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17 aprile 2025
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Ci si arrende
di Rinaldo Battaglia *

Il 17 aprile 1941 - 84 anni fa - la Jugoslavia si arrese, a seguito dell'invasione nazifascista, ad Hitler e poi a Mussolini. Ma se la nostra entrata in quella guerra è stata almeno all’inizio – dal 6 aprile, 11 giorni prima - decisamente ‘univoca’ (ha fatto tutto il Duce senza opposizione interna, eliminata da anni e appiattita dalla propaganda, come avvenuto anche su leggi criminali come quelle sulla razza del ‘38) non altrettanto è stato, in quel momento, il fronte jugoslavo.

Il 25 marzo ‘41, quando le truppe nazifasciste erano al massimo dello splendore e pronte oramai alla conquista dell’URSS, la Jugoslavia del Presidente Dragisa Cvetkovic e con uomo forte Aleksandar Cincar-Markovic, si alleò con Hitler e Mussolini, pronta a entrare in guerra e beneficiare del successo del momento.

Come voleva fare Mussolini nel giugno ‘40. Ma, forse, qui anche sotto minaccia del Fuhrer. Due giorni dopo vi fu però la mobilitazione generale contro questa scelta e la sostituzione del governo col generale serbo Dusan Simovic, totalmente contrario e anti-Asse. Hitler rispose seduta stante con l’invasione, utilizzando il massimo delle sue forze e della sua ferocia, provocando subito la resa inevitabile della Jugoslavia (17 aprile ‘41).

E qui entrammo in campo anche noi, peggio di avvoltoi affamati sulla preda morente, come lupi con la bava alla bocca. Stesso copione del giugno ‘40 contro la Francia, stremata e a terra senza forze, come ben ricorda il quadro di sangue di Dunkerque. Mussolini, grande stratega o vero sciacallo?

Credo che chi non sia del partito del “Ma ha fatto anche cose buone” ma ami la storia nuda e cruda non abbia dubbi in merito alla risposta. Stratega? Purtroppo della nostra Seconda Guerra Mondiale si ricordano più facilmente le grandi sconfitte, sebbene con il massimo onore, massimo coraggio, massimo valore da parte dei nostri soldati. El Alamein, Nikolaevka sono solo le punte di quell’iceberg. E la nostra riconoscenza non sarà mai pari o adeguata alle loro fatiche. Non era colpa della truppa, ma della struttura, del commando e di come poco fossero preparati.

Sciacallo? Quella dello sciacallo sarà per il Duce invece solo una delle tante medaglie che lo porteranno pallido sulla strada verso Piazzale Loreto. Tra centinaia di migliaia di nostri morti, prima e dopo Piazzale Loreto. Purtroppo.

Gli storici indicano in 480 mila circa i morti italiani nella Seconda Guerra Mondiale, di cui 320 mila militari, a cui andrebbero aggiunti almeno 620 mila prigionieri, internati sui vari fronti. Difficile quantificare i civili e soprattutto per le cause specifiche. Non vengono infatti considerati i deceduti per malattie e fame, generate dalla guerra. Credo che quantificare in almeno un milione sia un numero più completo. All’entrata in guerra l’Italia (Istria compresa) contava 44 milioni di abitanti e quindi ci attestiamo almeno sul 2%.

A ognuno poi resta la risposta alla domanda se ne valesse davvero la pena. Perché quel 2% erano persone, uomini, donne, bambini con tanto di nome e cognome, con tanto di diritto alla vita come me e voi, come il restante 98%. Quella che inizierà il 6 aprile ‘41, sarà una delle pagine peggiori della nostra storia di conquiste fuori dai confini nazionali, costellata da orrori e crimini, una storia gestita dal peggio del peggio che il regime di Mussolini potesse mettere in campo, a quel tempo.

Peggio forse delle terribili atrocità commesse in Libia o in Etiopia/Abissinia.

E non è un caso che in Jugoslavia agirono, nel biennio ‘41-’43, anche quei generali che si macchiarono le mani di sangue dei massacri nelle nostre, allora, colonie. Avevano là lavorato bene. Ora era opportuno utilizzarli vicino a casa nostra. Criminali di guerra, di nome e di fatto, iscritti nell’elenco del marzo 1948 della War Crimes Commission dell’ONU.

Qualcuno pagherà presto anche per questi orrori e massacri, purtroppo. Prima o poi i conti si pagano, sempre.

E così il 17 aprile la Jugoslavia cessò di vivere. Il suo corpo – ufficialmente dall’8 luglio ’41 - venne sbranato e suddiviso tra la Germania, l’Ungheria, la Bulgaria e, per soddisfazione del Duce, l’Italia.

A noi spettò la regione slovena di Lubiana, quasi tutta la Dalmazia, quasi tutte le isole adriatiche. A Nord i fascisti croati del Duce Pavelic (gli Ustascia, in croato ‘rivolta’) autoproclamarono il Regno indipendente di Croazia, offrendo la corona al nostro principe Aimone di Savoia Aosta, che furbescamente accettò ma senza mai prenderne possesso. Troppo rischioso.

Ebbe così inizio una violentissima lotta, tutti contro tutti, senza esclusione di colpi, senza limiti e regole. Partigiani slavi contro le forze di occupazione tedesche e italiane, partigiani serbi (cetnici) contro croati, ustascia contro serbi ed ebrei, monarchici contro nazionalisti, fascisti contro comunisti.

I comunisti erano per lo più serbi, guidati da Tito, di padre croato e madre slovena. Una babele completa. Particolare il caso, ma non unico, della Slovenia, con collaborazionisti (quelli che formeranno dopo l’esercito Slovensko Domobranstvo) e belogardisti contro la resistenza slovena e indipendentista. Tra i primi va ricordato che, subito dopo l’invasione italiana, ben 105 sindaci sloveni mandarono messaggi al Duce di «giubilo e orgoglio per l’incorporazione dei territori sloveni nel grande Regno d’Italia». Lo stesso fece l’arcivescovo di Lubiana, mons. Gregorij Rozman, molto legato al Vaticano di Pio XII.

Sull’Arcivescovo ci sarebbe molto da dire e da contraddire. Figura molto opaca e controversa, per molti un eroe, per altri un mediatore, per altri un criminale o, meglio, sostenitore di criminali. È la classica fotografia della Chiesa nel papato di Pio XII. Tutto e il contrario di tutto. In parole e fatti.

Perfettamente anticomunista e disposto a compromessi con il demonio per questo obiettivo, in uno scenario di “stop and go”. Di lui si ricordano le messe e le preghiere per Mussolini, tipo quella solenne di ringraziamento del 22 maggio ‘41, magnificamente sfruttata dalla propaganda del fascio, ma si ricordano anche le forti lamentele e le chiare lettere di protesta verso i metodi di Robotti, come quella del 24 ottobre ‘41, dove peraltro – non so se fosse un caso – accusava le truppe nazifasciste anche di confiscare le proprietà della diocesi slovena.

Insoddisfatto, volle incontrare il Papa ma sembra che, dopo l’incontro del maggio ‘42, lo stesso Pio XII gli abbia consigliato di darsi una calmata, evitando condanne pubbliche perché nel caso in cui lo avessero arrestato non avrebbe potuto poi aiutare la comunità cattolica slovena.

L’Arcivescovo si calmò e divenne un tramite con la resistenza slovena. Nell’agosto ‘42 i gen. Roatta e Robotti lo incontrarono minacciando di distruggere e bruciare l’intera città di Lubiana, oltre a uccidere o deportare tutti i civili, se non si fossero subito fermati tutti gli attacchi dei partigiani (comunisti e non) contro le truppe d’occupazione italiane e tedesche. Rozman invitò così 21 rappresentanti degli ex partiti politici operanti in Slovenia prima dell’invasione (non quindi il partito comunista, che era stato messo fuorilegge e che considerava un nemico a tutti gli effetti) ma di fatto riuscì solo a redigere un misero memorandum consegnato al gen. Robotti, dove si accettava semplicemente di collaborare contro i comunisti.

“”Per quanto riguarda Lubiana, si propone quanto segue come urgente: […] Dovremmo essere autorizzati, per così dire, a istituire un Corpo di Polizia Segreta di 500 uomini, da armare di revolver. Possiamo assicurare che entro sei settimane verranno trovati, arrestati e consegnati elementi pericolosi alle autorità. Quelle persone che hanno false carte di identità e che circolano liberamente per le strade sarebbero identificate e arrestate con l’aiuto dei cittadini. In questo modo Lubiana diventerebbe una città pacifica e ordinata in cui non ci sarebbero più comunisti. Allo stesso tempo, si farebbe tutto per rimodellare l’opinione pubblica con l’aiuto di una forte e continua propaganda anticomunista. Queste proposte sincere mostrano la buona volontà della maggioranza della popolazione e creano la possibilità di raggiungere l’obiettivo dato in un modo che deve piacere anche alle autorità La sua eccellenza, il generale Roatta, ha affermato che le persone devono ora scegliere tra ordine e bolscevismo. Abbiamo scelto l’ordine e proponiamo l’unico modo che, a nostro modesto parere, sia efficace e sicuro di raggiungere un ordine completo in collaborazione attiva con le autorità””.

Il documento (scritto in più lingue) è ora custodito nella Biblioteca del Congresso a Washington D.C. Ivi comprese le note a margine del gen. Robotti: “”Le guardie di sicurezza che il vescovo suggerisce, corrispondono a milizie locali che hanno il compito di difendere i loro villaggi contro i comunisti e di essere disponibili per azioni nell’area locale - ci sono molte di queste milizie, che contano un totale di 1.000 uomini. Stanno facendo il loro lavoro in modo decisivo, non solo dal punto di vista militare, ma anche come polizia, come dice il vescovo””.

Sicuramente per l’Arcivescovo Rozman il nemico da sconfiggere era il comunismo, ma non nascose, neanche al Vaticano, i crimini del nazifascismo nella sua terra. Storici affermano che intervenne «almeno 1318 volte per conto di 1.210 individui» al fine di proteggere i deportati sloveni in Serbia, Croazia e Italia o Germania stesse. Documenti parlano di 350 sacerdoti e 1.700 bambini. Azioni che diedero scarsi risultati, ma che non possono essere dimenticate.

Probabilmente venne «usato», come lui stesso ebbe modo di dire nel 1946 a un altro importante prelato sloveno (vescovo Joe B. Zabkar): “”Per tutti i contatti che ho avuto con gli italiani, mi dispiace sinceramente. Tutti. Non ho realizzato nulla, non ho salvato nessun ostaggio, impedito di non una deportazione, non si salvò nemmeno una casa dal fuoco incendiario, non si alleviò una sola sofferenza. Niente, assolutamente niente. Mi hanno sempre promesso tutto, ma non mi hanno mai dato niente””.

Peggio fece dopo l’8 settembre ‘43, quando avvenne la sostituzione del regime di Robotti con quello nazista di Friedrich Rainer, uno dei gerarchi più criminali soprattutto verso gli sloveni, superando in ferocia quanto prima commesso dagli italiani. Le ulteriori deportazioni (anche di sacerdoti) nei lager, le ulteriori e maggiori confische di beni ecclesiastici e privati, la proibizione dell’uso dello sloveno a qualsiasi livello ne furono solo dei piccoli assaggi. Rainer non venne ostacolato da Rozman, che non lesinò fotografie e incontri assieme. Se ne parlò persino nel processo di Norimberga, in merito alle azioni dei Domobranci, in sinergia coi nazisti, anche contro civili solo sospettati di aver aiutato i partigiani comunisti.

Una lettera pastorale di Rozman, datata 30 novembre ‘43, è stata considerata a Norimberga prova di antisemitismo e collaborazionismo («solo con questo coraggioso combattimento e laboriosa opera per Dio, per il popolo e la Patria, noi, sotto la guida della Germania, assicuriamo la nostra esistenza e il nostro futuro migliore nella lotta contro la cospirazione ebraica») oppure il messaggio di Natale ai soldati della guardia nazionale slovena, serva dei nazisti, nel dicembre ‘44 quando oramai Tito era in arrivo («stai difendendo la tua nazione contro lupi e sciacalli… che stanno avvelenando le anime con la mentalità straniera del comunismo ateo»).

E sicuramente anche in questo caso i nazisti sfruttarono le referenze e l’appeal dell’Arcivescovo sulla collettività slovena. Inevitabile che, prima che arrivassero i comunisti di Tito, questi scappasse coi tedeschi verso l’Austria (a Klagenfurt, zona britannica e non certo sovietica). Mentre in Jugoslavia lo processavano in contumacia e lo condannavano a 18 anni di lavori forzati (30 agosto ‘46), mentre il Papa ufficialmente lo aveva rinnegato e gli aveva vietato l’accesso in Vaticano, con l’accusa di aver abbandonato il suo incarico in Slovenia senza il suo consenso, Rozman con l’aiuto di un altro alto prelato, Ivan Saric vescovo a Sarajevo (quello passato alla storia come il “boia di Sarajevo”) e questo sì ben visto da uomini del Papa, si fermò varie volte a Berna, usò strade vaticane per fuggire dapprima in Argentina e poi negli Stati Uniti (Cleveland in Ohio) con un anomalo visto per visitatori.

A Berna venne coinvolto peraltro in alcune frodi nel mercato nero, ove si cercava – chissà come mai – di convertire oro in dollari – chissà da dove provenivano – da destinare poi tramite l’Italia a Buenos Aires. Si parlò molto anche di un coinvolgimento nelle operazioni di Ante Pavelic, il duce ustascia, che ritroveremo nella nostra storia più volte e sempre dalla parte sbagliata. Non si ha contezza se i dollari convertiti dall’oro siano stati davvero trasferiti in Argentina e in che misura. Quello che è stato accertato è che l’Arcivescovo Gregorij Rozman visitò ben tre volte l’Argentina (1949, 1952, 1956), prima di morire nel 1959 a Cleveland, a 76 anni suonati.

Dopo la fine del comunismo di Tito, tornata indipendente, in Slovenia iniziò un’azione di recupero della figura dell’Arcivescovo Rozman, conclusa con la riabilitazione e la restituzione delle spoglie, ora sepolte nella Cattedrale di Lubiana.

La figura dell’arcivescovo Rozman, da qualsiasi parte la si prenda, resta l’emblema della confusione e della complessità di quella guerra e di quel luogo che, assieme alla Dalmazia – altra sede della contesa di tutti contro tutti – erano di nostra competenza, con innumerevoli massacri e crimini contro la popolazione civile.

Massacri e crimini che furono all’ordine del giorno. Ogni fazione accusava la popolazione locale, indipendentemente dall’etnia, di aver favorito i rivali. E i rivali erano tantissimi, confusi tra etnie, credi religiosi, colore delle divise o fanatismi ideologici diversi. Avvennero persino tensioni tra italiani e ustascia – sebbene dalla stessa parte politica e sebbene Pavelic avesse come proprio idolo Mussolini – per cui dal ‘42 vi furono anche alleanze locali tra italiani e gruppi di cetnici.

Alleanze, se vogliamo, contronatura. Chi ci capiva qualcosa - allora - era meritevole della vittoria al premio Nobel per la fisica nucleare. Chi - oggi - conosce solo le foibe slave, contro gli italiani, senza capirne il contesto generale ha già perso tutto il resto. Su questo fronte noi italiani, visto i risultati, ci siamo già arresi da tempo.

In Italia alla politica e alla propaganda di partito, da anni con facilità ci si arrende. 17 aprile 2025 – 84 anni dopo - 8 giorni alla Festa della Liberazione dal nazifascismo (così mi hanno detto a scuola, ma io non ci ho mai creduto) - Liberamente tratto da ‘La colpa di esser minoranza’ - ed. AliRibelli - 2020

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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