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26 settembre 2024
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Benedetto Brin: una tragedia annunciata
di Rinaldo Battaglia *

“Ora che ho visto cos'è la guerra, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: "E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?" Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero”.

Cesare Pavese, partigiano antifascista a 20 anni sulle Langhe, se lo chiedeva continuamente cosa fosse la guerra senza trovare parole esaustive. Solo per i morti la guerra finisce per sempre, solo per i morti e tante volte senza neanche saperne le cause, scomparsi magari solo pochi mesi dopo che erano stati mandati a combattere. E quel che è peggio senza neanche dare un a minimale informativa ai loro cari, ai loro familiari. Talvolta nemmeno la salma. Restando così dispersi nel vuoto, senza nessuna traccia della loro vita, della loro esistenza. Dimenticati da tutto e da tutti. Non come fossero stati uomini ma – che so – solo dei vuoti a perdere.

Pensate: nel settembre 2015 – 9 anni fa - la nostra Marina Militare ha ripreso una tragedia della Prima Guerra Mondiale e ufficialmente dichiarato che: «Come ormai acclarato, si trattò di una disgrazia non diversa da quelle accadute in altre marine da guerra dell'epoca: la causa dell'affondamento era infatti da attribuire ai nuovi esplosivi utilizzati per le cariche di lancio e di scoppio che, indispensabili e sempre più potenti, erano stati introdotti da troppo poco tempo perché se ne conoscessero tutte le caratteristiche relative alla loro stabilità».

La tragedia era datata 27 settembre 1915, ossia 100 anni prima e dopo 100 anni qualcuno aveva sentito ancora il bisogno di dare delle risposte per coprire un vuoto che evidentemente nessuno prima mai aveva coperto, sanato, spiegato, compreso. Tragedia di cui peraltro nessuno in Italia anche oggi – 109 anni dopo - sa nulla – addetti ai lavori a parte - perché non è mai comodo riprendere storie buie, pregresse, mal gestite, offendendo così ancora quei morti e il rispetto che, in quanto militari italiani, meritavano.

Mi riferisco a quel che avvenne alle ore 8.10 di un lunedì di fine settembre, 4 mesi dopo l’inizio della Grande Guerra, nel porto di Brindisi, quando in tutta la città si sentì un boato terribile e molti vetri delle case della zona improvvisamente andarono rotti con inevitabile caduta di molti intonaci. Qualcuno, spaventato dalla colonna di fumo di color “giallo-rossastro” che dal porto saliva in alto in cielo, giurava inizialmente che fosse saltato in aria persino il maestoso Castello Alfonsino.

La causa, invece, fu lo scoppio interno ad uno dei ‘fiori all’occhiello’ dell’allora Regia Marina: la ‘Benedetto Brin’. Uno scoppio tremendo avvenuto quando nella corazzata - ormeggiata nel porto medio in prossimità della spiaggia di Marimist - esplose la ‘santabarbara’, il deposito di munizioni, in forma così violenta che in pochissimo tempo la fece affondare. Portandosi dietro ben 456 vite (di cui 21 ufficiali), quasi la metà dei 943 uomini dell'equipaggio. Tra questi l’ammiraglio Ernesto Rubin de Cervin, comandante della 3ª Divisione Navale della 2ª Squadra, e il comandante della nave Gino Fara Forni. Si salvarono solo 9 ufficiali e 473 fra sottufficiali e i marinai. Pensate: dei 456 uomini deceduti ben 369 risultarono irriconoscibili o scomparsi. Un inferno di fuoco nell’inferno della guerra.

Così lo descriveva lo storico Giuseppe Teodoro Andriani ancora nel 1993 (nel suo “La base navale di Brindisi durante la grande guerra”) riprendendo la testimonianza di Fausto Leva, allora un alto ufficiale della Marina: "nel fumo densosi distinse per un momento la massa d'acciaio della torre poppiera dei cannoni da 305 mm, che lanciata in aria dalla forza dell’esplosione fino a metà della colonna, ricadde poi violentemente in mare, sul fianco sinistro della nave. Pochi momenti dopo, dissipato il nembo del fumo, lo scafo della B.Brin fu veduto appoggiare senza sbandamento sul fondo di dieci metri e scendere ancora lentamente, formandosi un letto nel fango molle. Mentre la prora poco danneggiata si nascondeva sotto l'acqua che arrivava a lambire i cannoni da 152 della batteria, la parte poppiera completamente sommersa appariva sconvolta e ridotta ad un ammasso di rottami. Caduto il fumaiolo e l'albero di poppa, si erge ancora dritto e verticale l'albero di trinchetto."

E a pensarci bene, in quel 27 settembre 1915, le cose potevano andare anche peggio. Si deve tener conto che, in quel preciso momento di guerra, il porto di Brindisi non risultava per nulla secondario nella strategia militare. Bastava poco e quell’inferno poteva colpire anche altre navi, anche di altre flotte ‘amiche’, in quanto veniva frequentemente usato da mezzi navali e i sommergibili non solo italiani ma pure della marina francese e britannica. Documenti provano che vicino alla corazzata ‘Benedetto Brin’ erano ancorate, quella mattina, altre sette nostre navi: la Giulio Cesare, la Dante Alighieri, la Leonardo Da Vinci, la Nino Bixio, l'Emanuele Filiberto, la Saint Bon e la Regina Margherita. Probabilmente il meglio del nostro meglio, allora.

Per capire l’entità di quanto accaduto va detto che la ‘Benedetto Brin’ aveva dimensioni di primo livello nella guerra del 1915: 138 metri di lunghezza, 23 di larghezza, 14 mila tonnellate di stazza, con dotazione di 46 cannoni, 2 mitragliere e 4 lanciasiluri. Molto veloce, si diceva bene protetta e con perfetto uso degli spazi, venne progettata - quale nave da battaglia, appartenente alla classe Regina Margherita - dall'ingegnere navale e ministro della Marina Benedetto Brin – da cui il nome - e dal Generale Raffaele Alfredo Micheli. Varata, nel novembre 1901, a Castellammare di Stabia tra l’orgoglio di tutti, aveva già una guerra alle spalle: quella contro i turchi del 1911, dove aveva fortemente contribuito alla conquista della Libia con sue importanti azioni navali nelle battaglie di Bengasi, della Cirenaica e di Rodi. E 4 anni dopo era già in servizio, vanto degli italiani e timore dei nemici austriaci.

La tragedia colpì molto l’opinione pubblica italiana e sin da subito il Comando di Marina e delle stesse Forze Armate - non potendo negarla - cercarono di ridimensionarla, facendola passare per un qualcosa di inferiore, di minore importanza e peggio tentando di scaricare le colpe su fattori ‘esterni’. Si parlò così persino di un “falso prete a servizio dall'Austria” o “di un marinaio traditore - pagato di certo dal nemico- che aveva collocato un ordigno nei pressi della "Santabarbara" della nave”. Si cercò, in altre parole, di sfruttare la tragedia interna alla nostra guerra in un’azione di pura propaganda contro il nemico in quella guerra e non potendo ricorrere ad ipotesi più semplici perché non praticabili, ci si ingegnò con queste ‘bizzarre’ soluzioni di sabotaggi. Non si poteva infatti dare la colpa a sommergibili austriaci, perché il porto di Brindisi era già stato protetto a suo tempo da una idonea rete metallica (che peraltro ad una successiva verifica risultò risultata perfettamente a posto e integra).

Tutti i giornali ne parlarono per giorni e persino il principale settimanale, ‘Tribuna Illustrata’, già nel numero di ottobre pubblicò una copertina a colori con la nave in fase di affondamento, tra i fumi e le fiamme. Un colpo al cuore.

(...) Ma passato il dolore del momento, si ritornò a prima: non era interesse della politica e della guerra parlarne troppo. Sarebbe stato solo utile al nemico e rafforzare la tesi dei pacifisti, anarchici o di chi era a priori contro la guerra, non giovava agli Alti Comandi. Per anni l’Italia, prima del 24 maggio 1915, si era divisa in due, tra interventisti e neutralisti, non si poteva ora dare ragione a questi ultimi, ora che la guerra mostrava il suo vero volto assassino. L’esplosione della ‘Benedetto Brin’ fu così messa nel dimenticatoio e la sua memoria nascosta sotto lo zerbino di casa. In particolare, quando iniziarono a girare voci sull’inadeguatezza della nave, molto meno ‘sicura’ di quanto si dicesse, più attenta e preparata per uccidere i nemici che tutelare i propri uomini.

Non solo: denunce scritte e critiche sui sistemi di ventilazione e della refrigerazione, già inoltrate sin dall’anno precedente (luglio 1914) del comandante della nave Gino Fara Fondi al Ministero della Marina non avevano avuto, ignobilmente, la benché minima risposta né attenzione. Non era il momento forse: la guerra in Europa stava arrivando, il business era all’orizzonte, l’Italia non aveva capito se entrarci e tanto meno se con Triplice Alleanza o la Triplice Intesa (dipendeva da cosa e quanto ti offrivano, come di solito si fa al mercato delle vacche). Perché quindi fermarsi o creare nuovi problemi? C’erano sempre interessi più grandi. E così tutto restò com’era. Succederà spesso in Italia, prima e dopo: dal Vajont al Ponte Morandi. Tanto a morire tocca sempre agli altri.

Passarono ben 90 anni e solo allora uno storico come Antonio Caputo – nelle sue Memorie brindisine’ anno 2004 - che aveva speso molte sue energie sull’esplosione della ‘Benedetto Brin’ e sulle sue 456 vittime, arrivò ad esprimere con forza una sua analisi tecnica. Parlò senza mezze parole di "tragedia annunciata". Avere progettato e posto la sala macchine così vicina alla” santabarbara” fu un madornale errore perché “il calore prodotto dai motori non veniva sufficientemente disperso dai ventilatori, lenti ed inadeguati, che provocò l'autocombustione della balistite presente nei locali, un potente esplosivo a base di nitroglicerina e cotone collodio che esplode fragorosamente e brucia senza produrre fumo. A conferma di ciò nei giorni seguenti fu ordinato, dal comandante della piazzaforte marittima di Brindisi, lo sbarco della balistite anche dalle altre navi”.

E Antonio Caputo scoprì che già nel 1904, ancora ben prima del comandante Gino Fara Fondi, la nave appena varata aveva subito forti critiche, nate per “la pericolosità dei tubi di vapore che attraversavano il deposito di munizioni, che furono prontamente coibentati. Ma evidentemente non fu sufficiente”. Si sapeva tutto, si sapeva ma intervenire probabilmente costava sia in termini finanziari, ma soprattutto di orgoglio e di immagine: era il ‘fiore all’occhiello’ della Marina, il meglio del meglio. Che poi l’orgoglio sia durato poco resta un altro discorso e che sia ‘costato’ 456 vite probabilmente ancora meno. Tanto a morire in guerra tocca sempre agli altri. Ed è meglio che avvenga in silenzio, senza far rumore, senza disturbare ‘i signori della guerra’ che della guerra ne fanno il loro business. Ieri, oggi e di certo anche domani.

Sono passati 109 anni ma sembra che non sia cambiato nulla, con mille altre tragedie annunciate, sia in tempo di guerra che in tempo di pace. Perché il business non ha limiti, né freni o crisi, né bassa stagione. E tanto meno coscienza.

27 settembre 2024 – 109 anni dopo

* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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