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Il fallito attentato a Falcone
di
Pino Maniaci
Erano le 7:30 del 21 giugno 1989. Un mercoledì mattina. A pochi passi dalla spiaggia dell'Addaura, una villa, quella che Giovanni Falcone aveva affittato per il periodo estivo.
I primi raggi di sole illuminavano le acque limpide di quel mare palermitano che il giudice amava profondamente.
Stava aspettando i colleghi svizzeri Carla del Ponte e Claudio Lehmann per parlare dell'inchiesta "pizza connection" che riguardava il riciclaggio di denaro sporco ma quel giorno i suoi agenti di scorta trovarono un borsone sospetto in mezzo agli scogli, abbandonato accanto a una muta subacquea e delle pinne. Al suo interno, erano stati nascosti cinquantotto candelotti di tritolo, pronti ad uccidere il giudice quando sarebbe andato a fare il bagno.
L'attentato fallì, forse a causa di un detonatore difettoso. Alcuni giorni dopo, Falcone dichiarò: "Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi".
Qualcuno cercò di scaricare tutta la colpa sul giudice, accusandolo di essere stato lui stesso "a organizzare il tutto per farsi pubblicità". Ma la verità è un'altra e oggi, oltre trent'anni dopo, quelle "menti raffinatissime" continuano a tenercela nascosta.
Non smettiamo di chiederla. Mai dimenticare.
 
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