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04 giugno 2025
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I martiri di Capistrello
di Rinaldo Battaglia *

Bertolt Brecht diceva che «la guerra è solamente un traffico: invece di formaggio, piombo».

E’ quanto avvenne e fu la causa per quanto riguarda l’eccidio di Capistrello a pochi passi da Avezzano (L’Aquila) il 4 giugno 1944, giorno della liberazione di Roma. 81 anni fa.

Antonio aveva allora 14 anni ed era il terzo di 7 fratelli. L’ottava sorellina sarebbe nata il giorno dopo. Il padre Loreto e lo zio Alfonso erano sfollati e avevano trovato rifugio in una baracca in una ex cava di pietre, scavata dopo il terremoto del 1915, in una zona semi-nascosta. Da contadini avevano allevato alcune pecore e qualche mucca, con cui cercavano di sfamare le due famiglie. Così altre famiglie di sfollati.

In quel giorno, benedetto per i romani ma maledetto a Capistrello, arrivarono all’alba un gruppo di tedeschi e di fascisti (parlavano bene l’italiano con accento del posto) bene armati e pronti a tutto, pur di rubare il bestiame. Tutti gli uomini e i ragazzi più grandi vennero prima presi, portati e rinchiusi nella rimessa della piccola stazione ferroviaria di Capistrello. Vicino c’era una fossa molto profonda, causata da una vecchia bomba alleata.

Un tedesco fece uscire i 33 prigionieri, uno ad uno, mentre un altro li indirizzava verso la fossa. Lì un soldato sparava nella nuca al disgraziato e lo gettava, come fosse letame, con un calcio nella buca stessa, qualora il corpo non vi fosse caduto direttamente.

Dalla rimessa si sentirono a un certo punto le grida spaventate di Giuseppe, tredici anni non ancora compiuti e candidato alla morte. E le grida – si sa – danno talvolta fastidio, talvolta nel lavoro ti deconcentrano. Il comandante chiese quindi che fosse subito fatto uscire e fucilato.

Antonio, uno zio di Giuseppe, capì tutto e non volle assolutamente che uscisse. Vennero così presi entrambi, portati sulla fossa e fucilati assieme. Hanno avuto il favore di morire contemporaneamente, non uno alla volta.

Vista, o meglio intuita la scena, gli altri prigionieri della rimessa uscirono tutti di scatto: Angelo morì gridando «Viva l’Italia. Morte ai tedeschi. Morte ai fascisti». Alfonso e Loreto, zio e padre di Antonio, uscirono assieme e caddero nella fossa tenendosi per mano. «Viva l’Italia. Morte ai tedeschi. Morte ai fascisti». Parole semplici ma piene di valore in quel periodo.

«Viva l’Italia. Morte ai tedeschi. Morte ai fascisti».

Poco prima ad un altro ragazzo, Piero di 19 anni, forse perché aveva preso una sigaretta a un tedesco, gli vennero strappati i testicoli, dopo averli legati stretti con del fil di ferro. Dopo minuti di atroce dolore lo finirono a colpi di fucile.

Alla fine, uccisi tutti, rubato il bestiame, gli assassini se ne andarono a fare danni e portare la morte altrove. Nel nome del Fuhrer e del Duce. Il giorno dopo, nata, orfana di padre, la sorellina di Antonio, i figli degli uccisi consumarono la giornata nel pianto, seppellendo i loro cari. Antonio (Antonio Rosini) divenne adulto e, impegnato politicamente anche a livello di Consigliere della Regione Abruzzo, non volle mai arrendersi.

Creò un’associazione per la verità sui martiri di Capistrello e dopo lunghe e difficili ricerche arrivò, nel 1986, a sapere che un tedesco, Siegfried Oelschlegel, passato per quella zona in quel periodo, era divenuto parroco a Grunwald, un paese vicino a Monaco di Baviera. Volle incontrarlo e ottenne informazioni importanti oltre alla sua parola – vera o falsa – che non era stato presente nei giorni del massacro. Le informazioni lo indirizzavano a cercare dei nomi a Colonia, ma lì trovò sempre e solo porte chiuse.

Si mosse qualcosa solo 10 anni dopo, quando – scoperto l’Armadio della vergogna – poté riprendere le ricerche e arrivare al nome del comandante del massacro: il tenente delle S.S. Haing Nebgen, un criminale accusato di analoghi eccidi anche in altri paesi dell’est Europa.

Non si riuscì ad andare oltre: Nebgen era già morto da pochi anni e così molti altri suoi commilitoni. Il 25 gennaio 2001 la pratica venne definitivamente archiviata. Troppo tardi. Troppo tardi, causa le coperture dell’armadio.

Troppo tardi per arrivare a sapere perché la sorellina era nata orfana di padre. Troppo tardi per arrivare a giudicare un gruppo di assassini, vestiti da ladri, in fuga da Roma, cresciuti anche loro nella propaganda di Hitler e di Mussolini. Protetti da mille complici, anche senza divisa.

Che Dio ci perdoni tutti. Ivi compreso chi oggi difende questi crimini, col solito alibi delle rappresaglie previste dalle leggi di guerra. E se fossero ancora convinti, che lo spieghino bene e convincano anche Antonio e gli altri ragazzi, privati dei padri e della verità, in una mattina di prima estate, dove vennero uccisi 33 innocenti.

Quanto aveva ragione Bertolt Brecht. Come dargli torto?

4 giugno 2025 – 81 anni dopo Liberamente tratto dal mio ‘La colpa di esser minoranza’- ed. AliRibelli – 2020

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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