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26 gennaio 2025
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Numero 46454
di Rinaldo Battaglia *

Nessuno ha mai saputo nulla di Bozena Janina Zdunek fino al 2 giugno 2015, quando morì a Karlskrona in Svezia.

Era stata, da giovanissima ragazza, una partigiana della Resistenza polacca (era nata il 29 giugno 1922 a Siwki). Ma nella prima settimana di febbraio del 1941, poco più che diciottenne, venne arrestata dalla Gestapo.

Interrogata e torturata nel centro di detenzione della Gestapo a Radom, venne poi inviata a Auschwitz-Birkenau. Era la prigioniera numero 46454.

Nel lager, nel settembre 1944, fu brutalmente picchiata per aver aiutato i bambini lì deportati da Varsavia dopo la rivolta del ghetto. Per punizione vennero tutti mandati alle camere a gas e solo alcuni - chissà come mai - trasportati, con lei, al lager altrettanto orribile di Ravensbruck.

Fu qui che venne liberata, allo stremo delle proprie forze, il 27 aprile 1945 a seguito dell'operazione della Croce Rossa del conte Folke Bernadotte (deportati contro denaro ad Himmler su banche estere). E portata dalla stessa Croce Rossa direttamente in Svezia. Qui si è poi fermata a Svängsta in Blekinge, dove conobbe e sposò un ex-prigioniero del lager di Stutthof, Jerzy Januariusz Zdunek.

Al figlio Adam (Adam Zdunek) non disse mai nulla della sua vita nei lager. Lo scoprì solo dopo la sua morte, o, meglio, quando trovò un quadernetto vecchio e consumato di sole 32 pagine, nascosto nel suo armadio tra le cose più intime.

Era un quaderno di poesie, scritte da varie detenute ad Auschwitz, che se lo passavano una dopo l’altra, per leggerlo in segreto e per annotare piccole parole che ricordassero nomi, fatti, degli piccoli appunti della vita e della morte nel ‘lager dei lager’. Ma anche piccoli sentimenti, piccoli pensieri verso i loro cari, o perchè no, incitazioni a non mollare.

Quando il figlio donò il quaderno al Museo di Auschwitz nel 2015, il Responsabile riprese ‘per provocazione’ al nazismo le famose parole di Theodor Adorno, uno dei più grandi filosofi del Novecento, per spiegare il senso di chi scrisse quelle pagine: ‘Dopo Auschwitz, scrivere poesie è un senso di barbarie’.

Dopo la Shoah, tutto è diverso, la Shoah ha diviso il tempo in un ‘prima ‘ ed in un ‘dopo’ tanto da rendere la poesia, in-scrivibile, il-leggibile, im-praticabile. Ne ha ucciso la bellezza. Come per la musica. E vennero riprese le parole di Goebbels : ’Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola’ Ma anche per ‘par condicio’ anche quelle di Lenin “Un paio di stivali val di più di tutto Beethoven’.

Per provocazione, perché le ragazze di Auschwitz che hanno compilato quel quaderno, raccolto come un sacrario da Bozena Janina Zdunek e da lei custodito tra i tesori per 70 anni, hanno voluto andare oltre, oltre la devastazione umana, oltre la sterminio di massa delle persone e della cultura. Hanno visto nella poesia e nella cultura la loro forma di resistenza, ma non per gli altri, ma per loro, per dar a loro un motivo in più per resistere e sopravvivere.

Nel discorso il Responsabile del Museo concluse leggendo un verso di una di quelle poesie: ‘Teniamo alte le nostre teste rasate’. 'Teniamo alte le nostre teste rasate'. Un inno di dignità contro la malvagità dell'odio razziale.

Quelle ragazze malgrado tutto, malgrado la fame e la violenza, morale e fisica, subita, risposero alla cultura della morte del nazi-fascismo con la sfida e la resistenza della poesia, vista come ‘liberazione’.

26 gennaio 2025 - 80 anni dopo - liberamente tratto dal mio 'Non ho visto farfalle a Terezìn' - ed. AliRibelli 2021

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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