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03 agosto 2025
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Vergogna, dentro e fuori l'armadio
di Rinaldo Battaglia *

Nell’agosto del 2004, proprio in questi giorni, un grande giornalista d’inchiesta quale Franco Giustolisi pubblicò dopo 10 anni di forti ricerche, contro tutto e contro tutti, un libro dedicato 'all’Armadio della vergogna', da cui anche il titolo. Fu il primo ad occuparsi di quella oscura vicenda e la considerò talmente importante da farne il 'motivo' della sua vita, fino alla morte, avvenuta troppo presto, già nel 2014.

Mi riferisco precisamente a quell’armadio trovato ‘casualmente’ nel 1994, dopo che per quasi 50 anni, a Roma – nella sede prestigiosa della Procura Generale Militare, in Via degli Acquasparta, un tempo di proprietà della famiglia Cesi, – era stato messo in un corridoio poco usato, seminascosto, con le ante verso il muro e chiuse a chiave.

Chissà quante persone lo avranno visto, impolverato e abbandonato.

Qualcuno magari è andato anche a sbatterci, forse mentre fumava di nascosto una sigaretta o si imboscava con la collega per non lavorare. Peraltro vicino – come non bastasse - vi era appoggiato un grande registro, un quaderno a righe, tipo quello che una volta usavano le nostre maestre a scuola. Perché nella vita le cose, se si fanno, vanno fatte bene e con ordine. Lasciando un segnale di fumo ai posteri, se i posteri cercassero segnali di fumo tra un loro fumo e l’altro.

Nel registro a penna, in 2.273 voci v’era bene annotato il contenuto, ossia ben 695 fascicoli, che in teoria mezza Italia avrebbe dovuto cercare e studiare, pagina per pagina, riga per riga, parola per parola, dal 1945 in poi.

In quel registro si parlava delle 2.273 «stragi brutali compiute dai nazisti e dai fascisti di Salò lungo tutto il territorio del nostro paese», come bene ci riportava Franco Giustolisi.

Non voglio tediarvi ora con questi 695 fascicoli, visto che – tutti – li hanno lasciati a riposare in letargo per 50 anni, ma solo per far capire, ai più che non si ricordano, che al numero 1 vi erano i colpevoli dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine, con documenti e prove relative: Kappler e Pribke.

Herber Kappler, il Komandant della Gestapo a Roma, almeno qualche anno di carcere in Italia se l’è fatto, finché la dolce frau Anneliese nel ferragosto del 1977 se lo portò tranquillamente a casa. Dapprima chiuso in una valigia per uscire dall’Ospedale militare del Celio a Roma, ove era casualmente stato mandato senza alcun piantone di sorveglianza, con tanto d’ordine scritto di non far entrare nessuno nella sua camera né di affacciarsi al suo interno.

Casualmente. Poi in una vecchia Fiat 132 rossa, seduto sul sedile posteriore, passando tranquillamente la frontiera con la Germania, come dei semplici nonnetti di ritorno dalle vacanze nel nostro bel paese. Tranquillamente. E in quel tempo non c’era Schengen e i controlli alle frontiere erano molto attenti e motivati dai pericoli del terrorismo (pochi mesi dopo avverrà la Strage di Via Fani).

Sin dal giorno stesso tutti sapevano che quella fuga era una panzana, una fake-news si direbbe oggi. Nel 1997 il ministro Lattanzi, responsabile dei mancati controlli, e nel 2011 Ekehard Walther – il figlio di frau Annaliese avuto da altro matrimonio – diranno che era tutto stato preparato nei minimi dettagli per liberare Kappler su precisa richiesta tedesca (in Germania i reati e i crimini commessi durante la guerra erano andati in prescrizione).

Richiesta accolta dal Governo Italiano (Primo Ministro allora Andreotti nel governo che vedeva il PCI in posizione di non-sfiducia) senza tanti problemi. Anzi, la finta evasione di Kappler coinvolse almeno 10 persone, un aereo privato diretto a Monaco (che però per un’avaria non riuscì a partire), due auto che scortarono la 132, e nella prima era presente lo stesso figlio Walther e un amico vestito da sacerdote.

Chi fossero in realtà tutte quelle persone non si seppe mai, e peggio ancora non si seppe il perché di tutta questa messinscena alla James Bond. I vestiti da sacerdote o da monaco - lo sappiamo - nella nostra storia non mancheranno mai. Non meravigliamoci, quindi. Ne vedremo ancora. Anche di peggio: basta solo conoscere solo qualche pagina del Libro della nostra Storia.

È il gioco della vergogna, che altro?

Sarà questo uno dei tanti momenti opachi, nella storia opaca del nostro paese opaco. Conta poco o nulla, poi, che ad esser protetto e aiutato sia stato un criminale, il carnefice di un eccidio con 335 morti e il responsabile del rastrellamento di 1.259 ebrei di Roma di metà ottobre ‘43, dopo che si era fatto pagare il riscatto in 50 chilogrammi di oro.

Del prezioso metallo, peraltro, Kappler sicuramente era un fino intenditore tant’è vero che qualche notte prima, tra il 22 ed il 23 settembre, prelevò l’intera riserva aurea della Banca d’Italia, pari a ben 120 tonnellate, spedendola subito in Germania. Anche qui esisteva la regola dell’aiutiamoli a casa loro?

Ma nell’armadio della vergogna v’erano anche documenti su Erich Priebke, il braccio destro di Kappler nelle Fosse Ardeatine, che per 50 anni visse tranquillamente in Argentina, peraltro visitando più volte da turista, zainetto e macchina fotografica al collo, sia Roma che città tedesche (non volle mancare al funerale del suo capo ad esempio, quale uomo pio e devoto, e fare le condoglianze di persona alla vedova Annaliese).

Se qualcuno avesse aperto quell’armadio, o meglio se qualcuno non l’avesse chiuso, di certo Priebke si sarebbe divertito meno nella sua vita, a totale spregio della minima giustizia umana. Certo, alla fine verrà condannato all’ergastolo, ma sarà nel 1997. Guarda caso dopo la scoperta dell’armadio e grazie a un giornalista d'inchiesta americano, Sam Donaldson, che andò a intervistarlo in Argentina, dove si era rifugiato dopo esser scappato dall’Italia nel 1948, con documenti falsi preparati tramite il Vaticano e la sua Rat-line. Caso non unico e non raro. Purtroppo. Peraltro, data l’età (aveva oltre 84 anni), la condanna si tramutò subito in semplice detenzione domiciliare.

E ora si capisce perché l’armadio aveva le ante rivolte verso il muro.

Una volta, nella scuola preistorica dei nostri padri, quando si leggeva ancora il libro 'Cuore', chi in classe disturbava o doveva esser punito veniva messo in un angolo, in castigo, a guardare il muro, sperando che si vergognasse almeno un poco. Così è stato per quell’armadio, che vergognandosi di quello che aveva fatto o protetto, preferì farsi mettere con le porte verso il muro, per non farsi ben vedere in faccia da nessuno.

Sono passati 31 anni dalla scoperta dell’Armadio della vergogna, e dopo Franco Giustolisi qualcuno si è seriamente interessato? Qualcuno ne ha parlato e ne parla?

Ma del resto se deve esser vergogna, che vergogna lo sia per sempre. Dentro e fuori 'dall'Armadio'.

Siamo o non siamo in Italia?

3 agosto 2025 – 31 anni dopo – Liberamente tratto dal mio ‘La colpa di esser minoranza’ -ed. AliRibelli - 2020

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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