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04 agosto 2025
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Meloni si smentisce da sola e la chiama coerenza
di Raffaele Florio

Quante ne abbiamo viste in questi trent’anni, ma un’autodenuncia così limpida, consapevole e ostinata da parte di un presidente del Consiglio, mancava all’appello.

Giorgia Meloni, scampata all’incriminazione per il caso Almasri dal Tribunale dei ministri, si affretta a dire che i giudici hanno preso un granchio: se Piantedosi, Nordio e Mantovano devono andare a giudizio per un sequestro di persona, allora deve andarci pure lei. Non perché ci siano nuovi elementi a suo carico, ma perché – dice lei stessa – «ogni scelta è stata concordata». Insomma, se quei tre sono colpevoli, lei è mandante. O, nella migliore delle ipotesi, complice.

Una posizione nobile, se non fosse che Meloni non è nuova a queste uscite da matador a riflettori accesi. Quando l’indagine si è aperta, a gennaio, ha taciuto. Quando sono usciti i nomi, ha detto che non era al corrente. Quando è stato chiaro che l’inchiesta riguardava anche lei, ha tuonato contro le toghe. Ora che la sua posizione è stata archiviata, riscopre l’orgoglio della corresponsabilità. Un po’ come il ladro che, assolto per mancanza di prove, chiama il giudice e dice: «Guardi che ho rubato anch’io».

Nel decreto di archiviazione, i giudici scrivono nero su bianco che Meloni non era informata preventivamente e non ha condiviso la decisione. Per questo non ha rafforzato il “programma criminoso” (così lo definiscono loro, non Travaglio). Dunque, nella logica dei giudici, i tre hanno agito da soli. Nella logica di Meloni, invece, hanno agito con lei. E quindi, aggiungiamo noi, o mentono i giudici, o mente la premier.

Ma quel che davvero colpisce è la tracotanza con cui la presidente del Consiglio rivendica la “coerenza” del Governo: «Questo Governo agisce in modo coeso sotto la mia guida». Talmente coeso da sequestrare un minore in fuga da una dittatura, tenerlo tre giorni in una caserma e rispedirlo nei lager egiziani senza che nessuno si premurasse di informare il presidente del Consiglio, la Farnesina, l’ambasciata o – dettaglio trascurabile – la madre.

Una coesione degna della Banda Bassotti. Ma il colmo sta nel pathos: «Mi siederò accanto a loro al momento del voto». In Senato, pare. Come se fosse la Sacra Famiglia sulla via del Golgota. Peccato che non siano martiri, ma imputati potenziali per un reato gravissimo.

La verità? La Meloni non tollera di non controllare tutto. Neanche il diritto. Se la magistratura dice che lei è fuori, non le va bene. Perché vuole decidere lei chi deve essere dentro e chi fuori. È il principio dell’infallibilità sovranista: se il leader non è colpevole, allora nessuno lo è. E se qualcuno lo è, anche il leader dev’essere colpevole, perché «tutto è stato concordato».

Un elogio del delitto in nome della lealtà. Alla faccia della separazione dei poteri. Ma anche alla faccia della verità, che nel Governo Meloni resta come l’ascensore nel Comune di Vibo: fermo da mesi.


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