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10 marzo 2025
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Torniamo alla Costituzione
di Raffaele D'Agata *

Il 1° gennaio 1897, in un’Italia traumatizzata e divisa dal disastro di Adua, dalle appena passate e non ancora superate furie poliziesche di Francesco Crispi, e dalle disperate rivolte degli schiavi delle solfare siciliane, l’autorevole e certamente seria “Nuova Antologia di Scienze Lettere ed Arti” pubblicò un articolo del brillante ed emergente leader parlamentare Sydney Sonnino (grande ammiratore del conservatorismo riformatore e illuminato di Benjamin Disraeli) sotto il forte e chiaro titolo di “Torniamo allo Statuto”.

In effetti, cioè, lo Statuto albertino del 1848, esteso “plebiscitariamente” al Regno d’Italia nel 1861, fondava una monarchia costituzionale, nella quale il governo era concepito come “governo del Re”, fondato sulla fiducia di questi, controllato ma non investito dal Parlamento.

Era stata semmai una precoce prassi, voluta e instaurata nel Regno di Sardegna dalla forte e incisiva personalità politica di Camillo di Cavour, che aveva sovrapposto di fatto a questa forma la sostanza di una monarchia parlamentare, in cui il potere monarchico era ricondotto a un ruolo di garanzia di ultima istanza nello svolgimento di tale prassi: quella cioè dell’investitura dei governi da parte di una maggioranza parlamentare, e della loro dipendenza da questa medesima maggioranza e dal suo persistere.

Sonnino vedrà realizzata tale distopia diciotto anni dopo (concorrendo a ciò in modo decisivo nella veste di negoziatore del patto segreto di Londra e facendo valere la riserva regia in fatto di pace e di guerra sancita formalmente dallo Statuto) attraverso il colpo di Stato monarchico e antiparlamentare del maggio 1915 che getterà un Paese riluttante nel tritacarne della Grande Guerra. Le conseguenze di quella rottura, in un senso necessariamente diverso da ciò che egli intendeva, si svilupparono tortuosamente fino a culminare otto anni più tardi (l’anno stesso della sua morte) nell’investitura regia del governo Mussolini.

Alla fine del primo quarto del ventunesimo secolo la Repubblica italiana (la sola formalmente e legittimamente riconoscibile, non essendone legittimata alcuna cosiddetta “Seconda”) si trova nella situazione opposta.

Sovrapponendosi alla Costituzione vigente in modo formalmente quasi intatto (a parte i vulnera non trascurabili rappresentati dalla revisione dell’articolo 81 impositiva di una particolare dottrina economica, dalla strisciante semi-federalizzazione introdotta con la riforma del Titolo V, e infine per ora dalla riduzione del numero e perciò della rappresentatività dei membri delle Camere), una prassi difforme ha sottratto le maggiori decisioni al confronto e al dibattito entro assemblee veramente rappresentative per attribuirle a governi formalmente ancora dipendenti dalla fiducia delle Camere (e perciò effettivamente non stabili nel corso di legislature, come finora si è ampiamente verificato) ma rafforzati nel loro ruolo e nelle loro pretese da leggi elettorali fortemente distorsive e manipolative della volontà popolare (particolarmente mediante la prassi almeno extra legem, ma piuttosto contra legem, dell’indicazione più o meno formale del cosiddetto “candidato premier” nella scheda da deporre nell’urna).

Il clamoroso evento dell’assunzione del ruolo di guida del governo da parte di una figura politica strettamente legata a sopravvivenze fasciste, e della “seconda carica dello Stato” da parte di una figura politica ancora più legata a queste (evento assolutamente inconcepibile nella sola Repubblica legittima, oscurata, appunto, dalla prassi) è spiegabile solo come effetto di tali sviluppi nefasti, una delle cui conseguenze è proprio quella di creare maggioranze parlamentari del tutto difformi da qualunque maggioranza popolare. Almeno imbarazzo nei confronti di ciò, e nei casi più seri anche sconcerto e disagio morale, si manifestano (ancora, e non senza contraddizioni) entro le stesse compagini politiche che nel recente passato hanno disinvoltamente promosso e realizzato gran parte di quelle prassi spacciate per innovative.

In vista di prossime consultazioni del corpo elettorale in base alle regole vigenti, nel campo più o meno coeso (abbastanza poco), e più o meno largo, formato da tali compagini, si svolgono febbrili “pourpalers” circa i provvedimenti da prendere per impedire che l’evento in questione si ripeta e si protragga, entro i termini dettati da regole che in questo o quel modo rendono tassativa la formazione di ”coalizioni” pre-elettorali come condizione di efficacia, anche e quasi sempre mescolando diavoli e acquesante (con una tendenziale preminenza, finora verificata, del primo di questi due elementi).

Le formazioni che si manifestano più critiche nei confronti della parte più diabolica del miscuglio denominato “centro-sinistra” lo sono in generale su temi come la tolleranza verso le politiche di sterminio dello Stato d’Israele, l’appartenenza più o meno rigida e più o meno militarizzata a un determinato contesto geopolitico, e il ruolo rispettivo dei mercati finanziari da una parte e – dall’altra – del servizio pubblico per i bisogni comuni.

Il banco di prova più ravvicinato è costituito da elezioni in cinque grandi Regioni nel corso di questo 2025. Gli Statuti regionali, dopo la malaugurata revisione del Titolo V, si basano su leggi elettorali alla cui brutale nefandezza il mondo politico in generale mostra tuttora un’incomprensibile assuefazione, almeno per quanto riguarda la parte di esso che conserva una certa dignità.

Nella misura in cui hanno potere contrattuale, le formazioni di cui sopra (che tuttavia includono qualcosa come il M5S, che ha dato un importante contributo in passato alla degenerazione in corso volendo e ottenendo il “taglio” del Parlamento), se non vogliono rinunciare alle loro posizioni critiche o mantenerle solo verbalmente, dovrebbero strettamente legare la formazione di un “campo largo” più o meno propriamente qualificabile come antifascista all’immediato ritorno alle regole di una Repubblica parlamentare e rappresentativa.

Alleanze, cioè, solo per battere i fascisti, non per occupare illegalmente posizioni di guida nelle istituzioni come per esempio accadde diciannove anni fa al tempo del secondo governo Prodi. Alleanze da sciogliere immediatamente, insieme con le relative assemblee, dopo il voto di leggi elettorali democratiche e rappresentative.

Al di fuori di questo, nuove travolgenti vittorie del partito dell’astensione sarebbero del tutto spiegabili e comprensibili, così come nuove sconfitte di ogni causa di giustizia e di solidarietà. * Componente del Comitato Scientifico dell'Osservatorio, già Ordinario di Storia Contemporanea


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