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Un’eredità di violenza. Una storia dell’impero britannico
di
Alessandro Visalli
Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’impero britannico.
L’imponente libro di Caroline Elkins, una delle più importanti e rispettate specialiste della storia imperiale britannica, docente di Storia e Studi Africani e Afroamericani ad Harvard e consulente del tribunale inglese in un recente ed importante caso giudiziario, illustra nel corso di quasi ottocento pagine (più 200 di bibliografia e note) come l’inestricabile groviglio tra liberalismo, violenza, legge e creazione di appropriate tesi storiche ideologiche abbia contribuito nel corso della storia a sedimentare in gran parte del mondo contemporaneo una particolare cultura della sopraffazione vestita di abiti civili. Una cultura che è transitata nei volenterosi allievi statunitensi, poi fattisi maestri, e di qui divenuta marchio di fabbrica dell’Occidente verso il resto del mondo.
La centralità della vicenda britannica è pari, nel mondo moderno, a quella dei romani e greci nel mondo antico, chiaramente strutturante e punto di riferimento, sia nella prima fase sei-settecentesca, quando si svolse con mezzi informali e secondo lo svolgimento del “libero mercato”, sia nella seconda, otto-novecentesca, quando la crescita della concorrenza obbligò a passare al modello della clausola imperiale per continuare a garantire che gli investimenti restassero senza concorrenti, l’importazione di cibo e merci privilegiata e lo spazio finanziario della sterlina al sicuro. Complessivamente i britannici invasero o conquistarono 178 paesi e nel solo XIX secolo promossero 250 conflitti armati e controinsurrezioni. Quelle che Kipling definì “le barbare guerre per la pace”, in una splendida applicazione del “pensiero doppio” orwelliano.
Nell’impero britannico il colore della pelle divenne il segno della differenza, ma la pelle era ‘costruita’. Di volta in volta erano “neri” anche gli irlandesi, i palestinesi e gli ebrei, gli afrikaner olandesi, in una classificazione che si sovrappose ed implicò un giudizio unilaterale circa il livello di “modernità” e “maturità” rispetto ad un’implicita scala del progresso, secondo i rigidi parametri della filosofia della storia dell’Occidente. O, in altri termini, secondo la sua idea di “libertà” e di “Stato di Diritto”. Questa è, per l’autrice, la “ideologia del liberalismo liberale”, che con le sue rigide camicie di nesso intrappola le menti ed i cuori degli attori imperiali e integra le loro rivendicazioni sovrane. Ne derivò per la Gran Bretagna un massiccio impegno a “riformare” i sudditi e accompagnarli, come un gregge talvolta recalcitrante, nel mondo moderno.
Questo è il tema, centrale da un certo punto dello svolgimento della storia, dello “sviluppismo” che cominciò a vedere i barbari, con una condiscendenza autopercepita come generosa, come bambini da far maturare. Ne derivò l’assunzione di una “missione civilizzatrice” di cui la violenza fu sia il mezzo sia il fine. Nel corso del XIX secolo l’intera missione, nel transitare l’Impero nel regno dello Stato di Diritto, si innervò di codici e procedure che non facero altro che legittimare e giustificare la violenza e proteggere i suoi autori. Ma per questa via, tra “missione” e “legge”, l’imperialismo liberale metteva ai suoi avversari in mano le armi del suo disfacimento. Un bambino prima o poi deve crescere, anche se, nel frattempo è giusto sia esposto alla dura disciplina, alla punizione, visibile ed educativa per il suo bene.
L’apice di questo disfacimento si ebbe subito dopo la II WW, nelle condizioni particolari generate dalla crisi economica britannica, che la rendeva contemporaneamente dipendente dall’Impero e non più finanziariamente indipendente nel sostegno della sterlina, dalla complessa relazione con gli Stati Uniti, determinati a porre fine alla centralità britannica, ma bisognosi del controllo imperiale in chiave antisovietica, e il movimento terzomondista che prendeva in parola le parole d’ordine istituite nell’immediato dopoguerra e via via istituzionalizzate in organismi internazionali e solenni “Dichiarazioni”.
Insomma, il libro mostra come, con le parole dell’autrice: “la violenza era connaturata al liberalismo. Risiedeva nello stesso riformismo liberale, nelle sue pretese di modernità e nelle sue concezioni della legge: elementi, di fatto, opposti a quelli normalmente associati alla violenza” . Non si è trattato solo di sfruttamento economico, e non solo di “capitalismo razziale” , ma di un legame interno tra liberalismo e violenza (un legame logico e storico) che è presente anche nelle questioni razziali (e geopolitiche) contemporanee. Anche oggi i popoli “neri” sono allineati sulla linea del progresso, rappresentato dalla maggiore o minore vicinanza ad un modello soprastorico (ne è un esempio la Russia, nerissima, mentre l’Ucraina è, per ora, bianchissima).
Secondo il racconto, nell’impero di fatto coesistevano per tutta la sua durata, e spesso teorizzati, sistemi duplici di autorità e legittimazione: leggi consuetudinarie in patria e codici coloniali fuori. Monopolio della violenza in entrambi (che non cedette neppure al cosiddetto “governo indiretto”, a volte praticato quando considerato più economico). Era la “missione civilizzatrice” che implicava, e necessariamente, sia una dimensione progressista sia una dimensione coercitiva. In effetti, “riforme e repressione erano connaturate sia al linguaggio [dell’imperialismo liberale] sia ai suoi sistemi. Il perenne gioco universalista sullo sfondo delle differenze razziali [ovvero di grado di civilizzazione] si riproducevano a catena”.
Anche dopo la I WW, con il sistema del “mandati” che sostituì una “amministrazione fiduciaria” al vecchio dominio diretto, nominalmente sorvegliata dalla “Società delle Nazioni”, non portò modifiche sostanziali. I popoli “non ancora capaci di reggersi da sé, nelle difficili condizioni del mondo moderno”, secondo la formula giuridica applicata, restarono sottomessi, ovviamente per il loro bene.
Nella II WW, la mobilitazione senza precedenti dei popoli coloniali come soldati e come forza lavoro rese però necessario fare promesse che, in seguito, restarono sospese. Ed allora la difficile relazione con gli Stati Uniti e il suo approccio (insieme storico-culturale e di interesse) antimperialista, unita alla dipendenza economica, resero necessario rivestire la sostanza coloniale di nuove idee. In conseguenza la “amministrazione fiduciaria” diventò “partnership”, verso il “benessere comune” (Commonwealth).
Ma nella Carta delle Nazioni restò la definizione di “territori la cui popolazione non ha ancora raggiunto la piena autonomia” e per i quali è quindi necessario garantire, con le buone o le cattive, il “progressivo sviluppo”. Ne derivò una tensione strutturale, presa tra le necessità economiche di utilizzare le aree protette coloniali per alimentare la rinascita economica e le belle parole, tra pretesi diritti universali e discriminazione razziale (che è, in realtà, discriminazione rispetto alla conformazione al modello universale).
Il testo è, un orrendo resoconto, frutto di decenni di lavoro di archivio, delle atrocità che solerti funzionari e militari britannici compirono in tutte le aree di sollevazione dell’impero, in Africa (dalla guerra boera a quella keniota) in Medio Oriente (con il caso palestina in evidenza), in Oriente (dall’India alla Malesia, e via dicendo), senza dimenticare la palestra irlandese, o la vicenda cipriota. Vicende che giunsero al culmine tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma poi proseguono in Vietnam ad opera degli allievi Americani.
L’Impero Britannico, insomma, assunse una configurazione sempre più violenta nel tempo, man mano che da una parte esaltava le virtù del liberalismo, per difendere un dominio che appariva sempre più obsoleto, dall’altra era costretto a legittimare internamente ed esternamente gli episodi di estrema coercizione come sfortunate eccezioni al trionfo evolutivo della modernità.
Questa è la forma che prende il “Nazionalismo Imperialista” che, lascito di lungo periodo del colonialismo britannico, permane e continuamente riemerge nell’attuale Gran Bretagna. E non solo.
Caroline Elkins, all'anagrafe Caroline Fox (1969), è una scrittrice e storica statunitense vincitrice del Premio Pulitzer nel 2006. Il suo lavoro di ricerca è alla base di un ricorso di ex detenuti Mau Mau (Kikuyu) – che furono, insieme agli altri, rastrellati e reclusi dal governo britannico – e che fu vinto grazie alla consistenza e la quantità di prove documentali di crimini commessi nei campi di internamento del Kenya negli anni '50. L'ultimo libro di Elkins, Legacy of Violence: A History of the British Empire, è stato finalista per il Baillie Gifford Award, selezionato come uno dei 100 migliori libri del 2022 dal New York Times e nominato miglior libro del 2022 da The New Statesman, BBC, History Today e Waterstones.
Un'eredità di violenza. Una storia dell'impero britannico - Ed. Einaudi 2024
di Caroline Elkins (Autore), Luigi Giacone (Traduttore)
Dossier
guerra e pace
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