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02 agosto 2025
tutti gli speciali

Porrajmos, l'olocausto dei Rom
di Rinaldo Battaglia *

...i figli cadevano dal calendario
Yugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via......

Il 2 agosto 1944 veniva "liquidato" lo Zigeunerlager del campo di Auschwitz-Birkenau, il ‘non- famoso’ campo B2 E, quello a fianco dei laboratori di Mengele e dei suoi sporchi esperimenti. In un solo unico giorno oltre 4.000 persone furono sterminate nelle camere a gas. In maggioranza donne e bambini, colpevoli di essere sinti, rom, zingari. Solo ad Auschwitz ne uccideranno 23mila. Poi ci sarebbero i morti di Dachau e degli altri lager.

Il 2 agosto, dal 2015, è stato istituito come il ‘Rom Genocide Remembrance Day’, la giornata in ricordo del genocidio dei Rom e Sinti durante la Seconda guerra mondiale, che provocò oltre mezzo milione di vittime di questa popolazione. L’Olocausto dei Rom viene anche definito, in lingua romanì, Porrajmos (divoramento, devastazione) o Samudaripen (sterminio).

L’Italia non fu esente dal crimine, anzi.

Le Leggi Razziali del 5 settembre 1938 e gli ‘ordini’ datati 11 settembre 1940 di Arturo Bocchini (Comandante Polizia segreta OVRA e Polizia Fascista, amico stretto di Himmler) ne sono prove indelebili.

E molti furono i ‘campi di concentramento fascisti’ operativi ben prima dell’8 settembre ’43. Tra questi, il più ‘vecchio’ e altrettanto più sconosciuto è stato il campo di Perdasdefogu, 100 km da Nuoro, 100 da Cagliari, al confine in quegli anni tra il nulla e il niente. Chiamato anche “Palma da Foghesu”, forse per renderlo più esotico o meno macabro.

Sfido chiunque di voi a dirmi se ne ha mai sentito parlare. Era operativo dal 1938, ma già dalla fine del 1922 (vi dice nulla come data il 1922?) il regime vi aveva fatto affluire con la forza, nel controllo e nella gestione, una serie di zingari, rom e sinti, ma anche giostrai, circensi, che man mano venivano raccolti dalle nuove terre italiane: il Trentino e soprattutto l’Istria.

Raccolti come spazzatura e portati in discarica. Arrivarono a centinaia, ma rimangono pochi documenti, ora. Con le politiche razziali del 1938, Perdasdefogu – la discarica – ebbe poi un successo enorme, neanche fosse oggi la vicina Costa Smeralda.

Se del crimine sugli ebrei, tramite la shoah, finalmente negli ultimi decenni in Italia qualcosa è stato insegnato ai nostri figli, non altrettanto si può dire del crimine sugli zingari, sinti, rom, nelle varie singole etnie o famiglie. Zingari in genere, quelli che avevano il distintivo e matricola Z ai tempi di Hitler, per capirci. Nessuno ne parla, non ho visto film che io ricordi.

Forse perché la shoah del popolo zingaro non è stata considerata come problema razziale, ma quasi difesa o, peggio, prevenzione della piccola delinquenza, una delle classiche etichette con cui siamo stati abituati a identificare sempre gli altri: affaristi e crumiri gli ebrei, ladri e sporchi i rom. Sbaglio?

Giovanna Boursier, una grande storica, nei suoi libri quantifica in non meno di mezzo milione i rom e zingari uccisi dal nazifascismo, durante la Seconda Guerra Mondiale.

E molti di questi arrivavano dalla filiera italiana.
Non nascondiamocelo.
Non meno di un buon 5%, si dice. Se così fosse sarebbero pari a 20-25mila, più dei morti del crimine maledetto delle foibe, più dei morti innocenti nella nostra maledetta guerra civile del ‘43-‘45.

Sorpresi?
Non ho visto comizi politici di recente ricordando questo eccidio. E voi?
Non ho visto bandiere tricolori sventolare per la rabbia del silenzio.
Non ho visto politici da 4 soldi o da 49 milioni inventare una data su cui attirare l’attenzione.

Generalmente la si unisce nel Giorno della Memoria, il 27 gennaio, perché ad Auschwitz non gasarono solo ebrei ma anche mezzo milione di rom. Corretto. Ma chi se lo ricorda quel giorno?
Forse elettoralmente non è utile. Non porta voti. Anzi, li fa perdere.

Mezzo milione che andrebbero poi integrati dalle morti nei paesi dell’est, nei paesi rossi, dove al tempo di Stalin non è che il “sentiment” fosse diverso. Ci mancano numeri, non la certezza di massacri su larga scala.

Altri vari storici, come il grande Luca Bravi, si sono molto interessati negli ultimi anni arrivando a tristi conclusioni, dove l’amarezza e il dolore si confondono in un’unica cosa.

Il giornalista Daniele Paba sulla Nuova Sardegna, il 15 febbraio 2017, ritornava sull’argomento e parlava di porrajmos, termine che in romanì, lingua rom, significa ‘devastazione’. La devastazione dei rom e dei sinti applicata su scala nazionale dal regime fascista, prima di quello nazista, tra l’omertà, il silenzio, la complicità della generazione dei nostri padri. Nessuno ne ha mai parlato. Tanto meno la Chiesa.

Dov’era Pio XII? Non aveva a quel tempo chiese, diocesi, preti ad esempio in Sardegna?

Giovanna Boursier in Triangolo Rosso (n. 1/98 – gennaio 1998) raccontava la storia di fame, fame e miseria, di Rosa Raidich e sua figlia Lalla, nata a Perdasdefogu il giorno dopo la Befana del 1943, ovviamente lì in quanto deportata dall’Istria, non dai nazisti di Hitler ma dagli italiani di Mussolini. Rosa fu una delle rarissime voci di zingari deportati e sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale. Rosa fu una dei testimoni che vissero e raccontarono l’internamento in Italia, sotto la dittatura fascista, di un popolo sempre perseguitato, ignorato e dimenticato dalla memoria. E quella fu una delle pagine più nere della storia del nostro paese. Come per gli ebrei.

Perché quel 5 settembre 1938, con le leggi razziali dettate dal Duce, controfirmate dal Re e accettate passivamente dalla generazione dei nostri genitori e dei nostri nonni, abbiamo toccato con un dito l’inferno. E Perdasdefogu era lì a confermarlo, perché era davvero il posto prima dell’inferno.

A metà strada fra Cagliari e Nuoro, venne scelto in quanto isolato, irraggiungibile per mancanza di strade. Era un villaggio povero, con vite da primitivi, solo capre e fagioli, niente acqua corrente e niente elettricità. Nessun mezzo di trasporto a parte il carro trainato dai buoi. Nelle case si dormiva sulle stuoie. Un paese dove «anche una ghianda può sembrarti buona come una ciliegia» e «se vuoi riempirti lo stomaco vai alla fonte a bere». Così scriveva, con un velo di poesia, Nuova Sardegna il 3 aprile 2011 per spiegare perché proprio lì. Di peggio non ci poteva essere. Solo capre e fagioli. Il posto giusto, prima dell’inferno. E se avessi parlato avresti raggiunto l’inferno, quello ancora più vero, di Auschwitz.

Il rapporto coi contadini locali era insistente ma non per colpa loro. Un impiegato comunale in pensione, Bonino Lai, allora ragazzo, ricordava infatti: «La miseria era divisa ugualmente in tutte le famiglie, ma in ogni casa c’era posto per tutti, soprattutto per chi arrivava da fuori. Erano le ordinanze del periodo fascista che limitavano i rapporti fra italiani e zingari».

Dopo l’8 settembre 1943 molti campi in Italia furono smantellati, anche per l’arrivo degli alleati. A Perdasdefogu smantellare però non fu necessario, non c’era nulla. Era il nulla, ossia proprio il posto giusto, prima dell’inferno, tra il nulla e il niente. Solo capre, fagioli e zingari deportati lì a morire.

Non molto diverso il destino dei deportati ‘di razza inferiore’ di Agnone, a pochi km da Isernia, nell’ex Convento S. Bernardino, che divenne dal 14 luglio 1940 un luogo di detenzione per ebrei, rom, sinti di nazioni nemiche, molti slavi. Un anno dopo fu promosso – questa la dicitura del Ministero dell’Interno – specificatamente a “campo di concentramento per zingari” con una capienza da 150 persone. Gestito dal comm. Guglielmo Casale, poi dal Commissario Giuseppe Cecere e dalla direttrice Amalia Vacalucci, venne chiuso il 2 giugno ‘43. Molti i deportati spediti prima nei lager nazisti.

Anni dopo un deportato, Mitzi Herzemberg, ricordava che spesso gli uomini venivano portati fuori a scavare buchi per le mine, che servivano a ritardare l’avanzata alleata, e di come le guardie fasciste inferivano con punizioni durissime sui prigionieri. A quel tempo Mitzi aveva quattordici anni, lavorava in cucina e cercava di passare un po’ di cibo ai suoi familiari. Un giorno se ne accorsero, venne portato fuori per essere fucilato. Si salvò solo perché all’ultimo momento la sua pena fu commutata in “bastonature e segregazione”. Qualcuno capì – sebbene la sua scuola fascista – che aveva solo 14 anni e una madre che stava morendo di fame.

Alla fine della guerra, Agnone fu adibito a convitto e, dal 1970 ad oggi, a casa di riposo per anziani. Sotto la targa all’ingresso, posta solo nel 2013, nei Giorni della Memoria del 2019 un allora ragazzo del paese, Romolo Ferrara, ha ricordato con le lacrime agli occhi «le file di persone, incolonnate, che furono fatte scendere dai vagoni e guidate fino alla detenzione».

Presente alla cerimonia era arrivata da Firenze anche una giovane signora. Veniva al posto di sua madre, Milka Emilia Goman, deceduta l’anno prima e che spesso tornava ad Agnone, anche per parlare agli studenti del locale liceo. Milka era stata deportata con la famiglia quand’era bambina, a 6-7 anni, nel 1941. Un giorno, pochi anni, fa volle tornare in quel luogo di sofferenze, riconobbe la sua cella e guardando le sbarre alle finestre si sentì male. Fu subito soccorsa e appena in paese si sparse la notizia, un vecchietto, informato dal nipote Sergio (Sergio Haldaras), capì chi fosse. Era stata sua amica e compagna di sventura. Si rincontrarono, forse 70 anni dopo. Anche il nonno di Sergio era presente alla cerimonia e prese la parola per ricordare Milka. «Teneva sempre in tasca del pane temendo di rimanere senza cibo. Era un’abitudine nata dopo la liberazione dal campo, proprio a causa della tanta fame patita all’interno dell’ex convento».

Ad Agnone il professore del Liceo Scientifico “Giovanni Paolo I”, Francesco Paolo Tanzi, chiese più volte la testimonianza di Milka per i suoi allievi, affinché capissero.

Fortunati gli studenti di Agnone ad aver avuto come maestro di vita un professore del genere e donne come Milka, che non vollero arrendersi al male subìto ma che – come tante Liliana Segre – insegnarono la forza della vita e la vittoria sul crimine del nazifascismo, magari tenendosi sempre in tasca un pezzettino di pane. Per non dimenticare di ricordare. Che Dio ci perdoni. Soprattutto quando non avremo più Milka, Liliana Segre, Piero Terracina, Sami Modiano e tutti gli altri martiri, sopravvissuti per ricordarci di tenere gli occhi aperti.

In Khorakhanè (A forza di esser vento) nelle parole in romanes alla fine della canzone, Fabrizio De André diceva «Chi sarà a raccontare, chi sarà? Sarà chi rimane. Io seguirò questo migrare. Seguirò questa corrente di ali».

Dobbiamo essere ali e in volo portare queste testimonianze ai nostri figli e ai figli dei nostri figli. Le ali esistono per muoversi, altrimenti non hanno motivo di esserci.

Perché se diamo ascolto oggi a certi nostalgici, qualcuno di loro dirà che i nazifascisti erano anche solo dei ‘suonatori in pensione’ e il compagno di merende gli risponderà convinto che ‘quelle vittime se la sono cercata’.

Chi sarà a raccontare, chi sarà?
Sarà chi rimane.
Io seguirò questo migrare.
Seguirò questa corrente di ali».

2 agosto 2025 - 81 anni dopo - Liberamente tratto dal mio ‘La colpa di esser minoranza’- ed. AliRibelli - 2020

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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