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Via D'Amelio: caro Mattarella ti scrivo
di
Raffaele Florio
Signor Presidente Mattarella,
trentatré anni dopo la strage di via D’Amelio, Lei ha affermato che “la democrazia è stata più forte della mafia”. E ha reso omaggio, come ogni anno, al sacrificio di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta. Ma mi permetta, con rispetto, di dirLe che queste parole suonano oggi come un’amara consolazione. Per non dire una colossale rimozione.
La democrazia sarebbe stata più forte? Ma quale? Quella che lasciò Borsellino senza adeguata protezione dopo Capaci, sapendo che sarebbe stato il prossimo bersaglio? Quella che, mentre lui continuava con coraggio il suo lavoro, trattava con i carnefici dei suoi amici, cercando un salvacondotto per la politica e per pezzi dello Stato?
Lei parla di assassini e mandanti “sconfitti e condannati”. Ma chi sarebbero, esattamente, questi mandanti? Non certo quelli che stavano dietro ai Riina e ai Brusca. Perché quelli – i “mandanti esterni”, come li definì lo stesso Borsellino nei suoi ultimi giorni – sono rimasti perlopiù senza nome, senza volto e, soprattutto, senza condanna.
Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio è uno dei più gravi della storia giudiziaria italiana. Ma nelle Sue parole non c’è traccia del “falso pentito” Scarantino, delle indagini costruite su menzogne, dei magistrati che si piegarono a quella messinscena.
Non c’è traccia dell’inquietante presenza dei servizi segreti sul luogo dell’attentato. Non una parola sul dossier mafia-appalti, che Paolo Borsellino stava leggendo prima di morire. Non una parola su quella trattativa tra Stato e mafia che le sentenze, almeno in primo grado, hanno confermato.
E allora, Signor Presidente, cosa vuol dire oggi commemorare? È sufficiente parlare di “legalità”, “sacrificio”, “memoria” e “giovani”, se poi si tace sulle responsabilità storiche, politiche e istituzionali? È davvero un modo per onorare Paolo Borsellino o non è piuttosto un modo per archiviare, ogni 19 luglio, ciò che egli stava tentando disperatamente di svelare?
Le sue parole sono, come sempre, impeccabili. Ma la retorica, anche la più alta, rischia di diventare complice del silenzio. Paolo Borsellino non cercava medaglie. Cercava verità. Una verità che fa ancora paura. Una verità che non compare nei discorsi ufficiali.
Onorarlo davvero significa dire quello che lui avrebbe detto, e che non ha fatto in tempo a dire. E se non lo fa il Presidente della Repubblica, chi può farlo?
Con rispetto,
Raffaele Florio
 
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