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Femminicidio: una patologia culturale
di
Francesco P. Esposito *
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L’ergastolo non funziona come deterrente nel femminicidio.
Non lo dico per opinione: lo dicono i numeri, la criminologia, l’esperienza.
Deterrente significa qualcosa che scoraggia dal compiere un crimine.
Una pena che dovrebbe far dire: “Non lo faccio, altrimenti mi rovino la vita”.
Ma chi uccide la compagna, l’ex, la moglie, di solito non ha paura delle conseguenze.
Agisce nel delirio del controllo, nella logica:
“Se non è mia, non sarà di nessuno”.
E se anche prevede l’ergastolo, spesso lo considera un danno collaterale accettabile.
O peggio: nemmeno lo calcola.
Per questo serve prevenzione, non solo punizione.
Serve educazione sentimentale: insegnare a riconoscere emozioni, limiti, rifiuti.
Serve educazione sessuale: per capire che possesso, dominio, gelosia non sono amore.
Chi pensa che tutto questo renda i figli deboli, “mollaccioni col monopattino”,
è parte del problema.
Perché l’alternativa non è il figlio forte:
è il figlio che cresce convinto che l’altro sia un oggetto.
E allora sì, a chi deride l’educazione affettiva,
va il mio disprezzo, il mio rifiuto,
e anche la mia maledizione civile:
essere ricordati come quelli che hanno riso mentre i corpi cadevano.
* Criminologo forense, componente del Comitato tecnico-giuridico dell'Osservatorio
 
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