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                    Entrarono per rubaredi 
  Rossella Ahmad
  
                    
Il luogo più vicino alla Palestina in cui io sia stata è la collina di Omm Qeis, a ridosso della linea immaginaria che separa la Giordania dalla West Bank. La riva occidentale del fiume Giordano, cioè. 
Confini fittizi, ovviamente. Quella era tutta Palestina, la Giordania fu creata appositamente per  garantire "uno" stato ai profughi scacciati dalle loro terre e case a seguito della Nakba, oltreché per offrire una corona di cartapesta agli hashemiti, che si erano distinti nella mossa più studiata e propedeutica all'infiltrazione sionista in Palestina, e cioè la rivolta contro l'impero ottomano che aveva sino ad allora resistito al tentativo di colonizzazione della Palestina. 
Di Omm Qeis ricordo il verde brillante del paesaggio. Un antichissimo bagno turco tutto al femminile,  in cui mi ritrovai fianco a fianco con anziane donne ignude che si ritempravano ai vapori delle acque termali. E soprattutto la sommità della collina, da cui, nelle giornate limpide, il tuo occhio innamorato riesce a giungere fino  alla  cupola dell'Aqsa. 
Asciugati prima le lacrime sospese  tra le rime palpebrali, però. In caso contrario, l'aria rarefatta e tremula ti impedirà la visione, lontana ed eterea, del simbolo eterno di Gerusalemme e della Palestina.
Se allarghi il tuo sguardo ad abbracciare la riva occidentale del Giordano, respira più profondamente e rallenta i battiti del cuore palpitante: non lo vedi, ma in quella terra sospesa tra paradiso ed inferno, orde di villangers armati di mazze da baseball e mitra  vagano come matti alla ricerca di olivi da estirpare, campi coltivati da bruciare, palestinesi da uccidere. 
Non pensarci ed osserva la placida bellezza del territorio. 
Dal Monte Nebo e da Ajlun, la visione è ancora più prossima. 
Quando vi andammo, il cielo era stranamente torbido, e dovemmo accontentarci di cercare lo spirito della storia palestinese  tra le spesse mura della Chiesa dei Santi Apostoli, la più antica, dicono, della cristianità. 
Le vestigia cristiane più datate, quelle che esistevano al di là della linea verde, nei villaggi di Aboud, di Taibeh e di tutta la Palestina occupata, semplicemente non esistono più. Distrutte con la dinamite a seguito della calata degli Unni, spesso convertite in locali di striptease, talvolta lasciate all'incuria, come dopo un saccheggio medioevale. Poche pietre diroccate  arse dal sole e coperte di erbe spontanee,  a ricordare l'atroce destino dei villaggi depopolati, oggi fantasma. 
Non si meraviglino troppo e non fingano eccessivo stupore  i Tajani di casa nostra per i missili sulle parrocchie di Gaza. È pratica consolidata, che prosegue indisturbata ed indiscussa da eoni. 
È incredibile quello che è accaduto a questa terra ed ai suoi abitanti. 
Il genocidio parte  da lì, dalla prima nave di profughi polacchi accolta con generosità  nel porto di Haifa. Sbaglia chi ne identifichi la data di inizio nell'ottobre 2023. Quella è solo la parte terminale di un processo di spoliazione ed annientamento che dura da cent'anni e che è parte integrante dell'intero progetto sionista, un progetto di sostituzione etnica, fondato sul furto e sulla frode. 
Una curiosità: una startup israeliana ha utilizzato gli Archivi di Stato  per compilare un database di oltre 67.000 richieste di cittadinanza depositate tra il 1937 e il 1947 durante il periodo del mandato britannico in Palestina. Tra di esse, la richiesta di un certo Szymon Perski, polacco, che, all'atto di chiederne l'ingresso, fu obbligato a firmare un giuramento di fedeltà al governatorato di Palestina, in ragione del timore di futuri danneggiamenti alla popolazione autoctona. Cosa che poi effettivamente avvenne. 
La persona in questione mutò poi il suo nome in Shimon Peres, come sempre accadeva. E,  come sempre accade da allora ad oggi,  tutti i patti di lealtà furono gettati alle ortiche. Entrarono per rubare.
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