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08 gennaio 2025
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Il processo di Verona
di Rinaldo Battaglia *

L’8 gennaio 1944 alle 9.00 del mattino, a Verona, in Castelvecchio, nella sala da concerto degli Amici della Musica dove solo 2 mesi prima (il 17 novembre 1943) Mussolini aveva tenuto a battesimo l’atto fondativo della RSI con la ‘non-famosa’ ma certamente criminale e antisemita ‘Carta di Verona’, iniziò il processo contro – parola del Duce – i traditori del 25 luglio. Di fatto era la resa dei conti nell’universo fascista, una delle fasi più buie nella vita dell’Uomo della Provvidenza e ancora oggi gestita con ampia discordanza di pareri, non solo a livello politico ma anche storico.

Tutto iniziò - per modo di dire – in quella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo, composto da uomini scelti personalmente negli anni dal Duce e diventato nei fatti il ‘suo governo’, si riunì su richiesta del Presidente della Camera delle Corporazione dei Fasci, Dino Grandi. L’ordine del giorno che portava quel nome, prevedeva la sfiducia al Duce dopo i disastri militari della guerra (El Alamein e Russia, ma non solo) nell’ottica di ‘salvare’ il fascismo.

In altre parole: i fascisti sacrificavano il loro ‘numero uno’ pur si salvare il loro sedere. Ma del resto era stato lo stesso Mussolini a dare loro la soluzione: nella sera del 2 ottobre 1935 dal balcone di Palazzo Venezia, parlando a venti milioni di italiani raccolti nelle piazze, per presentare l’invasione dell’Abissinia, aveva gridato forte: "Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se mi uccidono vendicatemi".

Ora, nell’estate ’43, essendo l’Italia indietreggiata dappertutto, doveva essere ucciso, almeno politicamente. Fisicamente, invece, sarà solo questione di tempo. Era dai tempi della firma del Patto d’Acciaio, da oltre 4 anni, che il Gran Consiglio del Fascismo non si riuniva e già questo stava a certificare come, nei fatti, il governo di un paese di quasi 50 milioni di anime fosse solo una ‘questione privata’ del Duce. Da vero uomo solo al comando.

Nella notte, l'ordine del giorno Grandi venne approvato a secca maggioranza. Dei 27 componenti ben 19 votarono contro il Duce (Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti che ritirò il suo voto il giorno successivo, Ciano, De Bono, de Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi, Rossoni), uno si astenne (Suardo) e solo 7 – i fascisti ‘duri e puri’ - rimasero fedeli al ‘grande capo’ (Biggini, Buffarini-Guidi, Farinacci, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza, Tringali Casanova).

Sappiamo poi le conseguenze storiche di quel voto, che colpirono fortemente lo stato d’animo del Duce, tanto che molti storici (come Renzo De Felice e Mack Smith) hanno sempre sostenuto che da tempo stesse cercando una via d’uscita personale e che fosse oramai "rassegnato a farsi da parte".

Ma ancora una volta, strada facendo, il Duce si dimostrò incapace di gestire le situazioni. L’uomo del petto in fuori, dei discorsi violenti da Piazzale Venezia, delle criminali leggi razziali era solo ‘il vestito’ di un fallimento e, lui, solo il fallito che aveva governato l’Italia con la menzogna e la forza, ma – rubo parole a George Orwell – ora che “la menzogna era stata scoperta doveva affidarsi solamente sulla forza”. Solo sulla violenza e sul terrore. Diventando un pupazzo in mano al Fuhrer, al quale non seppe opporsi perché, se si fosse opposto avrebbe probabilmente pagato con la sua vita.

Scriverà molti anni dopo lo storico e giornalista Giuseppe Silvestri (in “Vent’anni fa il processo di Verona - Storia illustrata n. 1 del gennaio 1964) che dopo l’arresto a Villa Savoia Il Duce “considerasse conclusa la sua attività” e, anche dopo la sua liberazione il 12 settembre 1943, “non mostrasse alcun interesse a riprendere la guida del rinato fascismo” e soprattutto “non nutrisse alcun sentimento di vendetta nei confronti dei gerarchi che lo avevano sfiduciato” in quel 25 luglio.

Testimoni provano che nel primo incontro, post liberazione, già il 13 settembre, Mussolini ebbe a Monaco “un cordiale incontro con la figlia Edda che, insieme al marito Galeazzo Ciano, era anche lei in Germania” (parole ancora di Giuseppe Silvestri). Ma già dal primo colloquio col Fuhrer, alla presenza del gen. Rudolf Rahn, già nominato ambasciatore presso la costituente RSI, il 15 settembre, dovette cambiare idea perché ‘richiamato alla realtà’. Si racconta che Mussolini sia stato subito, immediatamente, obbligato ad accettare i piani di Hitler che prevedevano il processo e la condanna a morte di tutti i ‘traditori’ del 25 luglio. Lo stesso Joseph Goebbels, nei suoi scritti, più volte evidenzierà il volere ‘punitivo’ del Fuhrer, analogamente ai cospiratori del suo ’attentato’ nella tana del lupo del 21 luglio 1944. E in quell’occasione a morire, senza alcuno sconto, sarà anche ‘la volpe del deserto, il grande Rommel.

Lo storico Silvestri lo ribadisce a più riprese: «Sempre in base a quanto riportato nei diari di Goebbels, Mussolini nel corso del colloquio con Hitler fece un tentativo di alleviare la posizione di Ciano accennando al fatto che fosse pur sempre il marito di sua figlia ma Hitler gli ribatté che ciò non faceva altro che aggravarne la posizione e aggiungendo subito dopo ‘Sarò molto chiaro. Se venissero trattati con indulgenza i traditori dell'Italia, questo avrebbe delle serie ripercussioni altrove’».

E per ‘ripercussioni altrove’ era ben chiaro a chi e su chi Hitler si riferisse. Ma a condizionare la debolezza del Duce nei riguardi degli oppositori del 25 luglio fu, inoltre, la voglia di vendetta ed il profumo del sangue che l’anima ‘dura e pura’ del ‘fascismo post 8 settembre’ faceva trasparire in ogni occasione. In particolare, i gerarchi che diventeranno i suoi riferimenti della RSI: Farinacci, Buffarini-Guidi, Scorza. E in pochi giorni fu tutto chiaro e il destino ‘del processo di Verona’ già scritto e, con esso, la resa dei conti.

Il 18 settembre Mussolini, via radio sempre da Monaco, pronunciò quello che divenne il suo ‘primo discorso’ dopo la sua ‘caduta’, togliendo subito qualsiasi dubbio sul suo futuro e accettando il ruolo di ‘cane da guardia’ del nazismo e del Fuhrer. Anche a costo di uccidere il marito della sua figlia preferita, il padre dei suoi amati nipoti, anche a costo di massacrare migliaia di italiani, civili in particolare, nell’interesse esclusivo della Germania nazista. Queste le sue parole, dove prometteva di: "Eliminare i traditori; in particolar modo quelli che sino alle ore 21,30 del 25 luglio militavano, talora da parecchi anni, nel Partito e sono passati nelle file del nemico".

A riguardo, lo storico inglese Cristopher Hibbert ha più volte giustificato la scelta del redivivo Duce: «Se crediamo a quello che dichiarò poi Mussolini, dopo aver pensato di ritirarsi dalla scena politica, egli rifletté che era suo dovere proteggere gli italiani da un incrudelire delle leggi militari e che altri fascisti di sentimenti violentemente germanofili sarebbero stati installati al potere se non lo accettava lui; tornò da Hitler per dirgli che aveva deciso di ritornare all'attività politica.»

Certo: se analizziamo i due anni successivi di stragi, massacri, eccidi, crimini dei fascisti da soli e/o al servizio dei nazisti è difficile capire cosa sia stata la ‘protezione’ sugli italiani, per la quale Mussolini si sacrificò ritornando a fare il Duce. Riprendendo ed incrementando l’uso della violenza, delle leggi razziste, delle atrocità, come bene confermano i giudizi della War Crimes Commission che il 4 marzo 1948 licenziò un elenco di ben 1.283 italiani fascisti quali ‘criminali di guerra’.

Poi, fu tutto un prosieguo di sangue, odi e violenze. Durante i giorni di metà novembre ’43 di Verona, quando si arrivò alla ‘Carta’ fondativa, Mussolini accettò che fosse costituito il ‘Tribunale speciale per la difesa dello Stato della RSI’ il cui scopo primario era quello di condannare a morte i firmatari dell'Ordine del giorno Grandi. E il nome di suo genero, ovviamente, primeggiava.

Fu Alessandro Pavolini, nuovo segretario del Partito Fascista Repubblicano, a farla a riguardo da padrone, indicando già il nome dei 9 giudici "di provata fede fascista" che avrebbero processato i ‘traditori’. Eloquenti le sue parole: "Il colpo di Stato del 25 luglio ha posto l'Italia di fronte al più grande tradimento che la storia ricordi: una sinistra congiura tra il re e taluni generali, gerarchi e ministri che dal fascismo più di tutti avevano tratto vantaggio, colpiva il regime alle spalle, creando disordine e lo smarrimento del paese proprio nel periodo angoscioso in cui il nemico poneva piede in Italia".

In pochi giorni fu caccia ai 19 ‘traditori’ dell’ordine del giorno Grandi. Per volere di Hitler e senza vera opposizione del suocero, il 17 ottobre 1943 Galeazzo Ciano era già stato arrestato dalle S.S. (mentre con la famiglia era ancora ’ospite’ del Terzo Reich), trasferito a Verona e consegnato alla polizia fascista della RSI, che lo recluse nelle carceri giudiziarie site nell'ex convento dei Carmelitani Scalzi (ora “carcere degli Scalzi”).

Nel frattempo (fine settembre) il prefetto di Verona Piero Cosmin, pupillo di Pavolini, aveva arrestato Giovanni Marinelli, Carlo Pareschi, Luciano Gottardi e Tullio Cianetti. Emilio De Bono, quadrumviro della Marcia su Roma, ministro del Duce e fascista sin dalle prime ore, per intervento diretto di Mussolini fu lasciato agli arresti domiciliari nella sua villa, a Cassano d’Adda, fino all'inizio del processo. Solo 6 su 19 vennero quindi trovati e incarcerati, degli altri 13 si persero le tracce e in quel modo salvarono la pelle.

Il più ricercato Dino Grandi era da mesi scappato in Portogallo e poi in Sud America. Ma a dire il vero, passato il processo di Verona – che si chiuse in solo due giorni, il 10 gennaio – più nessuno dei fascisti ne parlò. Perché anche nella ricerca e cattura dei ‘condannati’ (si sapeva sin dall’inizio quale sarebbe stato il loro destino) il fascismo fallì. Del resto, i numeri (13 su 19) non lasciano scampo a diverse tesi. Il processo fu una buffonata in tutti i sensi.

Lo stesso ministro fascista della Giustizia, Piero Pisenti, che durante la RSI si macchierà di innumerevoli crimini ed ingiuste condanne, non sempre risultò convinto della ‘legalità’ del processo e quindi della successiva sentenza. In particolare, dopo la chiusura delle indagini (il 29 dicembre 1943) e prima del dibattimento processuale, volle essere ricevuto personalmente da Mussolini, a Gargnano. Qui, supportato anche dal senatore Vittorio Rolandi Ricci - illustre avvocato molto fedele al Duce anche dopo l’8 settembre e dal Duce molto stimato – “sostenne che il processo eseguito in questi termini non avrebbe avuto base legale” (da Giuseppe Silvestri sempre in “Vent’anni fa il processo di Verona - Storia illustrata n. 1 del gennaio 1964), anche perchè Mussolini prima di quel 25 luglio era bene messo a conoscenza del significato e del testo dell'Ordine del giorno Grandi. Quindi dov’era il tradimento?

Si documenta (vedasi Metello Casati in "1944: il processo di Verona" da I documenti terribili, Mondadori, 1973, Milano, pag.30) che il Duce abbia risposto con disprezzo al suo ministro: "Voi, Pisenti, vedete nel processo solo il lato giuridico. Giudicate, in altri termini, questa faccenda da giurista. Io devo vederla sotto il profilo politico! Le ragioni di Stato sommergono ogni altra contraria considerazione. E ormai bisogna andare fino in fondo".

Si racconta anche che Galeazzo Ciano, capito oramai la sentenza a cui sarebbe andato incontro, malgrado la sua parentela col Duce, tra fine dicembre ed inizi gennaio 1944, abbia cercato una via di salvezza usando in cambio i suoi diari - si dice - molto compromettenti per il Duce, nelle parti a noi ancora oggi non note. Ma l’operazione denominata "Operazione Conte", che vedeva coinvolti importanti generali nazisti (tra cui il tenente colonnello Wilhelm Höttl, capo del servizio segreto tedesco in Italia, ed Ernst Kaltenbrunner, comandante in capo del Reichssicherheitshauptamt, responsabile delle operazioni dei servizi segreti in Germania e all'estero) avrebbe dovuto svolgersi all’insaputa di Hitler. Ma tutto svanì in pochi giorni, perché scoperta e quindi bloccata da Berlino.

La sentenza fu come previsto: tutti vennero dichiarati colpevoli. Solo il ‘fascista traditore pentito’ (già il 26 luglio) Tullio Cianetti beneficiò di uno sconto e fu condannato a trent'anni. Ma dopo il 25 aprile 1945 venne liberato dagli Alleati e fu tra i primi a scappare all’estero (si dice Mozambico, allora colonia del Portogallo fascista di Salazar) da dove non fece più ritorno.

Si disse che i 5 condannati a morte volessero subito chiedere la grazia al Duce. Ma i fascisti ‘puri e duri’ intervennero prontamente. Anni dopo Puccio Pucci, un fascista molto vicino a Pavolini, dichiarò che questi andò - assieme a lui stesso - da Mussolini.

«Appena terminato il processo di Verona, Pavolini ed io partimmo alla volta di Gargnano. Pavolini fu ricevuto dal Duce, al quale riferì esattamente le conclusioni processuali. Subito dopo questo colloquio, mentre ritornavamo a Verona (dove, nel frattempo, i cinque condannati avevano presentato domanda di grazia), Pavolini mi raccontò che Mussolini gli aveva detto: "Ero sicuro che la decisione del tribunale straordinario sarebbe stata di condanna di morte. Con questa condanna si chiude un ciclo storico. Come Capo dello Stato e del fascismo, non dunque come parente di uno dei condannati, ritengo che i giudici di Verona abbiano fatto il loro dovere".

Raggiunta Verona, Pavolini ed io ci recammo in prefettura, da Cosmin, capo della provincia, presso il quale si trovavano le domande di grazia. Era sopraggiunto anche Buffarini-Guidi, ministro degli Interni. Qui ebbe inizio il conflitto delle competenze per l'inoltro delle domande di grazia a Mussolini in una situazione di doloroso imbarazzo» (da Arrigo Petacco in “Pavolini - L'ultima raffica di Salò” Arnoldo Mondadori Le Scie, ottobre 1982, pagg. 183-184).

La domanda di grazia venne di fatto respinta ancora prima che arrivasse dal Duce e forti furono le parole in merito di Pavolini "quelle erano decisioni che non riguardavano il Partito e che i provvedimenti, qualsiasi fossero, dovevano essere presi dalle autorità competenti, militari o giudiziarie, mai dalla autorità politica".

Le condanne a morte furono così eseguite l'11 gennaio 1944 al poligono di tiro di forte San Procolo da un plotone di 30 militi fascisti comandati da Nicola Furlotti. I cinque (Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi) furono fucilati alla schiena, come era allora in voga per i ‘traditori’.

Resta da chiedersi ad 81 anni distanza quale fosse, in quel preciso momento storico, la figura del Duce, vittima del suo personaggio e debole al massimo livello nei confronti di Hitler. Poteva far diversamente? Basterebbe chiederlo alla figlia Edda e ai nipoti, figli di Galeazzo Ciano.

Ma tanto da noi in Italia viene ugualmente riverito, con messe e necrologi sui giornali il 28 aprile o con cene commemorative il 28 ottobre. In barba alla Costituzione dove alla XII disposizione transitoria finale, si certifica che «È vietata la riorganizzazione del disciolto partito fascista» e alla Legge Scelba 645 del lontano 1952 che sanziona «chiunque faccia propaganda per... il fascismo» e «chiunque pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo».

Ma del resto lo diceva anche lo stesso Duce: “Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani.” E l’inconscio degli italiani resta saldo e mantiene, imperterrito, i caratteri del fascismo ‘duro e puro’ anche dopo la resa dei conti del processo di Verona.

8 gennaio 2025 - 81 anni dopo - Liberamente tratto dal mio ‘Il tempo che torna indietro – Prima Parte” - Amazon - 2024

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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