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Dopo Matteotti, Piero Gobetti
di
Rinaldo Battaglia *
Cos’è un intellettuale ‘illuminato’ e da cosa lo si riconosce?
Sembra una domanda banale, forse d’altri tempi quando - più che discutere sulla fame dei naufraghi dell’isola dei Famosi o quale fosse il senso della X indicata dall'eurodeputato Vannacci o il valore storico della X Mas rispetto a chi cantava Bella Ciao - si preferivano temi più concreti ed importanti per la vita del nostro Paese.
Sicuramente oggi ricorre la nascita di uno di loro, morto molto giovane peraltro. Ma si sa: talvolta è preferibile la qualità rispetto alla quantità. Anche se parliamo di anni di vita.
Mi riferisco a Piero Gobetti, nato il 19 giugno nell’anno 1901 nella sua Torino, che sarà nell’immediato primo dopoguerra non solo la fucina della Fiat ma soprattutto terreno fertile di analisi e studi tra le migliori menti del periodo. Probabilmente è stato il primo vero ’grande antifascista’ d’Italia e questo gli costò la vita già il 15 febbraio 1926. Quel giorno non aveva ancora compiuto 25 anni. Probabilmente per questo - in quanto ‘antifascista dichiarato’ - nell’Italia di oggi non è molto conosciuto e ancora meno amato. Del resto, se a chi grida ‘viva l’Italia antifascista’ mandiamo la Digos, tutto risulta comprensibile e chiaro.
Quando qualche politico oggi onora il Duce o l’attuale Premier, che solo pochi anni fa, lo definiva come ‘il più importante statista italiano del secolo scorso’, dobbiamo sempre ricordarci di questo nome e di questo cognome: Piero Gobetti. E tutte le loro ‘narrazioni’ cadranno in frantumi. Perché la verità storica segue strade diverse dai comizi politici diretti a fans, forse disinformati, forse succubi, spesso drogati dalla tv.
Quando Mussolini il 23 marzo 1919 fondò a Milano, in piazza San Sepolcro, il suo partito fascista, tramite il primo movimento dei ‘Fasci italiani di combattimento’, Piero Gobetti non aveva ancora 19 anni. Nei successivi sei anni di vita capì tutto del fascismo, previde l’oroscopo dell’Italia e la catastrofe a cui sarebbe andata inevitabilmente incontro, se non si fosse intervenuti per tempo. Quella previsione, molto esatta, lo condannò alla morte e l’Italia al punto più infame e tragico della nostra Storia.
Eppure, per davvero pochi in Italia conoscono Piero Gobetti e, anche questo elemento, non ci fa onore. Anche perché, se lo si studiasse, cadrebbe un mantra del pensiero dei ‘figli della lupa’, sin da quando Berlusconi nel 1994 li sdoganò. Pensiero ben venduto soprattutto tramite i media, la televisione in primis. Da anni, ogni discussione, di chi non possiede altri argomenti, parte dal presupposto che tutto ciò che ‘è contro’ sia ‘comunista’. Tutto ha solo due colori: il nero ed il rosso. Come ai tempi del Duce: “Chi non è con noi è contro di noi.” Tema caro anche al compianto Silvio Berlusconi.
Evidentemente non riescono, ancora oggi, a gestire più soluzioni in contemporanea. Evidentemente non hanno mai letto una pagina di Ernest Hemingway quando al suo Robert Jordan faceva rispondere ai partigiani spagnoli, che gli chiedevano se fosse comunista: ‘No, non sono comunista ma solo un antifascista. Da quando ho capito il fascismo’.
Piero Gobetti era per davvero contro il fascismo di Mussolini, perché sin da subito lo aveva ‘capito’, ma non era comunista. Si definiva liberale, di stampo post-illuminista e di apertura al sociale, in altre parole alle istanze - allora molto sentite - delle rivendicazioni del movimento operaio. Ma era veramente aperto a tutti. Quando allo scrivere aggiunse anche l’attività di editore, entrò in contatto con molti intellettuali, soprattutto di idee difformi o almeno non allineate alla sua, come Antonio Gramsci, Luigi Einaudi e don Luigi Sturzo o il futuro premio Nobel Eugenio Montale o ‘pietre d’angolo’ della nostra cultura, quale Benedetto Croce.
Ma il fascismo ha sempre avuto paura dei libri e delle menti libere. Come ogni dittatura, di qualsiasi cromatura essa sia. Perché non ha le minimali capacità di competere con questi.
E non è un a caso che già nei primi anni di regime, prima della disastrosa e criminale alleanza con nazismo di Hitler (il Patto d’Acciaio è del 22 maggio 1939) Mussolini avesse fatto eliminare tutti i suoi antagonisti ed oppositori. Ricordiamocelo quando qualcuno difende il Duce, lo onora, gli dedicava necrologi il 28 aprile sul giornale di città (come nella mia Vicenza fino al 2021) scrivendo ‘Sempre in noi presente’.
Ricordiamocelo quando nel 2025 ancora molte città ‘non’ gli hanno revocato la cittadinanza d’onore e se la tengono stretta, come una mamma tiene a sé un figlio.
Basterebbe solo citare i nomi più illustri, i primi di un lungo elenco di cui - da sempre - si preferisce non parlare e nascondere: Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), Giovanni Amendola (7 aprile 1926 dopo le violenze fisiche del 19 luglio 1925), Carlo e Nello Rosselli (9 giugno 1937) seguito subito dopo dalla morte di Antonio Gramsci (il 27 aprile 1937 incarcerato già nel 1926). E altri minori, per modo di dire, perché nessuna vita è per nessuno ‘minore’. A pensarla così erano – invece - gli uomini di Mussolini.
L’analisi sul fascismo da parte di Piero Gobetti era fortemente negativa e parimenti gli risultava negativa l’indifferenza degli italiani, che si fecero in quegli anni facilmente sodomizzare dal Duce e dal suo squadrismo. Le sue definizioni: “Il fascismo è il governo che si merita un'Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali” credo lo confermino appieno.
Mesi prima Mussolini, con la Marcia su Roma, era arrivato al potere e questo necessitò da parte di Piero Gobetti un convinto rafforzarsi delle sue critiche, anche verso il Re e all’intellighenzia del paese, e l’invito rivolto a tutti di reagire. Essenziale fu un suo saggio datato 23 novembre 1922 (neanche un mese dalla Marcia) - chiamato non a caso ‘L'elogio della ghigliottina’ - in cui apertamente manifestava la sua preoccupazione, ma anche la sua forte volontà di non accettare quella presa del potere, frutto di maniere illiberali e non democratiche.
«Noi siamo come la dura scorza di una noce: proteggeremo i nostri ideali dalla sopraffazione con tutte le nostre forze e fin quando possibile». Chi credeva nei valori della libertà doveva acquisire una scorza dura, pari a quella che ricopre la noce se voleva proteggere il suo ‘frutto’.
A suo dire - come dargli torto? - il fascismo di Mussolini nasceva dall’alleanza tra ‘l'invadenza del cattolicesimo e la demagogia dell'Italia liberale’, o per usare altre sue parole il "Fascismo era l’autobiografia della nazione" e “l'incancrenirsi dei mali tradizionali della società italiana”.
Anche lo stesso Mussolini anni dopo, meno dotato di dialettica, ribadirà il concetto sebbene usando altre parole “Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani.”
Sappiamo tutti poi come è andata a finire per l’Italia.
Per Piero Gobetti e i suoi giovani anni il destino era segnato. Più Mussolini si rafforzava e più volte lui veniva aggredito e bastonato. Ancora prima del delitto Matteotti, il Duce in persona (il 1° giugno 1924) telegrafò al prefetto di Torino, Enrico Palmieri: «Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a Parigi e che oggi sia in Sicilia. Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo e fascismo». Il prefetto capì il senso del messaggio e già, il 9 giugno, Gobetti venne percosso, la sua abitazione perquisita e le sue carte sequestrate. Il giorno dopo toccherà a Matteotti, con esiti ancora peggiori.
Anche Piero Gobetti intuì però bene quel messaggio e il 1° luglio, quando il corpo del deputato socialista non era ancora stato trovato, scrisse sulla sua rivista “La Rivoluzione liberale, “che serviva «la formazione di "Gruppi della Rivoluzione Liberale", formati da uomini di tutti i partiti antifascisti, che combattano il fascismo, questo fenomeno politico che trae i motivi del suo successo e della sua conservazione dalla creazione di ‘un esercito di parassiti dello Stato’. Occorre, a questo scopo, formare un'economia moderna con un'industria ‘libera da ogni protezionismo e da ogni paternalismo di Stato’ … La guerra al fascismo è questione di maturità storica, politica, economica».
Concetti che riprenderà nel suo ”Come combattere il fascismo” il 2 settembre 1924.
Concetti chiari, ribaditi e ripetuti quasi giorno su giorno. Ma non ascoltati. In Italia non c’era la scorza dura e nemmeno la noce matura.
E ad ogni articolo, ad ogni messaggio, seguivano altre violenze subite. E ad ogni violenza altri articoli, in contro risposta, del medesimo tenore:
«Il mussolinismo è un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l'abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza».
Mussolini ed il suo regime decise così di stringere ancora di più i bulloni. Dapprima il deputato fascista, grande invalido di guerra, Carlo Delcroix, accusò Gobetti di manovre parlamentari definite «aborti morali», poi il prefetto di Torino ordinò il sequestro della sua rivista, integrata – per non sbagliare - da un’altra e ancora più violenta aggressione da parte di uno squadrone fascista.
Cicerone 20 secoli prima aveva previsto tutto col suo ‘la forza è il diritto delle bestie’.
Ma la scorza di Piero Gobetti era dura e la noce di qualità. Il 23 dicembre del 1924, fondò così una nuova rivista, ’Il Baretti’, ricevendo la collaborazione del fior fiore dell’antifascismo intellettuale di allora come, tra gli altri, Augusto Monti, Natalino Sapegno, Benedetto Croce ed Eugenio Montale. La nuova rivista durerà poco o nulla: il 1º febbraio del 1925 verrà anche questa sequestrata con il pretesto di «scritti diffamatori dei poteri dello Stato e tendenti a screditare le forze nazionali».
Mi sembra di sentire qualche ministro di questi tempi: quando dall’interno arrivano critiche si parla di ‘discredito patriottico’ e di sporcare l’immagine italiana all’estero. Oppure 'se la sono cercata', vero? O in questi giorni definire ‘provocazioni’ il consegnare il tricolore ad un ministro ed esser bloccato a forza di botte in Parlamento. Tu chiamale, se vuoi, provocazioni ma io le intendo personalmente più come squadrismo di 100 anni fa, come al tempo di don Minzoni e Giacomo Matteotti.
O di Piero Gobetti, contro cui in quegli anni continuarono i sequestri delle sue riviste e i pestaggi violenti degli squadristi, come quello pesantissimo, a Torino, del 5 settembre 1925.
O come un mese dopo, il 27 ottobre, quando il prefetto d'Adamo diffidò «il Direttore responsabile del periodico La Rivoluzione Liberale, Prof. Piero Gobetti, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2 del R. D. 15 luglio 1923, n. 3288, e del R. D. 10 luglio 1924, n. 1081», a adeguarsi alle direttive del Regime. Poiché l'8 novembre la rivista disattese l'ordine, l'11 novembre il prefetto ingiunse la cessazione definitiva delle pubblicazioni e la soppressione della stessa casa editrice per «attività nettamente antinazionale».
Piero, in attesa del primo figlio e sempre più fisicamente sofferente di scompensi cardiaci, provocati ed aggravati dalle continuate violenze subite, decise così il 3 febbraio 1926 di emigrare a Parigi (alla stazione di Genova andrà a salutarlo per l’ultima volta Eugenio Montale) e da là proseguire nella sua attività di ‘informazione e lotta la fascismo’. Ma la salute era fortemente già compromessa. L'11 febbraio si ammalerà di bronchite: trasportato il 13 del mese in una clinica di Neuilly-sur-Seine e lì vi morirà il 15 febbraio del 1926.
Piero Gobetti ci lasciò una infinita serie di lettere, scritti e documenti quale monito ed ‘avviso ai naviganti’ del nostro paese. Se qualcuno avesse voluto ascoltare. Ma chi era in grado di farlo era al confino, in carcere o già sottoterra. Oppure compromesso col regime. Quel figlio, Paolo, nato due mesi prima che Piero Gobetti morisse, prima di diventare un affermato giornalista e regista, dopo l’8 settembre 1943 a 18 anni proseguirà la lotta antifascista del padre. Questa volta con armi in pugno tra i partigiani di Giustizia e Libertà.
Cos’è un intellettuale ‘illuminato’ e da cosa lo si riconosce?
Un ‘uomo’ come Piero Gobetti di certo e lo si riconosce dal fatto che dopo quasi cento anni dalla sua morte in Italia pochi ne parlano. Noi amiamo ultimamente altre narrazioni, più soft e più di facile appeal elettorale, spesso in tv a reti unificate. Anche questo è fascismo: cos’altro?
Noi non amiamo chi non la pensa come chi comanda e troppo spesso confondiamo il diritto delle opposizioni con il disprezzo generale, considerandole fastidiose provocazioni.
La breve vita di Piero Gobetti dovrebbe essere da faro illuminante nella notte anche in questi tempi in cui l’Italia e il mondo stanno tornando indietro.
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* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
 
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