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Dai confini interni abbattuti alla Fortezza Europa
di Giuseppe Franco Arguto
Nel giugno 1985 cinque Stati dell’Europa occidentale – Francia, RFT, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo – firmano a Schengen un’intesa che mira a eliminare i controlli di polizia alle frontiere comuni. Il gesto è duplice: ristabilire la fiducia fra potenze che, solo quarant’anni prima, si erano affrontate in due guerre mondiali sullo stesso territorio; accelerare l’integrazione fuori dal perimetro formale della Comunità europea, usando la cooperazione intergovernativa come laboratorio sperimentale (la cosiddetta “avanguardia a geometria variabile”).
Sul piano simbolico, Schengen rovescia la logica di frontiere come cicatrici: si passa alla frontiera-membrana, porosa per capitali e lavoratori comunitari. È l’atto fondativo di un nuovo immaginario europeo, celebrato come “caduta interna dei muri” a pochi anni dalla caduta esterna del Muro di Berlino.
Dietro la narrazione idealista (“pace, libertà di circolazione”) operano due forze materiali: Schengen non abolisce il confine, lo trasferisce. Rinasce come cerniera esterna – il famoso “anello d’acciaio” – che diventa più rigido via via che nuovi Stati entrano nell’area senza controlli interni.
Risultato: un continente attraversato da check-point invisibili (banche dati, algoritmi di rischio, Frontex), mentre i respingimenti si esternalizzano verso Libia, Turchia, Niger.
La retorica del “diritto di libera circolazione” si applica a chi possiede passaporti di serie A; agli altri resta il doppio recinto di visti selettivi e corridoi umanitari limitati, attivati e a cui accedono solo quei migranti per cui si stabilisce "la misura di emergenza".
Schengen mostra la contraddizione di fondo dell’integrazione capitalista: a) abbattere i muri che frenano la circolazione della valorizzazione; b) erigere muri più alti contro chi minaccia la gerarchia del lavoro e della cittadinanza. L’Europa diventa così un mercato senza popolo (per i cittadini globali) e una fortezza senza rifugio (per i migranti poveri).
Una lettura libertaria suggerisce di spingere oltre la smilitarizzazione interna, estendendola oltre le frontiere esterne, superando la logica di cittadinanza esclusiva e riconoscendo la mobilità umana come diritto, non merce né minaccia.
40 anni dopo quell'accordo cosa ci mostrano le frontiere, i confini e, soprattutto, le popolazioni in movimento che, chi per una ragione, chi per un'altra, tentano di varcarle in cerca di accoglienza, proprio nell'Europa che si è sempre assunta il titolo di "patria dei diritti"?
L'immagine a corredo di questo post può racchiudere migliaia di parole, ma mai significativamente eloquenti come quello che riporta alla mente: una vittima delle politiche securitarie dell'Europa culla del diritto capitalista.
Sono storie che dimentichiamo nel breve arco di tempo: in questi quaranta anni, finché gli immigrati ci hanno fatto comodo, ne abbiamo permesso la circolazione; quando la cosa è sfuggita di mano ai burocrati e faccendieri, si è iniziato ad erigere muri, installare reti di filo spinato, pattugliare i confini marittimi, costituire campi di prigionia per gli immigrati che non sono in regola con le disposizioni di legge vigenti nei paesi che li ospitano; ciò a dire che sono in una posizione illecita, secondo quelle leggi, ma non hanno commesso alcun reato e, tuttavia, sono trattenuti e rinchiusi nei CPR: evoluzione del diritto internazionale o scenari di ordinario razzismo?
L’Accordo di Schengen fu presentato come svolta pacifica e post-nazionalista. In realtà ha prodotto un dispositivo bifronte: libertà differenziale all’interno, controllo disciplinare all’esterno. Comprendere questa ambivalenza è essenziale per qualsiasi progetto di integrazione realmente solidale: o si democratizza la frontiera, oppure la libertà di movimento resterà il privilegio di pochi, garantito dalle catene invisibili di molti.
 
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