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Un arciprete contro
di
Rinaldo Battaglia *
Un venerdì di marzo del 2023 (il giorno 3 per la precisione) a Milano presso il Giardino dei Giusti al Monte Stella, nei pressi dello stadio San Siro, gestito e curato dall’associazione “Garden of the Righteous Worldwide” assieme al Comune di Milano, ad un sacerdote della mia terra è stato conferito ‘post mortem’ il titolo di “Giusto dell’Umanità“.
Era il Monsignor Girolamo Tagliaferro, 'don Girolamo' per tutti, nativo di Campiglia dei Berici, Basso Vicentino, qualche decina di chilometri da dove sono nato. Ma fu soprattutto a Schio - qualche altra decina di chilometri da dove ora io vivo – che si fece notare. Era lì arrivato, nel lontano 1932 quale parroco del paese, ad età già matura (45 anni) e vi rimarrà fino al 1957, quanto all’ombra dei 70 anni si ritirò a vita privata.
E ne aveva forse diritto, dopo un’esistenza al servizio degli altri e dell’uomo, inteso come ‘creatura di Dio’ e quindi come fratello da sostenere e salvare nel momento del bisogno. Senza tener conto di leggi, ordini, vantaggi di partito, convenienze economiche o politiche.
E non fu un caso che in quel 3 marzo fossero presenti ad onorarlo molte persone e più figure istituzionali ed ecclesiastiche in rappresentanza di Comuni, della Curia di Vicenza, di varie associazioni. Tutte in segno di massimo rispetto e - perché no? - di un po’ di orgoglio, perché ‘don Girolamo’ era stato uno di loro. Uno di noi.
Eppure durante la sua vita i dolori personali e familiari non gli sono mai mancati. Ha pagato a caro prezzo la sua coerenza e il suo modo di essere prete negli anni del fascismo.
Si deve sapere che – come scrisse anni fa l’ANPI di Cremona a firma di Giuseppe Azzoni e come bene altresì documentato dallo storico vicentino Ugo De Grandis, che più di altri ha studiato la vita di don Girolamo, facilitando il raggiungimento dell’onorificenza del 2023 - la sua figura attirò a suo tempo le attenzioni di uno dei forti uomini del fascio, quel Roberto Farinacci che emerse tra gli altri per la violenza nel suo operare e per i suoi ‘arricchimenti’ veloci e sporchi di sangue.
Ebbene, durante i 20 mesi di Salò, tramite il settimanale politico cattolico controllato dalla RSI, la “Crociata Italica”, e altri giornali del fascio come “Il Regime Fascista”, Roberto Farinacci ad alcune figure clericali a lui vicine (don Tullio Calcagno, don Remo Cantelli, don Angelo Scarpellini ed altri, come ricorda Ugo De Grandis) diede lo stimolo ‘religioso’ affinchè perorassero fortemente la causa del nazifascismo tra l’opinione pubblica, scontrandosi apertamente con chi non era ‘in linea’ col regime dopo l’8 settembre 1943, definendo questi, quasi offendendoli, come “i reverendi badogliani” e talvolta, ancora più direttamente, persino quali ‘arcipreti contro’.
Ulteriore conferma che non solo l’Italia, dopo quella data, fosse divisa in due tra filofascisti e oppositori, non solo nella popolazione civile ma anche nella Chiesa e negli uomini di Chiesa. Al di là del sospettoso silenzio assordante di Pio XII, da molti definito ’il papa di Hitler’ e non solo dallo storico John Cornwell.
Al richiamo degli ‘arcipreti a favore’ nella nostra terra uno dei primi a rispondere fu proprio il nostro Mons. Girolamo Tagliaferro, allora a Schio già consapevole dei crimini del peggior fascismo e di come gli uomini del fascio locale fossero ‘culo e camicia’ coi nazisti e talvolta anche peggio di loro. Era di certo ‘un arciprete contro’ nel lessico fascista perché 'testimone' di come i fascisti locali si stessero comportando nell’Alto Vicentino.
In particolare dopo il 17 febbraio 1944, quando l’uomo forte del Duce, il Federale di Vicenza Giovanni Caneva, aveva ordinato la ‘precettazione’ (ossia l’arresto col fine del lavoro coatto, anche nei lager nazisti) di “tutti gli idonei al lavoro di sesso maschile dai 18 ai 60 anni”. Lo scopo era duplice: rafforzare i viaggi verso Buchenwald o Mauthausen e parallelamente eliminare nei fatti ‘tutte le persone nocive’ alla causa fascista sia partigiani, o familiari di partigiani. Bastava solo una segnalazione al Fascio repubblicano, anche a mezzo lettera anonima, anche a mezzo ‘delatori’ di professione pagati per ‘scovare’ nemici o presunti tali.
Dirà a guerra finita il direttore delle Poste di Schio, Giovanni Dazzi, che nei mesi successivi alla Circolare di Giovanni Caneva il servizio postale andò completamente in crisi. Causa quante lettere arrivarono, con l’indicazione di "mandare in Germania" persone non in linea col pensiero fascista o solo semplici persone nei cui confronti si nutrivano rancori personali, generati in quegli anni così tragici.
E dalla delazione ai rastrellamenti il passo fu breve e conseguente. Sarà in questo clima infernale, alimentato dai fascisti di Schio, che si arriverà all’eccidio, a guerra finita nella notte tra il 6 e 7 luglio '45, ad un ingiustificato ed ingiustificabile regolamento dei conti con 54 morti (tra cui commissario fascista Giulio Vescovi) e una ventina di feriti.
Mons. Tagliaferro, da ’arciprete contro’ rispose, senza tanti peli sulla lingua, ai ‘preti di regime’ già sul bollettino della parrocchia “La fiamma del Sacro Cuore” del dicembre ’43, contestando “quegli scritti nel merito e soprattutto dimostrando, con il Codice di Diritto Canonico, che i loro autori non erano legittimati a scrivere e parlare in quanto sacerdoti. Apertamente dunque invitava i fedeli a non rischiare di essere ingannati" (riprendo parole testuali di Giuseppe Azzoni).
Poteva piacere al ras Farinacci e ai vertici della RSI?
Partì una campagna diffamatoria (e non solo) contro don Girolamo tramite “Il Regime Fascista” e il giornale fascista “Il popolo vicentino”, il megafono locale. E ovviamente il bollettino “Fiamma del Sacro Cuore” venne subito chiuso.
Ma don Girolamo non fermò alle parole. Da buon parroco era uomo ‘di fatti’. Anche a Schio c’era la Shoah, anche a Schio la lotta partigiana era viva, anche a Schio la gente soffriva la fame. A guerra finita si venne a sapere che aveva nascosto e salvato almeno (documentati) 45 ebrei provenienti da Ferrara, Trieste e dalla Jugoslavia, ricercati dagli uomini di Giovanni Caneva o dal ‘seniore’ Silvio Toniolo, originario non a caso di Schio, grande rastrellatore nell'Alto Vicentino e comandante del campo di concentramento per ebrei della vicina Tonezza del Cimone (almeno 45 gli ebrei spediti poi da qui ad Auschwitz, di cui una bambina di 2 anni).
Tra gli ebrei salvati a Schio da don Girolamo, si menzionano le sorelle Ada, Bice e Lidia Morpurgo, che vennero nascoste per quasi due anni nel'Istituto del Sacro Cuore, grazie al supporto determinante delle locali suore. Lo stesso per le famiglie Eppinger e Bruckner, alloggiate nelle Istituzioni di Schio e dintorni. E dove non si poteva ‘ospitare’, procurò ad altri ebrei documenti di identità falsi e trovò il modo di mandarli salvi in Svizzera (come confermeranno le famiglie di Carlo Fölkel ed Enrica Steif).
Non solo: don Girolamo divenne punto di raccolta di viveri, vestiti e soprattutto medicinali e riferimento per partigiani, prigionieri alleati e ricercati politici o per tutti i civili bisognosi.
Anni dopo, e comunque ben prima della morte di don Girolamo - avvenuta il 27 gennaio 1965 a Vicenza - Lidia e Bice Morpurgo non mancheranno di rendere pubblico il nome del loro salvatore, sebbene questi fosse schivo a certe pubblicità : "Nutriamo una grande gratitudine per quel nobile sacerdote, anche perché mai ci fece alcuna pressione per convertirci alla sua fede. Sarebbe stato ucciso anche lui come i suoi fratelli se la guerra si fosse prolungata ancora".
Perché a don Girolamo i fascisti del Duce fecero ben presto pagare il suo ruolo di ’arciprete contro’, indipendentemente o meno dal dictat di Roberto Farinacci.
Il 5 maggio 1944 uomini della “Compagnia della morte” (la squadra d’azione della Federazione provinciale dei Fasci repubblichini) arrivarono nella casa dei suoi fratelli a Campiglia dei Berici. Due fratelli, Arnaldo e Gerardo Tagliaferro – uno maestro di scuola elementare, l’altro contadino – presi alla sprovvista, furono catturati e, senza alcun processo, massacrati a raffiche di mitra. La colpa: ufficialmente quale rappresaglia dopo il ferimento, da parte di ignoti, del capo del fascio del paese. Cercavano anche un terzo fratello, Giuseppe, che riuscì a salvarsi scappando prima.
La morte dei due fratelli non lo bloccò e per i 12 mesi successivi di guerra don Girolamo non fece che proseguire nel suo cammino.
Non solo: era talmente autorevole e riconosciuto come ‘persona perbene’ anche dagli stessi uomini del Duce nell’Alto Vicentino - oramai sconfitti anche qui - che nell’ultima settimana di aprile 1945 il Comando della Divisione partigiana “Garemi” lo incaricò di trattare la resa dei fascisti e dei tedeschi di stanza a Schio. E questi lo accettarono, senza problemi, quale ‘giusto mediatore’.
Il 3 marzo 2023 don Girolamo è stato finalmente onorato per i suoi meriti. Le parole di motivazione sono peraltro più che eloquenti:
“Il riconoscimento di Giusto dell’Umanità viene tributato alle figure esemplari di resistenza morale che in ogni tempo e in ogni luogo della Terra hanno fatto del bene salvando vite umane, si sono battute in favore dei diritti umani durante i genocidi e hanno difeso la dignità della persona”.
Eppure durante il regime era stato giudicato quale ‘arciprete contro’. Contro chi e contro cosa, poi?
5 maggio 2025 - 81 anni dopo - liberamente tratto dal mio 'L'ultimo viaggio da Vò vecchio ad Auschwitz' - Ed. AliRibelli - 2024
* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
 
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