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12 maggio 2025
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Guerra è uccidere e c'é poco da esserne fieri
di Luigi Quartucci

Mio nonno materno aveva 21 anni nel 1915, l'anno in cui l'Italia, alleata con Austria e Germania nel patto della Triplice Alleanza, entrò in guerra dall'altra parte con Inghilterra, Francia e Russia, alleate nella Triplice Intesa. Non c'è da meravigliarsi, l'Italia non ha mai concluso una guerra dalla stessa parte con cui l'aveva cominciata.

Ma questo, per ora, non importa. Mio nonno, dicevo, era un ragazzo come tanti che viveva la sua vita e aveva tanti sogni nel cassetto, un lavoro, una famiglia, una bella casa, dei figli. Ma i suoi sogni quell'anno si interruppero e si trovò precettato in fanteria; quattro anni di guerra tutti sul Carso, tutti in trincea, nel fango, nella sporcizia, tra i topi, col costante terrore di essere ucciso.

Mi raccontò che un giorno, mentre mangiava il rancio accanto a un commilitone, udì un colpo e un attimo dopo vide la testa del suo compagno volare via, tranciata di netto dal colpo di un cecchino.

Tornò a casa nel 1918, segnato nell'anima e nel corpo come migliaia di altri soldati. Nei quattro anni in trincea contrasse, senza accorgersene, una malattia del sangue che molti anni dopo lo avrebbe condotto alla tomba. Ma ebbe il tempo di godersi un'altra guerra mondiale, stavolta dalla parte di quelli che aveva combattuto per quattro anni. Anche in questo caso dovette aspettare tre anni, poi la guerra continuò con l'Italia dall'altra parte della barricata, al suo solito.

Parlava poco della guerra, ma mi raccontò abbastanza da far crescere in me l'odio per le armi e per gli eserciti.

Non fosse bastato lui, mio padre si godette anche lui quattro anni al fronte nella seconda guerra mondiale, Albania, Grecia, poi sarebbe dovuto andare in Africa ma la nave fu silurata dagli inglesi e lui si salvò a nuoto per miracolo. Dopo il ribaltone del '43 gli toccò risalire l'Italia con gli Alleati. Finita la guerra tornò a casa e non ne volle mai più sentir parlare.

Mi raccontò poche cose perché le esperienze vissute erano troppo dolorose, ma bastarono a incrementare il mio odio verso gli eserciti.

Venne purtroppo il giorno in cui toccò a me indossare una divisa e imparare a maneggiare le armi. Per fortuna nella Marina Militare facevamo anche molte cose piacevoli come imparare a tracciare le rotte, governare una nave, uscire in barca a vela, fare immersioni con lo scafandro da palombaro. Ma dovetti anche imparare a sparare con pistola, fucile e mitra e a lanciare le bombe a mano. E facendolo mi resi conto che quegli oggetti che impugnavo avevano un solo scopo, ammazzare altri uomini che non conoscevo e che non mi avevano fatto niente ma che qualche idiota gallonato aveva stabilito essere miei nemici.

Quando mi congedai il mio comandante in seconda mi disse che ero l'unico militare di complemento di sua conoscenza che era riuscito a stare in Marina per due anni senza prendere assolutamente niente della mentalità militare. Lo ringraziai dicendogli che quello, per me, era il più bel complimento che potesse farmi.

La guerra è follia, la guerra è uccidere, creare dolore, sofferenza, soffrire a propria volta, e non ha mai nessuna reale giustificazione.

Niente di ciò che ha portato a una guerra non si sarebbe potuto risolvere parlando. Ma l'uomo sceglie sempre la via più facile; parlando c'è il rischio di dover ammettere che anche l'altro può aver ragione.

Allora, piuttosto, si impugnano le armi e si uccide.

Non parlatemi di armi, non parlatemi di guerra, nessun animale pensa a soluzioni per uccidere più avversari in meno tempo come fa l'uomo, nessun animale aggredisce i suoi simili se non per mandarli via dal suo territorio di caccia, indispensabile per lui se vuole mangiare, e se se ne vanno non si sogna di aggredirli.

Solo l'uomo uccide perché gli piace, senza motivo. E c'è poco da esserne fieri.


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