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8 marzo: donne di Palestina
di
Rossella Ahmad
Vorrei onorare questa giornata, ormai al termine, accennando al femminile palestinese, che è un mare magnum i cui confini sono impossibili da tracciare. Perché se è vero che le donne sostengono il firmamento con le loro braccia sollevate, in Palestina esse sostengono terra, cielo e tutto lo spazio che intercorre tra essi..
Custodi e vestali di un'identità minacciata, oggi affrontano una sfida difficilissima: curare la ferita a morte nel cuore del loro popolo, allontanarne l'agonia e nutrire l'anelito di vita e Resistenza delle giovani generazioni.
E lo fanno partendo da una posizione di estrema forza. Chi consideri le donne palestinesi meno che individui di primo livello nella società non conosce e non comprende la realtà di questo popolo straordinario. Trovo sempre molto bizzarro che ci si meravigli di fronte all'alto livello di scolarizzazione delle donne palestinesi - e degli uomini, ovviamente. Le statistiche sono note da decenni.
Il tasso di alfabetizzazione generale - che i palestinesi considerano dovere patriottico da sempre - è tra i più alti al mondo. Quello femminile raggiunge il 96%, sicché il gap di genere è tra i più bassi in assoluto. Nelle università la presenza femminile è massiccia, pari se non superiore alla controparte maschile mentre il 99,6% delle donne in Palestina ha avuto accesso all' educazione primaria e secondaria, a dispetto del loro status di profughi.
In ogni settore della vita, della cultura, dell'impegno sociale e civile - dalla medicina alla poesia all'insegnamento al giornalismo - la loro presenza è massiccia ed incontrastata. Ed anche in questo caso, non si esaurisce facilmente la ricchezza di questo universo parallelo. Perché mai come nel caso palestinese la microstoria e la macrostoria si intrecciano ed è toccato alla microstoria tessere la tela di un'identità spezzata. Peggio: negata.
Ed inoltre: tradita dal femminismo coloniale d'accatto, incapace di accettare che non c'è liberazione femminile se non all'interno dei propri parametri culturali. Non c'è liberazione se non all'interno di una lotta globale che sia simultaneamente anticoloniale, anti-imperialista e anti-razzista.
Ed a proposito di ciò, cito il più disturbante esempio di suprematismo coloniale pseudo-femminista che io abbia avuto la sventura di vedere, e che molti di voi ricorderanno: la giornalista britannica Julia Hartley Brewer mise a tacere il dottor Mustafa Barghouti - mite medico e politico palestinese - durante un'intervista televisiva utilizzando proprio l'arma del femminismo coloniale, gettato in faccia al suo interlocutore con una supponenza, un'arroganza e la maleducazione tipica di chi voglia confrontarsi con un altro sistema di valori senza averne le capacità, né umane né intellettive.
"Stia zitto, uomo. Forse lei è abituato ad avere a che fare con donne che tacciono".
Aveva ovviamente sbagliato tutto. Anche obiettivo. La moglie di Barghouti, Rita Giacaman, è professore di Salute Pubblica all' Institute of Community and Public Health della Birzeit University. Sua figlia Dia sta svolgendo un dottorato di ricerca presso l'università di Londra.
Per non parlare del resto. Della dottoressa Amira al-Assouli, ad esempio, che sfidando i tiri dei cecchini recuperò con coraggio il corpo di un ferito per trasportarlo in salvo e curarlo. O delle infermiere e sanitarie di un ospedale bombardato nel momento piu sanguinoso della storia palestinese, che, alla luce fioca di un lumino, impastavano e cuocevano il pane per nutrire i propri pazienti, a cui veniva negato il sostentamento. O delle omologhe palestinesi delle Julia Hartley d'Occidente, uccise a grappoli mentre testimoniavano cosa significasse essere giornaliste e donne in Palestina.
O delle donne, madri, sorelle, figlie che, a milioni, nella diaspora, alimentano la formazione della coscienza nazionale, educando intere generazioni di uomini e donne a sacrificarsi per la causa della liberazione della propria terra.
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