoriamo”: credo che le parole del grande storico Aldous Leonard Huxley siano 'l’incipit' più idoneo per quello di cui, oggi, vi vorrei parlare.
Perché si tratta una vicenda dimenticata, di 83 uomini uccisi e di 78 anni di silenzio. E’ un massacro poco noto, perché politicamente non conveniente, anzi ‘controcorrente’ che fa a pugni con le chiacchiere e le dediche degli ultimi nostri anni.
Per gli addetti ai lavori e quei pochi che lo conoscono è chiamato l’eccidio di Niccioleta, in cui tra il 13 ed il 14 giugno 1944 i nazi-fascisti massacrarono 83 persone tra Niccioleta, frazione del comune di Massa Marittima, e Castelnuovo Val di Cecina.
Siamo nel grossetano.
Ma tutto parte proprio da Grosseto, due mesi prima e coinvolge un nome illustre e che pure oggi non risulta per nulla fuori luogo nel ricordarlo.
Infatti, in un 5 settembre di 85 anni fa, in Italia vennero firmate le Leggi sulla Razza, volute da Mussolini.
Tra i più convinti sostenitori e ‘megafoni del regime’ vi era un certo Giorgio Almirante.
Famosi i suoi articoli (in particolare quello del 5 maggio 1942) quando su ‘La Difesa della Razza’, organo ufficiale fascista, scrisse parole vergognose e indegne di un paese civile, parole che faranno mesi dopo molta presa sugli italiani, con delazioni e segnalazioni ai nazisti, per spedire quanti più ebrei italiani possibile verso Auschwitz.
Tutto coerente comunque: il 17 novembre ‘43 Almirante sarà uno dei fautori della ‘Carta di Verona’ ossia il congresso fondativo della Repubblica di Salò. Qui, al punto 7, si istigava alla Shoah e si rafforzavano e sviluppavano le azioni in Italia contro gli ebrei, anche nella mia terra veneta. Chiare le parole lì scritte: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”.
Almirante del resto non era un fascista anonimo, una di quelle piccole pecore che seguivano il capo-gregge. Assolutamente no. Diamo merito al merito.
E la sua carriera nell’universo fascista lo conferma senza ombra di dubbio.
E la sua carriera passa per Grosseto e il grossetano.
Il 30 aprile 1944, venne infatti nominato dal Duce 'capo-gabinetto' del ministero della cultura popolare presieduto da Fernando Mezzasoma, ossia di fatto il Goebbles italiano, operativo anche e in particolare nella zona di Grosseto, a quel tempo – con gli Alleati in arrivo verso Roma - molto ‘calda’, se non caldissima. E' l'uomo forte del regime in zona.
Due settimane dopo – il 17 maggio – padrone del nuovo ruolo e ‘status’ non fece mancare nuovi ordini e nuove esigenze operative.
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«PREFETTURA DI GROSSETO
UFFICIO DI P. S. IN PAGANICO
COMUNICATO
"Alle ore 24 del 25 maggio scade il termine stabilito per la presentazione ai posti militari e di Polizia Italiani e Tedeschi, degli sbandati ed appartenenti a bande. Entro le ore 24 del 25 maggio gli sbandati che si presenteranno isolatamente consegnando le armi di cui sono eventualmente in possesso non saranno sottoposti a procedimenti penali e nessuna sanzione sarà presa a loro carico secondo quanto è previsto dal decreto del 18 Aprile. I gruppi di sbandati qualunque ne sia il numero dovranno inviare presso i comandi militari di Polizia Italiani e Tedeschi un proprio incaricato per prendere accordi per la presentazione dell'intero gruppo e per la consegna delle armi. Anche gli appartenenti a questi gruppi non saranno sottoposti ad alcun processo penale e sanzioni. Gli sbandati e gli appartenenti alle bande dovranno presentarsi a tutti i posti militari e di Polizia Italiani e Germanici entro le ore 24 del 25 maggio. Tutti coloro che non si saranno presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione nella schiena. Vi preghiamo curare immediatamente affinché testo venga affisso in tutti i Comuni vostra Provincia."
p. il Ministro Mezzasoma - Capo Gabinetto
GIORGIO ALMIRANTE
Dalla Prefettura 17 maggio 1944 - XXII»
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Fu chiamato in zona come ‘il manifesto della morte’ e fu appeso sui muri delle case dei vari paesi e paesetti del grossetano. E non solo.
Neanche un mese dopo, in questo scenario e in questo clima, si arriva al massacro in oggetto.
Niccioleta era una frazione di poche case nate attorno alla Montecatini, che alla metà degli anni trenta qui iniziò a sfruttare una grossa miniera di pirite. Vi abitavano semplici ed onesti minatori e le loro famiglie. Niente di strano.
Il 13 giugno 1944, il 3. Polizei-Freiwilligen-Bataillon Italien, un reparto di polizia militare - composto da ufficiali in prevalenza tedeschi ma con soldati quasi totalmente (se non totalmente) italiani repubblichini fascisti di Salò (non a caso ‘Bataillon Italien’) - giunse a Niccioleta per punire i suoi abitanti che, come in molte zone del grossetano – per non dire dappertutto - avevano rifiutato di presentarsi ai posti di polizia fascisti e tedeschi di Massa Marittima. Proprio quale conseguenza anche ed in virtù del manifesto firmato dallo stesso Giorgio Almirante.
Un ordine preciso dal responsabile della zona.
A comandare il ‘Bataillon Italien era il sottotenente Emil Block. Tra gli italiani fedeli al Duce verranno bene individuati almeno 20 uomini, tra cui Pasquale Calabrò e Aurelio Nucciotti, fascisti di Niccioleta stessa, alcuni di Grosseto città (Giuseppe Petro) o delle vicinanze (Luigi Picchianti di Porto Santo Stefano). Molti altri di Firenze (Alberto Bianchi) o Pisa (Dino Tosi).
L’azione iniziò presto quel 13 giugno: circondarono il paese e rastrellarono tutti gli uomini, quasi tutti minatori, concentrandoli davanti al dopolavoro. Per far capire il messaggio fucilarono subito 6 di loro (Ettore Sergentoni, con i figli Aldo e Alizzardo, Rinaldo Baffetti, Bruno Barabissi e Antimo Ghigi), nel piccolo cortile dietro il forno della dispensa, largo non più di tre metri.
Dovevano essere 7, a dire il vero, ma un minatore (Giovanni Gai) riuscì a fuggire nella macchia, grazie ad un attimo di distrazione di un fascista che si stava arrotolando una sigaretta.
I 7 minatori erano stati trovati – si dice - in possesso di armi e altri oggetti compromettenti (un fazzoletto rosso, un lasciapassare partigiano).
Per gli altri il destino non fu molto diverso, almeno in buona parte.
Dopo averne liberati alcuni, un paio di molto anziani, i nazifascisti trasferirono verso sera tutti gli altri (circa 150 uomini) nella vicina Castelnuovo Val di Cecina (Pisa), da dove il battaglione era partito all’alba, imprigionandoli nel locale adibito prima a cinema.
Nel frattempo venne decisa la loro sorte: i più giovani (21 ragazzi) vennero spediti a Firenze e da lì deportati nei lager in Germania (ma 4 di loro riuscirono a fuggire prima di arrivare a Firenze), i più anziani (circa 50 persone) furono lasciati liberi di ritornare a casa. I rimanenti (che probabilmente erano inseriti in una lista in mano già da prima agli ufficiali) fu deciso di passarli per le armi.
Quella stessa notte – quella tra il 13 e il 14 - mentre gli uomini di Niccioleta continuavano a rimanere rinchiusi nel cinema, i nazisti fucilarono nei pressi di Castelnuovo Val di Cecina un altro gruppo di partigiani, noti come la "banda di Ariano" ( Vittorio Vargiu, Franco Stucchi Prinetti, Francesco Piredda e Gianluca Spinola, attivi nella zona di Volterra) che da mesi impegnavano e non poco i fascisti e i nazisti in zona. Non erano collegati ai minatori, ma l’eccidio non favorì il clima del momento.
A tarda sera del 14 giugno – forse dopo aver avuto ordini dall’alto o forse chissà perché un giorno dopo e non la stessa sera o l’alba prima – altri 77 minatori vennero uccisi davanti alle mitragliatrici sulla strada per Larderello, nei pressi della centrale elettrica.
Saranno solo di minatori, padri di famiglia e lavoratori, 83 quindi le vittime. 83 vittime massacrate da uomini del fascio nel momento in cui l’uomo forte del fascio era proprio lui, Giorgio Almirante.
Nella primavera del ‘45 non appena liberata la zona, i parenti delle vittime vollero giustizia. E accusarono fortemente una ventina di fascisti di Niccioleta stessa (peraltro anche loro per lo più minatori), le loro mogli e i loro figli.
Si disse che quei fascisti avessero avvisato i nazisti dell’occupazione del paese da parte dei partigiani, avvenuta il 9 giugno. Quel giorno un gruppo di partigiani era entrato a Niccioleta e, dopo aver disarmato i carabinieri, si erano fermati per qualche ora. Ma prima avevano individuato alcuni fascisti della frazione, che vennero bloccati in casa fino a che i partigiani non se ne andarono.
Era stata un’azione per lo più dimostrativa quella dei partigiani: ‘sappiamo chi siete’. Serviva ora una contro misura: la zona doveva restare in mano ai nazifascisti. Che altro?
L’ordine del ‘capo-gabinetto’ del resto era chiaro e se non era un 'ordine ufficiale' di certo un ‘riferimento’, la ‘stella polare’ che doveva orientare la truppa.
A conferma della ‘chiamata’ dei nazisti e della partecipazione dei fascisti della zona al massacro, fu provato nei giorni precedenti l’abbandono da parte di alcune famiglie fasciste delle loro case, verso zone più controllate dai nazisti.
Gli elenchi e la guida, casa per casa, in cerca dei minatori da uccidere non poteva passare inosservata.
Storici affermati, come Paolo Pezzino, hanno sempre giustificato il massacro quale "rabbiosa risposta delle poche famiglie fasciste (una quindicina in tutto su centocinquanta) all’inevitabile sconfitta del regime di Salò".
Ma forse i nazisti sarebbero arrivati lo stesso – prima o subito dopo - a Niccioleta perché già impegnati allora in importanti azioni di rastrellamento nelle zone circostanti, sempre col concorso dei fascisti del Duce, coerentemente col manifesto firmato da Almirante. Qui come altrove, peraltro.
Il 19 novembre 1949 la Corte d’Assise di Pisa condannò a 30 anni di reclusione per collaborazionismo militare e omicidio aggravato plurimo Pasquale Calabro e Aurelio Nucciotti (fascisti di Niccioleta), e Luigi Picchianti, appartenente al 3. Polizei-Freiwilligen-Bataillon “Italien”.
Il 14 dicembre 1951 la Corte d’appello di Firenze confermò la sentenza, ma riconoscendo a Picchianti alcune attenuanti, condonava 21 anni della pena a Picchianti, ed un ulteriore anno a Calabrò e Nucciotti.
La Cassazione comunque in seguito respingeva i ricorsi presentati dai condannati il 31 maggio 1953.
In Germania, inoltre, per Niccioleta la Procura di Göttingen apriva nel 1971 un fascicolo contro ignoti, archiviato nel 1981 e senza alcun esito. Quasi 40 anni dopo. Anche a loro - forse - è sembrata più una faccenda di 'casa nostra'.
Nel 1971 – manifesto della morte in mano – Giorgio Almirante fu in più occasioni e processi chiamato in causa e definito più volte in tribunale ‘fucilatore di partigiani’. Peraltro, delle 83 vittime di Niccioleta per almeno 77 più che partigiani potevano esser definiti ‘non-fascisti’. E quindi anche il termine appare limitativo o riduttivo. Almirante, allora segretario del MSI, negò tutto e arrivò persino a dire che quel manifesto non era altro che un falso, solo un falso. Ma nel 1978 Almirante sarà condannato in Cassazione proprio per aver provato a nascondere la veridicità della sua firma sanguinaria in calce al quel ‘bando di Paganico di Grosseto’.
Da anni, alcuni dei discendenti dei ‘figli della lupa’, anche a livello di leader di partito, insistono fortemente per dedicare vie o piazze a Giorgio Almirante. A Roma, e di recente anche nel Comune di Alessandria, ci sono proposte allo stato avanzato.
Già risultano vie a lui dedicate in Sud Italia, come a Carini, Mazzara del Vallo, Castellamare del Golfo, Castelvetrano, persino dal 2016 a Noventa Vicentina, nella mia bella terra vicentina.
Resta da chiedersi se chi propone o ha proposto quelle dediche cosa conosca della sorte dei minatori di Niccioleta, uccisi una prima volta nel giugno 1944 e una seconda volta col silenzio ipocrita, che da sempre nasconde quel crimine.
I fatti non cessano di esistere solo perché noi li ignoriamo”. E nessuno che si domandi oggi perché non li conosciamo e a chi giova questa nostra 'beata ignoranza'?
* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
 
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