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25 maggio 2025
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Obiettori di coscienza all'epoca del duce
di Roberto Neri

Solo quando gli otto condannati, coi ceppi che rendono goffi i loro movimenti, vengono scaricati nel cortile in mezzo ad ufficiali e militi italiani e tedeschi, il tenente Giuseppe Avezzano Comes apprende il compito che spetta a lui ed ai suoi carabinieri.

All’alba del 14 gennaio 1944 il tenente, un giovane avvocato pugliese, aveva condotto i venti uomini del suo plotone al forte San Martino, dominante sulla città di Genova, dove lo avevano comandato di recarsi con un ordine di servizio urgente, che non citava il motivo.

All’inizio il forte era semideserto. Perplessi, dopo un’ora i carabinieri stavano per andarsene quando arrivava il corteo di mezzi coi prigionieri. Solo in quel momento Avezzano Comes viene informato da un console della Milizia fascista (un pezzo grosso per l’epoca) del perché si trovano lì.

L’alta carica del regime ha fretta; sbrigativamente mette il tenente al corrente che dovrà comandare la fucilazione degli otto prigionieri. E’ la rappresaglia per l’azione dei partigiani che la sera prima a Sampierdarena hanno eliminato un ufficiale tedesco. Lo ha deciso nella notte il Tribunale speciale.

Eh no -replica Avezzano Comes che di legge ne sa parecchio, e che certo non è contento di essere rimasto nella parte d’Italia ora occupata dai nazifascisti- primo, il Tribunale speciale non si occupa di tedeschi quindi la condanna è illegale e, secondo, i carabinieri non prendono ordini dalla Milizia.

L’ufficiale rifiuta così di procedere. Circondato da altri graduati e ripreso dal console, viene fatto spintonare e rinchiudere da alcune SS dentro una casamatta. Da lì assiste. I carabinieri sono fatti allineare dal console, pronti a fucilare gli otto già disposti lungo il muro del cortile.

All’ordine di “fuoco!” il plotone alza i fucili opponendo un silenzioso rifiuto; il console allora raduna le poche SS e delega a queste il compito. A due a due, costretti a salire sui giustiziati morenti, tutti gli otto vengono colpiti; un ufficiale medico passa poi a finire tutti con il colpo di grazia.

Subito dopo l’esecuzione, quasi avessero timore di quanto commesso, i nazifascisti di fretta lasciano il forte San Martino; liberato, l’ufficiale riporta il plotone in caserma e immediatamente distrugge l’elenco coi nomi dei suoi carabinieri, così da creare difficoltà in caso di ritorsioni su di loro.

Avezzano Comes sarà fatto arrestare da Basile, prefetto di Genova della cui scandalosa vicenda di impunito parleremo in un prossimo racconto. Verrà tradotto ad Alassio e sanzionato con la detenzione; scapperà ma verrà ripreso e consegnato ai tedeschi, picchiato e seviziato.

Nelle loro mani rischierà di finire deportato, ma la Liberazione arriverà prima; da ex tenente l’avvocato Avezzano Comes (nella foto ritratto e in quella col suo plotone) tornerà a Genova nel 1975 per ritirare la cittadinanza onoraria, proposta dall’ANPI, e scoprire una lapide che lo ricorda. Dei venti carabinieri che rifiutarono di dare seguito a quello che passerà alla storia come “l’eccidio del forte San Martino” non si conosce la fine.

Gli otto assassinati avevano dai 31 ai 57 anni; li scelse il prefetto tra i detenuti. Alcuni erano partigiani, altri semplici cittadini che avevano criticato il governo di Mussolini; di costoro, il tramviere Romeo Guglielmetti era finito mesi prima a Marassi solo per aver scioperato contro il regime.

(per approfondire vedi C. Brizzolari “Una città nella Resistenza!”, Valenti editore, 1992 Genova)


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