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La scelta di Bruno
di
Rinaldo Battaglia *
Se qualcuno - dalle mie parti anche vicentine – volesse, veramente, capire la differenza che esiste tra fascisti ed antifascisti o il divario tra chi era della X Mas e chi cantava ‘Bella ciao’, basterebbe che salisse un poco per la valle del Chiampo, partendo dalle Contrà Negri Pilota o Cappello nella zona ‘alta’ fino - passando per San Pietro Mussolino e Altissimo - ad arrivare a Crespadoro.
Sono terre massacrate durante l’estate 1944 e non solo dai nazisti del magg. Ludwig Diebold ma, anche e soprattutto, dai fascisti del 40° Btg motorizzato ‘Verona’ G.N.R. comandati da Ciro Di Carlo (il ‘siciliano dagli occhi sciacallo’ che prendeva ordini direttamente dalle S.S. di Verona), delle Brigate Nere di Vicenza, della X Mas operativa da Valdagno, degli uomini del Btg. OP, della Compagnia GGL della GNR o del PAR di Vicenza oltrechè dalle varie squadre d’azione del PFR locale.
Giunto, davanti al piccolo cimitero di Crespadoro, troverebbe un Monumento ai Caduti, semplice ed umile ma che straripa di dignità. Come le genti di queste terre che hanno fatto, da sempre, dell’umiltà e della dignità le pietre angolari del loro vivere.
E dovrebbe studiare, con calma e poesia, la scritta di quel monumento: “Per onorare quanti sacrificarono la loro vita per farcene avere una migliore”. Credo di aver letto molto nella mia vita, ma in nessun libro, non ho mai trovato in così poche parole così tanta verità.
Per onorare quanti sacrificarono la loro vita per farcene avere una migliore!
E se quel qualcuno passa dalla Valle del Chiampo a quella vicina dell’Agno, con le stragi del settembre ’44 nell’operazione ‘Timpano’, la realtà gli risulterà ancora peggiore. E sempre nella parte degli assassini, oltre ai nazisti di Ludwig Diebold, i nostri fascisti di Ciro Di Carlo, Paolo Antonio Mentegazzi, Giovan Battista Polga, Otello Gaddi, il meglio del peggio del fascismo in valle. Cinque uomini che, messi assieme, non ne valevano neanche uno, o forse nemmeno mezzo.
Non diversamente nell’altra valle, più ad est, la Val Leogra ai piedi del Pasubio. Terre di martiri, terre di eroi antifascisti. La mia terra vicentina.
Oggi 10 maggio 2025 in Sala Calendoli al Teatro Civico, nella mia Vicenza, si è onorato un eroe che il 17 giugno 1944 “sacrificò la sua vita per farne avere agli altri una migliore”. Aveva quel giorno 22 anni, troppo giovane per morire perché a quell’età devi avere una vita davanti, non alle spalle e sottoterra.
Si chiamava Bruno.
Bruno Brandellero, anche se poi si battezzò “Ciccio”, quando scelse la vita di partigiano, nelle pattuglie proprio della sua Val Leogra.
Era della classe 1922, l’anno della Marcia su Roma e come tutti i suoi coetanei era cresciuto nel mondo fascista, nella scuola fascista con maestre fasciste che, sin dal gennaio 1926, avevano espresso fedeltà al regime perché altrimenti non avrebbero potuto insegnare.
Renzo De Felice, lo storico più esperto sulla vita del Duce, dirà più tardi che, in quegli anni, al fascismo di Mussolini ‘non bastava più piegare i corpi ma voleva totalmente possedere anche le loro anime’.
E Bruno, figlio di contadini, era vissuto ed alimentato come un pollo d’allevamento in quello scenario ‘di libro e moschetto: il fascista perfetto’ o ‘La Nazione deve essere pronta alla guerra non domani, ma oggi’, come disse il Duce il 24 agosto 1934 in piedi su un carro armato.
Dei benefici del regime aveva solo goduto sotto il profilo sportivo: amava infatti l’esercizio fisico ed in particolare il pugilato, molto graditi e stimolati in quegli anni. Arrivò persino a vincere, anche a livello regionale, alcuni incontri di pugilato (il termine ‘boxe’ non era autarchico e pertanto vietato). Ma già nel ’41 con la guerra, preannunciata da anni, in Grecia e Jugoslavia, come tutti quei giovani, dovette abbandonare il lavoro di meccanico e partire soldato. L’anno dopo, causa un grave problema di salute (alle tiroidi), fu avvicinato a casa e destinato al servizio di guardia dell’ospedale militare di Monselice, nel padovano, e fu lì che si trovò, abbandonato come tutti quei soldati, la sera dell’8 settembre ’43.
Ma era anche arrivato il momento di scegliere da che parte stare e Bruno, sebbene avesse conosciuto solo il fascismo e nessuna altra alternativa, prese la strada dei boschi di casa. Anziché scegliere la strada della X Mas, ad esempio, preferì quella di chi intonava ‘Bella ciao’. A Monselice tutti gli consigliavano invece un’altra soluzione: restare lì, quasi da imboscato. Il suo posto all’ospedale gli avrebbe garantito maggiori possibilità di sopravvivenza, specie ora che la fame – era facile prevederlo - si sarebbe fatta, ancora di più, sentire in tutto il nostro Paese.
Non ci pensò due volte: fu tra i primi ad arrivare tra i partigiani che bazzicavano nella zona di S. Antonio e Valli del Pasubio, la sua terra, e mettersi agli ordini di ‘Binda ‘ (Domenico Roso), forse il più esperto tra di loro. Più tardi, quella formazione partigiana si farà chiamare «I Martiri di Val Leogra» (e forse già il nome indicava un destino preciso) e farà parte della brigata garibaldina “Garemi”. Il gruppo fu molto sostenuto, alimentato ed appoggiato dalla popolazione locale e sin dall’inizio si dette molto da fare contro le forze nazifasciste presenti nella zona. Bruno o, meglio, “Ciccio”, divenne subito un riferimento per tutti ed in breve venne nominato ‘sottotenente’ della formazione partigiana, molto rispettato e seguito.
Dopo le azioni nazifasciste di inizio giugno’44, sia nella valle del Chiampo che dell’Agno, dove vennero uccisi alcuni capi partigiani, la situazione peggiorò anche sulla Val Leogra.
Domenica 11 giugno però il gruppo di Bruno, con lui al comando, riuscì a catturare un ammiraglio nazista con la sua scorta in località Tagliata, sopra Sant’Antonio. Poteva essere usato per scambi e per ottenere importanti informazioni, oltre a far capire al nemico che la realtà era ben diversa dalle sue previsioni ed attese.
Ma in guerra non sempre ci sono solo ‘nemici’ ed ‘amici’, con confini netti e separati tra di loro. Spesso e quasi sempre per denaro – e i nazifascisti erano maestri nello stimolare questo commercio, come analogamente in quello degli ebrei – alcuni ‘amici’ si vendono. Cambiando di brutto la situazione sul campo.
Così avvenne anche in Val Leogra. Pochi giorni dopo, il 16 giugno, una pattuglia guidata sempre da Bruno – una decina di uomini in tutto – si fermò in contrada Vallortigara, sulla strada tra i boschi che porta verso l’altopiano del Tretto. Era tardi, vennero tutti rifocillati dalle famiglie del posto e trovato un riparo, in una 'tezza' sopra una stalla, si fermarono per la notte.
Ma all’alba successiva, quella di quel maledetto 17 giugno, arrivarono diretti sul posto, causa di certo una delazione – mai provato ma difficile pensare altrimenti - alcuni reparti appiedati della Luftwaffe e alcune compagnie del 263° Battaglione orientale, formato da ucraini. Ovviamente non potevano mancare i fascisti: quelli della GNR di Schio, di Piovene Rocchette e anche di Velo d’Astico. Per non essere da meno erano presenti anche alcuni uomini della Polizia trentina.
Lo scontro a fuoco che ne scaturì fu di una violenza inaudita, visto il netto divario delle forze in campo. I nazisti bruciarono dapprima metà della contrada, a causa delle bombe incendiarie usate per stanare i partigiani (la seconda metà sarà bruciata dopo lo scontro a fuoco con obiettivo di rastrellare più persone possibile). Nei combattimenti – durati alcune ore - rimasero subito uccisi tre soldati ucraini e due partigiani.
Altri due partigiani rimasero feriti ma riuscirono a scappare insieme ad altri cinque, grazie e soprattutto all’azione di Bruno che, inizialmente e volutamente, attirò su di sé i nazifascisti. Ma poco dopo, nella zona di S. Caterina di Tretto due di loro vennero catturati.
Erano i partigiani mantovani, Ghisi e Vigoni, peraltro disarmati. Il primo, l’ex carabiniere Renzo Ghisi, legato e picchiato, venne colpito su entrambi i piedi da colpi di arma da fuoco e poi trascinato da un carretto per 11 chilometri; infine ucciso con una raffica di mitra sulla strada Vallortigara-S. Sebastiano. Il secondo, Guido Vigoni detto “Mantovan”, perché anch’egli originario di Ostiglia aveva neanche 23 anni ed era stato carabiniere prima di diventare partigiano. Catturato, venne picchiato e portato via dalle truppe tedesche. Non se ne seppe più nulla ed il suo corpo mai più ritrovato. Le foibe – anche se la narrazione corrente risulta diversa - non sono mai state esclusivo metodo di lavoro dei comunisti di Tito.
I due partigiani uccisi risultarono “Scimmia” (Enrico Zambon un ragazzo di 27 anni della vicina Torrebelvicino) e “Nostrano” (Mario Piazza, peraltro, proprio di S. Antonio del Pasubio, di non ancora 20 anni).
Nel rastrellamento che infuriò per tutta la giornata furono fermati e tradotti a Schio, dove vennero detenuti per almeno quattro giorni, circa 50 persone della Val Leogra. Tra questi vi erano anche Lovato e Cicchellero, che furono però uccisi sulla strada del ritorno. Il primo, originario di S. Quirico in valle dell’Agno, faceva il malghese sul monte Novegno; fermato dai tedeschi immediatamente dopo lo scontro a fuoco di Vallortigara, venne privato dei documenti. Un ufficiale tedesco, sopraggiunto in un secondo momento, trovandolo quindi senza documenti lo condannò a morte.
Il secondo, legato ai partigiani della pattuglia di Vallortigara, venne catturato con le armi in pugno. Incolonnati insieme agli altri prigionieri della vallata, successivamente rilasciati, vennero uccisi a raffiche di mitra nel tratto di strada sotto contrada Tomasi e la chiesa di S. Sebastiano. Sulla strada ponte Verde-colle Xomo vennero uccisi Cervo e Cortiana. Il primo, originario di Posina, faceva il malghese; il secondo, riformato in quanto invalido civile, era boscaiolo. Incappati nelle maglie del rastrellamento vennero uccisi forse perché scambiati per partigiani. O forse no.
Nel frattempo, in contrada Vallortigara, Bruno Brandellero, dopo aver facilitato la fuga dei suoi, rimasto isolato e con il mitra inceppato o privo di munizioni, riuscì invece solo a divincolarsi e a trovare riparo, senza però abbandonare la contrada. Visto il magro risultato, ben diverso dalle attese, i nazifascisti decisero di radunare in una piazza i civili che vi trovarono e di preparare il campo per una sommaria esecuzione di tutti. Ne presero solo 17. La loro colpa? Di avere sostenuto i partigiani, così li dissero.
Non meravigliamoci. Li avrebbero uccisi.
Neanche 3 settimane dopo, nella Valle del Chiampo dal 9 all’11 luglio ne massacreranno 54, tra cui il sacerdote don Luigi Bevilacqua ferito e bruciato vivo dentro la sua chiesa di San Pietro Mussolino e 51 civili, ivi compresi 4 ancora bambini o ragazzi (Lorenzo di 5 anni, Rosa di 3 e poi Biagio e Cesare di neanche 16 anni). Vennero bruciate e distrutte 210 case, 195 fienili, 129 stalle messe a fuoco, 2.483 animali da cortile uccisi oltre ad altri almeno 100 da pascolo. Oltre 800 persone rimasero senza un tetto sulla testa.
Neanche 3 mesi dopo nella 2^ fase dell'Operazione “Timpano” nella Valle dell’Agno (dal 9 al 12 settembre) uccideranno (oltre a 46 partigiani) ben 16 civili innocenti; con almeno 247 sono le famiglie vicentine sinistrate; case, stalle, fienili, casoni, mobili, vestiti, tutto bruciato con il lanciafiamme e distrutte con bombe a mano e cannonate. È importante qui fu il contributo anche della X Mas e della M Mussolini di Merico Zuccàri. Ditelo magari anche a qualche politico oggi di voga.
Fu in quel momento che, in contrada Vallortigara, Bruno Brandellero, chiamato ‘Ciccio’, si fece avanti. Bob Dylan un giorno scrisse che "Un eroe è chi capisce il grado di responsabilità che deriva dalla sua libertà".
Bruno così si comportò. Si consegnò spontaneamente per evitare che 17 civili della contrada, tutti ancora radunati all’aperto sotto il tiro di una mitragliatrice, venissero ammazzati come cani.
Non solo: capì che i nazisti avevano lì fallito quel giorno e che qualcuno di loro avrebbe fatto una figura meschina verso i propri kommandant. Per convincere che lasciassero liberi i 17, destinati a morte certa, accontentandosi solo della sua testa, decise di esagerare nel suo ruolo, accrescendo il suo peso all’interno della brigata Garemi. I nazifascisti avrebbero così potuto dire di aver arrestato vivo ’il capo’, il ‘numero uno’ di zona: sarebbero tornati alla base soddisfatti e forse promossi anzichè puniti o derisi.
E, per esser sicuro che liberassero i 17, insistette nel dire che aveva personalmente obbligato la popolazione di Vallortigara, sotto la minaccia delle armi, a dare ospitalità e soccorso ai suoi uomini. Li avrebbe uccisi – disse - se non lo avessero fatto. Sapendo bene a cosa sarebbe personalmente andato incontro.
E così avvenne.
La fucilazione dei 17 civili venne sospesa, gran parte degli ostaggi fu rilasciata e solo alcuni furono condotti a Schio per essere interrogati e poi liberati.
Bruno venne invece subito legato e picchiato a sangue, e vigilato da una scorta armata, condotto prima a Valli del Pasubio e quindi nelle carceri del comune di Marano Vicentino, dove si trovava di stanza il 263° Battaglione orientale. Qui venne torturato per 9 lunghi giorni e 9 notti, ancora più lunghe. Volevano nomi, luoghi, programmi, piani di lotta. Lo sentirono gridare dal dolore, lo sentirono persino ululare dal male, ma non riuscirono mai a farlo parlare. Alla fine, furono costretti ad ucciderlo, il giorno 26 giugno, senza averne ricavato nemmeno una mezza informazione utile. Non potevano fare oltre. Venne fucilato da un plotone di esecuzione sempre lì a Marano Vicentino e sepolto vigliaccamente come «ignoto» nel cimitero cittadino.
Se non è eroismo, cos’era?
Questa è stata dalle mie parti la lotta di Liberazione dal nemico nazista, invasore, e dal nemico fascista, socio ed alleato degli invasori. Non ci possono essere parificazioni. Vi è una netta differenza, se la si vuol vedere.
Il maestro locale Giovanni Lotto, di recente, ha scritto un libro sull’eroismo di Bruno Brandellero, quale esempio della lotta per la libertà. Il titolo spiega tutto: “L’ultimo ululato. La guerra giusta di Bruno”. E a suo dire è rivolto ai giovani, alla nuova generazione, all’Italia di domani. Ma anche affermati storici, quali Piero Casentini e, soprattutto, il grande storico locale della Resistenza, Ugo De Grandis (vedasi “Vallortigara giugno 1944. Un episodio emblematico della Resistenza alto vicentina” - Edizioni grafiche Marcolin Schio, Schio – 2010) hanno scritto pagine degne di menzione in merito.
Il 18 aprile 1953, Bruno Brandellero venne insignito della medaglia d’oro alla memoria al valor militare, con la seguente motivazione:
“Nel corso di un duro rastrellamento condotto da ingenti forze tedesche ed ucraine resisteva valorosamente in contrada Vallortigara al comando di tredici partigiani contro alcune centinaia di nemici, infliggendo gravi perdite. Incendiato il borgo, morti cinque dei suoi uomini, con generoso slancio balzava sparando contro il nemico, attirando su di sé l’attenzione e consentendo ai superstiti di disimpegnarsi. Ferito, catturato e duramente seviziato, manteneva contegno fiero ed esemplare e, al fine di indurre il tedesco a non esercitare ulteriori rappresaglie sulla popolazione, affermava di aver costretto, armi in pugno, i civili a dar ricovero ai partigiani. Portato pressoché morente, davanti al plotone di esecuzione, trovava ancora la forza per inneggiare alla Patria Italiana.”
Il 18 aprile 1953, venne insignito della medaglia d’oro: lo farebbero anche oggi?
Questa è stata, dalle mie parti, la lotta partigiana contro il nazifascismo. Tutto il resto sono chiacchiere da bottega, comizi da campagna elettorale o ‘narrazioni’ deviate, falsità di partito o ignoranza storica di base. Se qualcuno non lo avesse ancora compreso appieno, la strada verso il Monumento ai Caduti del piccolo cimitero di Crespadoro resta sempre pronta ad aspettarlo.
Ed è sufficiente fermarsi davanti a quella scritta: “Per onorare quanti sacrificarono la loro vita per farcene avere una migliore” per chiedersi – magari - come saremmo oggi se non ci fossero stati quelli che morirono per la nostra libertà. La mia libertà, la tua e la sua.
Chi è antifascista li onora, chi non lo è li ignora. Anche in questo vi è una netta differenza.
Tutto il resto sono chiacchiere da bottega, comizi da campagna elettorale, ‘narrazioni’ deviate o il tempo che torna indietro.
10 maggio 2025 – 80 anni dopo -
liberamente tratto dal mio 'L'ultimo viaggio da Vò Vecchio ad Auschwitz' - Ed. AliRibelli - 2024
* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
 
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