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Hanno ucciso Topolino
di
Rinaldo Battaglia *
Il 9 novembre 1930, nel cuneese, a Bastia di Mondovì, in una delle tante famiglie contadine nasceva Franco Centro. So bene che non dice nulla oggi in Italia ma è stato insignito di Medaglia d'Oro al V.M. alla memoria. Eppure, aveva vissuto solo 14 anni perché il 15 febbraio 1945, dopo averlo selvaggiamente torturato e picchiato a sangue per farlo parlare, i fascisti della zona di Alba lo fucilarono a Benevello, sempre nelle Langhe.
Nel cuneese era conosciuto come "Topolino", proprio come il cartone di Disney, che in Italia arrivò già nel 1932. Ma qui la motivazione stava nella figura minuta del ragazzo, minuta anche perché quegli erano anni di fame, guerra e miseria. E non sempre i pasti erano possibili. E fu proprio Franco, poi, a decidere quel nome di battaglia, quando scappando in montagna serviva farsi chiamare con nomi in codice.
Perché già nell’anno dei rastrellamenti e delle stragi, già nel 1944, "Topolino" divenne la staffetta più giovane dei partigiani garibaldini della 99ª brigata. Sì, staffetta e non – come potrebbe sembrare data la tenera età – una semplice “mascotte”. Era una staffetta partigiana e come tutte le staffette e tutti i partigiani viveva tra marce impossibili e continue, non si dormiva mai o quasi nello stesso posto per due notti di seguito e di solito sempre poco e male. Ad ogni ordine o notizia, da portare da qualcuno a qualcun altro, si rischiava la vita.
Ma “Topolino” non volle mai fermarsi o tornare indietro. A quell’età è facile sbagliarsi e cambiare strada: nessuno avrebbe potuto accusarti di codardia o paura. Invece no. Aveva fatto la sua scelta. Tutto era partito nell’estate del ’44 quando aveva solo tredici anni. Certo: anche prima aveva capito cosa fosse la guerra e chi i fascisti, i nazisti e chi i partigiani, scappati in montagna per combattere i tedeschi invasori e i loro soci del fascio.
Prima della fine agosto ’44, primi di settembre, più volte nazisti e fascisti erano arrivati a Bastia di Mondovì, ma quella ultima volta radunarono nella piazzetta centrale tutti coloro che trovarono, ossia solo donne, vecchi e molti bambini. Cercavano gli uomini ma quelli erano in guerra o in prigionia e soprattutto – chi aveva potuto – saliti in montagna.
Ogni casa fu controllata, perquisita, ogni cantina, stalla, ogni potenziale nascondiglio, ma non ne trovarono. Minacciarono le donne con le armi puntate: “Dove sono i vostri uomini, dove sono i partigiani?". E tutti la stessa risposta: “sono in guerra e non sono tornati a casa". Presi dalla collera e dall’odio – che il Duce e il Fuhrer aveva in loro seminato e bene allevato – dettero fuoco ad alcune case, ne saccheggiarono altre solo per il gusto di fare male, appesero manifesti di morte verso tutti coloro che avessero aiutato, collaborato, dato una mano ai ‘banditi’ partigiani.
Quel giorno Franco era presente e non riuscì a muoversi. Stesse fermo, immobile, spaventato da tutto e tutti. Ma appena i soldati se ne andarono iniziò a strappare, convinto, tutti quei manifesti appesi sul muro. Venne subito seguito da altri coetanei. E alla prima occasione, pochi giorni dopo, seguì i ragazzi più grandi che vollero aggregarsi alle ‘bande partigiane’.
Fu così che arrivò al campo della 99ª brigata chiedendo di diventare subito partigiano. Il comandante del gruppo si oppose fermamente, spiegandone i rischi e le sofferenze a cui sarebbe inevitabilmente andato incontro, vista la sua età. Ma Franco insistette e accettò ‘solo’ di diventare almeno staffetta. Una staffetta molto utile, perché essendo così giovane non dava nell’occhio e perché quella zona era casa sua. Conosceva bene le Langhe e poteva aiutare i partigiani ‘foresti’.
Divenne così per tutti "Topolino" con tanto di distintivo (la stella tricolore della "Garibaldi") e un paio di scarponi in cui mettere carte e stracci per farli adattare alle misure del suo piede.
Per mesi fu la migliore staffetta che si potesse avere. L’età gli permetteva di arrivare dove voleva e a sentire quello che cercava. Chi poteva pensare che un ragazzino così minuto, un topolino tra un esercito di gatti affamati, potesse essere uno ‘scaltro nemico’?
Ma la guerra è guerra. Per morire non ci sono limiti d’età o di altezza e peso.
Il 12 febbraio 1945, all'alba, il suo gruppo della “Garibaldi” fu oggetto di un’imboscata, uno dei tanti rastrellamenti a volte imprevisti, a volte guidati da spie e delatori. Arrivarono anche alla villa di Benevello, dove i partigiani si erano fermati per la notte. Ne nacque uno scontro a fuoco disperato: i nazifascisti erano bene superiori e meglio armati. Il capo del gruppo dette l’ordine a “Topolino” e al compagno "Torino” – di poco più grande - di scappare tra le montagne e chiedere aiuto al comando di brigata. Era un modo forse per salvare quelle due giovani vite dal combattimento.
I due lasciarono i fucili (anche “Topolino” aveva imparato a sparare col suo moschetto) e, dopo una lunga marcia di un giorno ed una notte, arrivarono per riposarsi un attimo ad un capanno, nel passato usato dai cacciatori. Ma il giorno dopo arrivarono anche lì i nazisti e i soci fascisti, che sulla neve avevano visto ‘orme ‘ di scarpe ‘sospette’.
Dapprima torturarono a sangue "Torino” e, mentre lo massacravano, "Topolino" riuscì ad inghiottire il messaggio ricevuto dal capo partigiano. Assisterà alla fucilazione dell’amico e non volle nemmeno sentire le promesse di libertà nel caso in cui avesse rivelato i nomi e i luoghi della Resistenza delle Langhe. Niente da fare, nemmeno quando le torture arrivarono su di lui. Niente da fare, chiese solo che prima di far la fine di "Torino” gli fosse ridata la ‘sua stella garibaldina’.
Non a caso la motivazione della Medaglia d'oro al valor militare parla chiaro:
«Quattordicenne, abbandonò la famiglia per unirsi ai partigiani e combattere i nazifascisti. Portò a termine brillantemente tutti i compiti affidatigli quando, in una pericolosa missione, venne catturato con indosso documenti del Comando. Conscio della loro importanza, riusciva a distruggerli, affrontando poi stoicamente le più atroci torture senza svelare la dislocazione dei compagni. Innanzi al plotone di esecuzione, invitato a valersi della sua giovane età per chiedere grazia, fieramente rispondeva: «Chiedo soltanto che mi fuciliate lasciandomi la stella tricolore, simbolo garibaldino della mia fede». Il piombo nemico stroncò la sua eroica giovinezza».
Il suo nome è andato quasi dimenticato o nascosto per 70 anni, se non una piazzetta intitolata a suo nome, quella davanti alla Stazione dei treni. Ma poi a Mondovì si è ripresa la sua memoria, diventando per molti ragazzi della città un loro idolo, il simbolo della lotta per la libertà, per un mondo diverso e migliore. Costi quel che costi, anche la vita se fosse necessario.
E così nell’Anniversario della Liberazione, il 25 aprile 2014, a “Topolino” o meglio Franco Centro, la principale saletta della sede dell’associazione MondoQui – molto frequentata e seguita da ragazzi e giovani della città – è stata dedicata a suo nome.
Quel giorno, ad ascoltare il noto storico locale Ernesto Billò sulla Liberazione dell’Italia e sul sacrificio di tanti giovani, come Franco Centro, si ritrovarono molti coetanei di “Topolino”, della stessa età di quando venne fucilato, e tutti ascoltarono in profondo silenzio quale manifestazione di assoluto rispetto. Ma arrivarono lunghi ed interminabili applausi quando lo storico disse che ‘accettò la morte perché non voleva tradire i suoi compagni’.
Durante la cerimonia peraltro, un affermato pittore, legato all’associazione MondoQui, quale Ezio Massera, iniziò a dipingere, su una delle pareti della saletta, un ritratto di “Topolino”. Molti giovani avranno potuto così sentire durante le loro attività associative, o nei loro incontri, la presenza di quel ragazzo ammazzato a 14 anni, il 15 febbraio 1945, per la nostra e loro libertà. E si racconta che, più volte, si sentì in quelle occasioni, tra loro, la battuta “Topolino, uno di noi”.
Abbiamo bisogno, a quasi 80 anni da quei tragici eventi e nell’ignoranza storica del nostro paese, che i nostri ragazzi si identifichino sempre più nei valori espressi da Franco Centro della sua breve esistenza. Per questo, ancora e sempre, ben venga sentire: “Topolino, uno di noi”. Perché una volta hanno ucciso Topolino, ma sta a noi oggi non dimenticarlo affinché il suo sacrificio non sia rimasto inutile. Soprattutto oggi, al tempo di oggi, la memoria non deve morire. Sarebbe come ucciderlo un'altra ulteriore volta.
9 novembre 2024 – 94 anni dopo dalla sua nascita
* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
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