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Marinella: sono scivolata ma non sono davvero morta
di
Francesco P. Esposito *
Le canzoni dicono amore.
I capolavori, invece, ti sbattono la faccia nel sangue.
Maria Boccuzzi non è un nome da fiction.
È una del Sud, portata a Milano come si porta un mobile vecchio: con la speranza che serva a qualcosa.
A quindici anni comincia a scivolare.
Manifattura tabacchi in via Moscova, uno studente con più fame che idee, e poi la fuga di casa.
Si chiamava amore, sembrava un aquilone. Si è sfilacciato col primo vento.
Maria resta sola, infangata.
In quell’Italia, se sei donna e da sola, sei già colpevole.
O ti metti a sgambettare, o ti fanno mettere giù le mutande.
Lei sceglie il palco, si fa chiamare Mary Pirimpo.
Già dal nome si capisce che nessuno la prenderà sul serio.
Locali notturni, promesse vuote, mani che strusciano.
Jimmy, ballerino in pensione e venditore da strapazzo, le fa credere di volerla lanciare.
La lancia sì, ma in un pozzo senza fondo, dove si scende solo a rate: un cliente per volta.
Poi spunta Carlone.
E Carlone non parla. Agisce.
Maria finisce dentro una casa chiusa, ma la libertà l’aveva già persa prima.
Quando arriva la guerra, si chiude pure quel bordello legale.
Maria va in strada.
Tra nebbia, camion e fiati cattivi, col freddo che ti entra nelle ossa
e gli uomini che ti guardano come se fossi carne appesa.
28 gennaio 1953.
Sei colpi. Freddo cane.
Maria cade. Nessun colpevole.
Solo una donna in meno. Nessun corteo. Nessuna giustizia.
Solo un sussurro sporco tra i denti:
“Eh, ma se fai quella vita lì...”
No.
Non è caduta. L’hanno lasciata cadere.
Maria non è morta per errore. È morta perché non contava.
Perché era da sola. Perché era una di quelle che non fanno rumore nemmeno da morte.
E oggi?
Cambiano le luci, i nomi, i social. Ma il copione è lo stesso.
Le Marinelle non muoiono mai per caso. Muoiono perché qualcuno gira la faccia dall’altra parte.
* Criminologo forense, componente del Comitato tecnico-giuridico dell'Osservatorio
 
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