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Chi pontifica sul digiuno non ne ha mai fatto uno
di
Rossella Ahmad
Avete mai provato a digiunare anche solo per un giorno intero? Dall'alba al tramonto, d'estate. Quando i tramonti si allungano e tu fissi quelle strisce di cielo ancora dipinte di rosso, le osservi mentre si stemperano nell'oscurità incombente e il tuo cuore palpita al pensiero del primo sorso d'acqua, e, solo dopo, del primo cibo.
Poco, in piccoli pezzi, con lunghe pause tra un morso e l'altro, per dare tempo al tuo corpo di assuefarsi all'introduzione non più automatica - ma ponderata, pensata, attesa - degli alimenti che ne consentono la vita.
Rido degli incolti che cianciano, senza saperne nulla, di abbuffate post-digiuno. Non ne hanno, con tutta evidenza, mai fatto un solo giorno e possono prendersi il lusso davvero miserabile di dileggiare chi eserciti la sua mente alla supremazia sugli istinti.
Pochissimi possono effettivamente comprendere la fame, in questo primo mondo vestito perennemente a festa, che ha perso il contatto con tutto ciò che prescinda dal soddisfacimento immediato di ogni bisogno materiale, hic et nunc.
Pur trattandosi di una delle paure ataviche del genere umano - morire di inedia, veder morire di inedia i propri figli - non si è mai veramente faccia a faccia con il proprio bisogno vitale di cibo ed acqua e con la mente che non riesce più a contenere altro pensiero che quello, fino a che non inizi a vacillare.
Nella pratica del digiuno il momento in cui spezzi l'astinenza e rimetti in equilibrio corpo e mente arriva prima che tu possa vacillare. Il tuo sacrificio, che è istruzione al contenimento degli istinti, è terminato. Fino all'alba che verrà.
A Gaza non tramonta più il sole sull'astinenza dei corpi.
Ed io comincio ad intravedere segnali di menti che vacillano, nel popolo che è da sempre simbolo globale di forza e di Resistenza, a cui è stato inflitto tutto ciò che è umanamente (im)possibile.
Li vedo negli occhi svuotati di qualsiasi bagliore vitale delle madri che piangono i bimbi morti. Affamati, dicono. Non mitragliati, non fatti a pezzi dai proiettili al tungsteno e neanche bruciati nelle tende di nylon date alle fiamme. Quella è una morte rapida, tutto sommato accettabile.
La lacerazione della fame. Il supplizio della fame. La morte che si dilata per giorni interi , mentre lo stomaco diviene un concentrato di succhi gastrici urticanti, e poi manco più quello.
Li vedo nelle corse disperate dei padri alla ricerca di un pugno di farina, frammista a polvere, più spesso a sangue, conquistata al prezzo della vita di tanti nell'illusione di essere in grado di sfamare i propri piccoli, concetto su cui si sono costituite intere civiltà.
Li vedo nella donna che prende a pugni il proprio viso di fronte al cadavere emaciato di una bimba, in un atto di autolesionismo di cui non esistono tracce nel passato.
A Gaza l'aspettativa di vita è passata da 75,5 a 40,6 anni, la più bassa al mondo, crollata di 35 anni in pochi mesi.
Chi sappia farlo, preghi o si appelli al soprannaturale.
Il tempo della fede nella giustizia umana è terminato a Gaza.
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