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Migranti: razzismo istituzionale
di Soumaila Diawara
È veramente disarmante.
Il ragazzo americano che ha brutalmente ucciso una donna e una bambina a Villa Pamphili, a Roma, è entrato illegalmente in Italia passando da Malta su un catamarano. E non stiamo parlando di un cittadino qualunque: aveva già cinque condanne alle spalle negli Stati Uniti per violenza domestica. Cinque!
Nonostante le numerose segnalazioni per comportamenti violenti e i controlli effettuati dalle forze dell’ordine, nessuno si è accorto che fosse irregolare. Nessuno. Come se bastasse esibire un passaporto americano per essere automaticamente al di sopra di ogni sospetto, al di sopra della legge.
Io, che ho tutti i documenti in regola, ogni volta che vengo fermato dalla polizia devo aspettare almeno venti minuti mentre verificano, controllano, dubitano.
E allora mi chiedo: perché questo trattamento differenziato? Perché tutto questo zelo viene riservato solo a chi ha la pelle più scura o un passaporto meno “prestigioso”?
Perché uno statunitense, già condannato per violenza domestica, viene lasciato circolare liberamente, mentre tanti altri devono dimostrare costantemente di non essere pericolosi?
Se questo uomo fosse stato controllato con il dovuto rigore, senza i filtri del pregiudizio positivo che accompagna certi passaporti, forse oggi quella donna e quella bambina sarebbero ancora vive.
Il pregiudizio uccide.
Il razzismo istituzionale non è solo un’ingiustizia: è una complicità silenziosa nella violenza.
E di fronte a tutto questo, non possiamo restare in silenzio.
 
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