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Passato coloniale italiano: rompiamo il silenzio
di Fabio Alberti
In questi giorni mi trovo a Ustica, insieme a una delegazione della società civile italiana. Siamo qui per un gesto semplice ma profondamente politico: rendere omaggio alle vittime della deportazione coloniale italiana, restituire loro voce, dignità e memoria. E, soprattutto, riaffermare la richiesta di istituire una Giornata del ricordo delle vittime del colonialismo italiano.
Troppo a lungo l’Italia ha rimosso questa parte della sua storia. Abbiamo preferito raccontarci come “brava gente”, costruendo un’immagine rassicurante e autoassolutoria del nostro passato coloniale. Ma i documenti, i racconti, le testimonianze ci dicono altro. Ci parlano di brutalità, violenze sistematiche, deportazioni di massa. E ci dicono anche che i colonizzati non furono solo vittime: furono resistenti.
Questo percorso non nasce oggi. È la verità storica che abbiamo voluto riportare alla luce lo scorso anno, quando abbiamo proiettato per la prima volta nei cinema "Il leone del deserto", un film censurato per 44 anni in Italia proprio perché rompeva il racconto ufficiale. Mostrava il colonialismo italiano visto da chi lo ha subito, da chi ha combattuto per liberarsene.
Abbiamo scelto Ustica come luogo simbolico. Qui si sono incrociate – seppur in modo indiretto – due forme di resistenza: quella degli anticolonialisti libici, deportati e imprigionati, e quella degli antifascisti italiani, confinati sulla stessa isola. Due storie diverse, ma accomunate dalla stessa lotta contro l’oppressione. Per questo, nel “Cimitero degli arabi”, apporremo una targa con una poesia scritta durante la prigionia da un deportato libico, affiancata ai versi di un antifascista italiano, dedicati proprio alla lotta anticoloniale. Due voci che si parlano a distanza di tempo, due memorie che oggi tornano a unirsi.
Perché ricordare non è un esercizio del passato: è un atto politico necessario per capire il presente. Le attuali politiche migratorie, commerciali e militari dell’Italia e dell’Europa sono figlie dirette di quella storia. Non possiamo comprenderle – né trasformarle – senza guardare in faccia quella genealogia coloniale che le attraversa.
Pianteremo anche un ulivo tra le tombe dimenticate, per dire che quella storia ci riguarda ancora. Che la memoria non è un fatto chiuso, ma una chiamata all’azione.
 
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