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Perché i nostri padri mentirono
di
Rinaldo Battaglia *
‘Se qualcuno vi chiedesse perché siamo morti, rispondete perché i nostri padri mentirono’.
Sono parole di Joseph Rudyard Kipling, nate dopo che aveva perso nella battaglia di Loos di fine settembre 1915 (109 anni fa, in questi giorni) il figlio primogenito John.
Era quello il ‘clou’ dell’ennesimo fallimento nella cosiddetta ‘Terza battaglia dell'Artois’ – una fotocopia anglo/francese delle nostre infinite battaglie dell’Isonzo – che costò tra morti, dispersi e mutilati oltre 50.000 vite solo tra i suoi connazionali inglesi. Joseph in quella guerra, sebbene già affermato autore (premiato col Nobel per la Letteratura nel 1907) e malgrado i suoi 50 anni, si era arruolato volontario come autista di ambulanze militari sul fronte francese e aveva visto, coi suoi occhi, l’inferno.
‘Se qualcuno vi chiedesse perché siamo morti, rispondete perché i nostri padri mentirono’.
Mi permetto di aggiungere, oggi 24 settembre 2024, quasi di nascosto ed ignobilmente, altre due parole a quella sua importante citazione: ‘perché i nostri padri mentirono e se ne fregarono, sapendo di farlo’. Padri intesi come superiori, comandanti, governanti ma anche generazione precedente.
Chi di voi conosce cosa successe, come oggi 81 anni fa, mi può ben capire.
Quel giorno, il 24 settembre 1943, infatti si arrivò al ‘clou’ dell’eccidio di Cefalonia, con l’uccisione del gen. Antonio Gandin, uomo simbolo di quel massacro. E assieme ad altre migliaia di nostri connazionali, i suoi soldati e i suoi ufficiali.
Non ci sono stati, e mai ci saranno, numeri esatti sui martiri di Cefalonia. Ognuno in merito ha detto e ancora dice la sua, ma la sostanza non cambia. Anche se sarebbe storicamente corretto distinguere chi è morto combattendo i nazisti tra il 15 settembre ‘43 ed il giorno ufficiale della nostra resa del 22 settembre. E dopo quella data, tutti coloro che sono stati uccisi senza armi in pugno e solo per rappresaglia – essenzialmente dal 23 al 28 settembre ’43 – o morti in seguito, causa gli affondamenti delle navi tedesche che li trasportavano verso i lager di Hitler, ad integrare le migliaia di IMI che già stavano lì arrivando. E chissà quanti altri, tra questi, non sono più ritornati a casa. Perché anche quelli contano. Eccome!
Tutto partì – per così sintetizzare - alle ore 19.45 di mercoledì 8 settembre 1943, quando nella più totale incompetenza ed impreparazione il m.llo Badoglio alla radio disse che l’armistizio era stato accettato dal nemico anglo/americano (loro avevano, i vincitori, accettato, non noi, gli sconfitti, a suo dire) e aveva dettato un ulteriore ordine, ancora più ambiguo del resto: “le truppe italiane dovranno reagire a EVENTUALI attacchi di qualunque altra provenienza”. Quindi anche sparando ai tedeschi, sebbene non nominati, fino ad un minuto prima nostri alleati, SE da questi attaccati, però. Solo se attaccati, ovviamente.
A Cefalonia, a noi assegnata dopo che Hitler il 21 aprile 1941 aveva conquistato la Grecia (arrivando causa il fallimento della nostra invasione del 28 ottobre precedente), in quel momento vi erano 12 mila italiani. Quasi tutti della 33ª Divisione fanteria "Acqui" del generale Antonio Gandin (17º e 317º Reggimento fanteria da montagna - quest’ultimo giunto nell’isola già dal maggio 1942 - e dal 33º Reggimento artiglieria). Ma non solo: anche importanti reparti di Carabinieri (la 2ª Compagnia del VII Battaglione Carabinieri Mobilitato più la 27ª Sezione Mista Carabinieri) reparti del 1° Battaglione Finanzieri mobilitato, il 110º Battaglione mitraglieri di corpo d'armata, (con tre batterie da 155/14), il 3° Gruppo contraereo da 75/27 C.K., i marinai che presidiavano le batterie costiere (una da 152/40 e una da 120/50) oltre al personale del locale Comando Marina e di tre ospedali da campo.
In estrema sintesi: un imponente gruppo di persone, mezzi, armamenti per il controllo di un’importante e strategica via di passaggio nel basso Adriatico e quindi del Mediterraneo.
Solo che vi era una piccola anomalia, secondaria per molti, quasi trascurata in Italia, perché scomoda.
Tutti i reparti presenti a Cefalonia all’8 settembre ’43 erano inquadrati sotto la XIª armata italiana comandata dal generale Carlo Vecchiarelli – con sede di comando però ad Atene, zona di pertinenza e controllo solo dei nazisti – ma (e questo MA va sottolineato) dipendente a sua volta, direttamente e gerarchicamente, dallo ‘Heeresgruppe E’ tedesco.
Così aveva deciso Badoglio, 40 giorni prima, per tacitare i nazisti dopo la caduta di Mussolini e far capire che dopo il 25 luglio ‘la guerra con l’alleato germanico proseguiva’, come nulla fosse cambiato. Almeno inizialmente. Così aveva deciso Badoglio, per mantenere fede e continuità al Patto d’Acciaio, firmato dal Duce a Berlino il 22 maggio 1939 che, di fatto, aveva aperto la porta alla nostra guerra mondiale.
Il comandante supremo, pertanto, degli uomini di Cefalonia non era, in realtà, il nostro gen. Vecchiarelli, ma bensì il generale nazista della Luftwaffe Alexander Löhr, uomo di assoluta fiducia di Hitler, padrone della Grecia occupata e ‘numero 1’ dello Heeresgruppe E.
Di conseguenza, quando arrivò via radio la notizia dell’armistizio e del cambio delle alleanze, a chi doveva ubbidire il generale Gandin coi suoi 12 mila uomini? Al governo di Badoglio e al Re, a cui tutti avevano giurato fedeltà, o al loro comandante nazista Alexander Löhr, gerarchicamente il loro diretto superiore tramite la figura, molto opaca, del gen. Vecchiarelli?
Non era una domanda di poco conto perché quella domanda racchiudeva la vita di 12 mila uomini. E la risposta decideva la loro sorte. Ed era un bivio secco, senza altre alternative possibili. O di qua o di là del fiume.
A Cefalonia, in quell’8 settembre, ovviamente vi erano anche già presenti i nazisti, sebbene in misura molto più limitata. Precisamente un presidio del Festungs-Infanterie-Regiment 966 (966º Reggimento Fanteria da fortezza) composto da due battaglioni (Festungs-Bataillon 909 e Festungs-Bataillon 910) al comando dell'oberstleutnant (tenente colonnello) Hans Barge, e dalla 2ª batteria dello Sturmgeschütz-Abteilung 201 (201º Battaglione Semoventi d'assalto) posizionati insieme con una compagnia del 909º nel pieno centro di Argostoli, il capoluogo dell'isola. Complessivamente i nazisti contavano quasi 1.800 uomini, in un rapporto se vogliamo dare un senso ai numeri di 1 a 7. Un tedesco contro 7 italiani. A nostro totale ed assoluto vantaggio.
Solo che vi era una seconda piccola anomalia, marginale per molti, quasi trascurata in Italia, perché anch’essa scomoda.
I 1.800 tedeschi avevano ordini precisi ricevuti dal loro gen. Lohr in base al piano Achse (a cui peraltro aveva, già dal 9 maggio 1943, personalmente lavorato col feldmaresciallo Wilhelm Keitel), mentre i nostri 12.000 italiani brancolavano nel buio, malgrado gli sforzi continui ed eroici sul campo del loro comandante Gandin.
Il gen. Gandin - sicuramente consapevole della situazione nell’isola - ricevette infatti ordini diversi ed opposti, perché arrivati da comandi diversi ed opposti.
La notte tra l’8 ed il 9 settembre, il gen. Vecchiarelli – su ordine ovviamente del gen. Lohr (che dopo lo arresterà) - dal Comando della XI Armata di Atene dette ordine a tutte le Divisioni italiane presenti in Grecia – e quindi anche agli uomini di Cefalonia – di ‘cedere le armi pesanti’ ai nazisti.
«Seguito mio ordine dell'8 corrente ... Presidi costieri devono rimanere attuali posizioni fino a cambio con reparti tedeschi non oltre però ore 10 giorno 10 ... Siano lasciate ai reparti tedeschi subentranti armi collettive e tutte artiglierie con relativo munizionamento ... Consegna armi collettive per tutte Forze Armate Italiane in Grecia avrà inizio a richiesta Comandi tedeschi a partire da ore 12 di oggi. Generale Vecchiarelli.»
Di fatto così, gli equilibri di forze anche nell’isola inevitabilmente cambiavano all’istante, in attesa che poi arrivassero sul luogo altri imponenti reparti tedeschi. Ordine che era frutto dei vincoli del Patto d’Acciaio di Mussolini (art. 3 e 5) e delle gerarchie codarde ed ambigue decise dal suo successore, Badoglio, dopo il 25 luglio 1943. Il tutto, sia con Mussolini prima che con Badoglio dopo, col totale e attivo consenso del Re.
L’ordine del gen. Vecchiarelli, però, contrastava totalmente col giuramento fatto dai nostri soldati ed ufficiali verso l’Italia, il Re e il suo allora legittimo governo. E non sarà pertanto accettato da molti generali sul campo. Sarà così a Rodi con l’Ammiraglio Inigo Campioni, sarà così a Leros con l’ammiraglio Luigi Mascherpa. Ed entrambi pagheranno con la vita quello che Mussolini definirà come tradimento (li farà fucilare il 24 marzo 1944 a Parma dai suoi fascisti di Salò, tanto per ribadire ancora una volta quanto criminale fosse ‘quell’Uomo della Provvidenza’ ancora oggi onorato da molti a Predappio). Sarà così per il colonnello Felice Leggio a Kos o il Gen. di divisione Ernesto Chiminello ad Argirocastro e il col. Gustavo Lanza a Kuç in Albania, fucilati dai nazisti come nemici vigliacchi perché contrari al Fuhrer e al Duce.
Farà così anche Antonio Gandin. Ma prima, cercò di recuperare tempo sul campo col presidio nazista, avviando contatti ed incontri diplomatici già dal giorno 10 coll'oberstleutnant Hans Barge. Nel frattempo, sin dall’alba del 9, si mise in contatto più volte con gli uomini di Badoglio e Roatta, in fuga verso Brindisi. Ma evidentemente nessuno dei due aveva tempo per rispondere. Succederà solo quando, giunti al sicuro, lontano dai tedeschi e protetti dagli Alleati, faranno i ‘duri e puri’.
Solo alla mattina del giorno 11 settembre, alle 9 e 45, il gen. Gandin riceverà un ordine chiaro e tassativo (n. 1029/08). Solo al Comandante Gandin di Cefalonia, peraltro, diretto e personale. E gli altri a Rodi, Leros, Kos e in mille altri luoghi della Grecia, Albania ed Jugoslavia? Perché a loro no?
L’ordine categorico era di ‘resistere con le armi at intimazione tedesca di disarmo a Cefalonia et Corfù et altre isole’. Corfù e le piccole isole vicine perché dipendevano dal gen. Gandin o altre isole lontane, come Rodi, Kos e Leros, su cui Gandin non aveva nessuna competenza e nessuna giurisdizione?
Non sembra che Campioni, Mascherpa e Leggio, ad esempio, abbiano ricevuto analoghi ordini, e non è ipotizzabile che anche loro non abbiano rotto le scatole a Brindisi per avere chiarimenti sul da farsi.
Resistere con le armi, poi? Coi tedeschi che stavano arrivando in massa nell’isola, armati fino al collo come da ‘piano Achse’ e con la bava alla bocca per il ‘tradimento’ del Patto d’Acciaio?
Il piano Achse, del resto, era semplice e prevedeva:
«Dove vi sono reparti italiani o nuclei armati che oppongono resistenza bisogna dare un ultimatum a breve scadenza. Nell'occasione occorrerà dire con veemenza che gli ufficiali responsabili di questo tipo di resistenza verranno fucilati quali franchi tiratori se, alla scadenza dell'ultimatum, non avranno dato alle loro truppe l'ordine di consegnare le armi.»
E i tedeschi contavano oltre 300.000 uomini tra l’Epiro e la Jugoslavia.
Già entro il giorno 15 arriveranno sull'isola il 3º battaglione del 98º Reggimento da montagna e il 54º Battaglione da montagna, appartenenti alla 1. Gebirgs-Division Edelweiss, il 3º battaglione del 79º Reggimento artiglieria da montagna, e il 1º battaglione del 724º Reggimento cacciatori, quest'ultimo inquadrato nella 104. Jäger-Division, sotto il comando del Maggiore Harald von Hirschfeld. Il tutto coadiuvato dalla presenza in cielo dell'aviazione tedesca.
Testimoni e documenti affermano che il gen. Gandin aveva espressamente richiesto al Comando di Roma, allora in trasferta a Brindisi, come è naturale ipotizzare, ‘immediato aiuto aereo per affrontare la nuova situazione’. Aiuto che mai arriverà dal cielo e tanto meno per mare.
Che fare quindi?
Il gen. Gandin, eroe nella guerra italo/turca del 1912, ‘uomo tutto d’un pezzo’ nella Grande Guerra del ‘15/’18 e superstite nella campagna di Russia, convocato un Consiglio di Guerra e sentiti anche i suoi subalterni e gli uomini della truppa (non tutti ovviamente perché non possibile) - che addirittura misero ai voti il ‘cosa fare’ - decise di lottare contro il ‘nuovo’ nemico. Costi quel che costi.
Decisero assieme convintamente e fu guerra totale.
La battaglia vera durò una settimana, poi le forze militari naziste, soprattutto aeree, non permisero di andare oltre. Avevano salvato la dignità del nostro Paese per quanto soli ed isolati, dimostrato che si poteva anche reagire all’oppressione nazista, ma anche che, se non hai ordini coerenti e direttive precise, non puoi che fermarti.
Il 22 settembre il grande gen. Gandin decise di convocare un nuovo Consiglio di Guerra, dove a malincuore si scelse di arrendersi ai tedeschi. Come bandiera bianca, da issarsi sul balcone della ‘casetta rossa’, sede provvisorio del comando, volle che fosse usata una tovaglia: quella dove tutte le sere i suoi comandanti cenavano e dove talvolta erano stati presenti, come graditi ospiti, anche l'oberstleutnant Barge e altri ufficiali nazisti.
Piccolo dettaglio. Ma di grande valore: si era alleati, si mangiava assieme. Ora il tempo era cambiato e quella medesima tovaglia, che prima aveva unito due soci, adesso serviva per separare i tedeschi dagli italiani.
Ma il piano Achse non considerava tovaglie e retaggi sentimentali del passato. Intervenne di persona anche il Fuhrer, che due giorni prima aveva incontrato a Monaco il Duce e con cui il giorno dopo firmerà la nascita della Repubblica di Salò. Gandin era un traditore, come per Mussolini saranno traditori Mascherpa e Campioni. Tutti meritavano la morte per il Duce. Il Gen. Gandin poi chi era? Non gli era mai stato simpatico e tanto meno un suo seguace fanatico, era militare come Badoglio ben prima della marcia su Roma. E i 12 mila di Cefalonia: chi se ne frega? A Monaco c’erano cose più importanti, come definire i dettagli per l’esercito da consegnare al gen. Rodolfo Graziani, per la sua lotta urgente all’antifascismo. Mussolini non spese una parola.
E così partì la mattanza. I soldati italiani che, nella battaglia dei giorni precedenti, erano stati catturati e fatti prigionieri vennero subito uccisi. Si racconta che qualche soldato o ufficiale nazista – che probabilmente aveva instaurato nei mesi precedenti un rapporto di amicizia con qualche italiano – fu minacciato di morte dai superiori se non avesse eseguito gli ordini ricevuti. Tutti gli altri italiani dell’isola vennero cercati e rastrellati e chi trovato fucilato sul posto. Senza pietà, come si fa quando in autunno si caccia la lepre. La mattina del 24 settembre toccò anche al generale Antonio Gandin.
La furia assassina si calmò e solo in parte verso il giorno 28.
I tedeschi iniziarono a bruciare i corpi dei nostri uomini, molti altri vennero buttati, ove comodo, in mare. Ma erano talmente tanti, tantissimi, troppi, che molti furono lasciano insepolti o gettati come spazzatura nelle cisterne dell’isola, alcune destinate alla raccolta dell’acqua piovana.
Altrove, altri, le chiameranno foibe.
Il corpo del gen. Gandin non sarà mai trovato e identificato.
Chi rimase vivo – terrorizzato e morto ‘dentro’ - fu caricato su navi destinate ai porti greci col biglietto in treno verso i lager in Polonia, tra cui anche Auschwitz e Treblinka. Ma molti nemmeno vi arriveranno, perché quelle navi vennero colpite da mine (come la ‘Sinfra’ e la ‘Ardena’) o dagli aerei alleati (come la ‘Mario Roselli’). Dei 12 mila italiani presenti all’8 settembre gli storici affermano che neanche 3 mila, neanche il 25%, si salvarono. Ai mille morti nella battaglia prima della resa del 22 settembre, seguirono almeno altre 5 mila passati dopo per le armi dai nazisti e altre 3 mila scomparsi in mare. Non si hanno invece dati su chi si salvò dai lager di Hitler.
Se qualcuno vi chiedesse perché sono morti il gen. Gandin e altre 9 mila uomini di Cefalonia, la risposta è perché i loro capi o governanti mentirono e se ne fregarono, sapendo di fregarsene.
Pensate: 9 mila, forse 10 mila morti. Quasi lo stesso numero delle vittime delle foibe. Numeri spaventosi e peraltro vittime entrambe poi del silenzio assassino, che ha regnato nell’Italia dopo il 1945. E che non è mai del tutto scomparso. Uccisi tutti, due volte.
Come per le foibe, anche per i martiri di Cefalonia si aprì il velo con molta fatica solo negli anni ’90, 50 anni dopo. Dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo la fine dalla ‘guerra fredda’, la scoperta improvvisa dell’Armadio della Vergogna a Roma nel 1994, nella sede prestigiosa della Procura Generale Militare, in Via degli Acquasparta, dove in molte delle 2.273 ‘voci’ e in molti dei 695 ‘fascicoli’ nascosti si parlava dell’eccidio di Cefalonia.
E fa male saperlo. Perchè nei 50 anni precedenti si poteva far luce e far giustizia. Forse. Ma serviva? Era utile alla causa di chi stava al potere, quando servivano amnistie anno su anno per pulire e dimenticare le colpe di quegli anni? E purificare fior fiore di assassini e criminali? Si poteva parlar male del duce e dei fascisti di Salò?
Pensate che Ormar Muhlhauser, un sottotenente del 724º Reggimento cacciatori, che fu uno dei più assetati di sangue a Cefalonia e al comando spesso di numerosi plotoni di esecuzione nei pressi della ‘casetta rossa’, era stato interrogato in Germania nel 1967, accusato per altri crimini nazisti. Ma non ci fece nulla. Verrà ripreso e reinterrogato 40 anni dopo su Cefalonia, ma – scherzo del destino o chissà cos’altro? – solo qualche mese prima (il 27 luglio 2007 per la precisione) erano scaduti, per prescrizione, i termini idonei a proseguire la fase processuale.
E – duole da italiano dirlo – a portare quel criminale davanti ad un giudice, almeno nelle intenzioni, non erano stati magistrati o uomini di legge italiani, ma bensì solo inchieste di giornalisti indipendenti tedeschi. In via autonoma, seguendo la regola della propria professione, facendo inchieste e spendendo energie. Quello che da noi non si sa nemmeno, da tempo, cosa sia.
Ad uno di quei giornalisti e in più occasioni in sede processuale – sebbene poi resa inutile – quel sottotenente di Cefalonia (o macellaio se si preferisce) ebbe a dire che nell’isola i ‘soldati italiani erano traditori’. Parole testuali. E faceva riferimento al Patto d’Acciaio del 22 maggio 1939, quando Mussolini condannò a morte l’Italia, tra gli applausi di molti ed il silenzio di tutti. Silenzio vigliacco che ancora oggi regna sovrano su quella firma criminale ed assassina.
Se qualcuno vi chiedesse perché a Celafonia è morto il gen. Gandin assieme ai suoi uomini, avete ora una parola in più per rispondere. Non certo tutta la verità, perché solo a Dio quella è concessa. Solo un qualcosa di più.
Ma non preoccupatevi: in Italia nessuno vi domanderà mai nulla, nemmeno oggi, dopo oltre 80 anni, nella ricorrenza della sua uccisione. Non è che con la scoperta ‘dell’Armadio della Vergogna’ la vergogna morale e l’ignoranza storica italiana siano state eliminate. Anzi: parlare oggi di Cefalonia dà fastidio, non è utile alla causa patriottica, non è utile ai fini elettorali domandarsi il perché di quelle colpe, chiedersi il peso delle scelte del Duce, di Badoglio, del Re. Del silenzio assordante che ne seguì. E di chi permise e supinamente accettò tutto questo, con Mussolini, durante Mussolini, dopo Mussolini. Col fascismo, durante il fascismo, dopo il 25 Aprile 1945.
‘Se qualcuno vi chiedesse perché siamo morti, rispondete perché i nostri padri mentirono e se ne fregarono sapendo di farlo’.
Sembrano parole del gen. Antonio Gandin e dei suoi uomini.
Invece è solo una stortura di una frase dolorosa di Joseph Rudyard Kipling.
Sembrano storie del passato, invece nascondono molto del presente.
24 settembre 2024 – 81 anni dopo
* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
 
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