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In guerra, la verità è la prima vittima
di
Rinaldo Battaglia *
La mia terra vicentina dopo l’8 settembre ’43, forse perché già da allora ben dotata sotto il profilo industriale e alquanto produttiva nel comparto agricolo, fu una comoda preda per i gerarchi del Terzo Reich, favoriti in questo molto dalla presenza e attiva collaborazione dei fascisti di Salò. Soprattutto dal settembre ’44 quando il feldmaresciallo Kesselring – il numero 1 delle truppe tedesche operanti in Italia - portò la sede del suo comando alle Fonti Centrali di Recoaro.
Coerentemente, per ordine del gen. Heinrich Wolff, allora capo delle SS e comandante di polizia in Italia, venne rafforzato tutto il presidio nazista in zona, con la nomina del cap. Fritz Büschmeyer - comandante dell’ÖstBataillon 263 formato da volontari russi ed ucraini - a responsabile del Settore Vicenza-Nord, comprendente Recoaro, Valdagno, Schio, Arzignano, Piovene Rocchette, Arsiero, Marano Vicentino, Thiene, Marostica, Bassano del Grappa e Asiago. Il tutto con una ‘mission’ precisa: combattere e sconfiggere totalmente il movimento partigiano operante in zona e già tra i più ‘vivaci’ anche a livello nazionale.
Dopo la caduta di Roma del 4 giugno’44, anche gli uomini di Mussolini sotto le effige della R.S.I. (Repubblica Sociale Italiana), qui trasferirono importanti ministeri tra cui, a Valdagno, il comando generale di polizia del Ministero degli Interni, l’archivio dell’Ovra (la Gestapo fascista) , il gruppo Gamma (i nuotatori d'assalto della Xª MAS); la scuola allievi ufficiali della G.N.R.(Guardia Nazionale Repubblicana) a Tonezza del Cimone; la Xª Mas a Thiene; a Montecchio Maggiore la marina; a Longa di Schiavon la scuola delle S.S. italiane. Il piatto era ricco e molta la fame degli autoinvitati.
Da giugno non vi furono giorni senza morti, attentati, stragi. Dalle mie parti non c’è un borgo di paese o una frazione che non abbia capitelli e croci a memoria degli uccisi, in grandissima parte civili massacrati ’senz’armi in pugno’.
Di molti eccidi si conoscono bene i nomi, le modalità, le motivazioni specifiche, che ovviamente sottostavano alla regola di base: eliminare la lotta partigiana che ostacolava il potere nazifascista, in questa fase di luna calante, ma non ancora per nulla rassegnato alla sconfitta finale.
Di altre stragi o eccidi non tutto è per gli storici ancora chiaro.
Su qualche caso, ad esempio, si narrano anche cose diverse, non documentate storicamente ma che – vista l’entità dei dettagli e l’insistenza delle memorie degli anziani del posto - probabilmente potrebbero essere in parte vere. E la cosa non fa onore – in ogni caso – a chi si macchiò di quei crimini, in tutto o in parte. Forse la causa dei loro comportamenti senza dignità non era dovuta alla guerra stessa, ma era la guerra ad esser usata quale manifestazione della loro crudeltà e cattiveria personale.
Oggi è il 16 agosto e vi racconto una vicenda passata alla Storia come l’eccidio d’agosto di Arsiero, nell’alto vicentino. Una vicenda – sotto certi aspetti - a più facce.
Il tutto andrebbe inserito nei colpi di coda dell’operazione Belvedere (durata dal 12 al 14 agosto 1944) dove i nazisti, con al fianco i soliti fascisti, nella vicina zona di Posina (Malga Zona) circondarono e indussero alla resa una pattuglia partigiana del Gruppo Brigate Garemi, guidati da Bruno Viola. I nazifascisti raggrupparono i 14 partigiani arresisi, misero a loro vicino 3 civili rastrellati nelle malghe della zona e li fucilarono senza pietà (all’alba del 12 agosto).
I rastrellamenti proseguirono fino al giorno 17 colpendo le vallate del Leogra, del Posina, dell’Astico e sui massicci del Pasubio, dell’altipiano di Tonezza, Folgaria e Campiluzzi. Ancora nella zona di malga Zonta vennero catturati altri tre ragazzi partigiani: i fratelli Ampelio e Pietro Buzzaccaro ed Ostilio Zanon. Ampelio (“Russo”), il maggiore, aveva 20 anni, Pietro (“Leo”) aveva invece compiuto 19 tre mesi prima. Risiedevano nella vicina Tretto.
Il terzo (‘Miscel’) era del maggio 1926, renitente alla leva del 18 febbraio 1944 quando il generale Rodolfo Graziani – il numero 2 a Salò ma non secondo per crimini di guerra - mandò alla guerra anche i ragazzi di 18 anni.
I 3 vennero portati al cimitero di Arsiero, a calci costretti a scavarsi la loro fossa e quindi a lavoro finito fucilati alla schiena, come traditori. Era il 16 agosto, il giorno dopo la Festa dell’Assunta.
Affermati storici (quali Domenico Baron, Giovanni Cavion, Valerio Caroti, Remo Grendene, Emilio Trivellato in ‘Quaderni della Resistenza Schio’, n. 11, Grafiche Marcolin, Schio, 1979; p. 582, 694) non hanno mai identificato le generalità di chi fossero quel giorno gli assassini.
Altri, come Pierluigi Damiano Dossi (in “I grandi rastrellamenti nazi-fascisti dell’estate-autunno ’44 nel vicentino”), invece vanno oltre. Dossi (storico della Resistenza) scrive ad esempio che la segretaria locale del partito fascista femminile locale, Maria Meneghini in Locarno, “avrebbe sputato addosso ai tre partigiani prima che a questi venisse inferto il colpo di grazia alla nuca”.
E qui si potrebbe chiudere la vicenda, indegna ed indecorosa. Ma la guerra è guerra, è la prima a morire durante la guerra è sempre la verità, perché ogni parte in causa presenta la propria verità cancellando e azzerando le altre tesi.
Eschilo 2.500 anni fa scriveva che ‘in guerra, la verità è la prima vittima”. Non si sbagliava di certo. Anche 2.500 anni dopo.
In merito, ad esempio, a Maria Meneghini, allora di quasi 60 anni, sposatasi nel 1912 e madre di due figlie, va detto che stando ad altre fonti (come Carlo Cesare Montani, storico nativo di Fiume e esule giuliano/dalmata da bambino, a guerra finita) venne poi arrestata, appena scappati i nazisti, assieme alla figlia maggiore Lucia, “con l’accusa – all’epoca imperdonabile – di essere stata la Segretaria locale del Partito Nazionale Fascista, sebbene varie testimonianze potessero attestare che il suo compito era stato svolto a fin di bene, e nell’interesse generale, con particolare riguardo alla tutela dei più bisognosi.
Certamente «non era venuta meno alla sua dignità d’Italiana» ma non era una delatrice, e nemmeno una persona che si fosse battuta contro coloro che ormai da qualche tempo erano impegnati sull’altro fronte, galvanizzati dal supporto militare degli Alleati, e dalla loro pur lenta avanzata che li aveva portati sulla Linea Gotica sin dall’autunno dell’anno precedente”.
Sono ovviamente parole del Montani che riprendo testualmente.
“Subito dopo l’arresto, fu bastonata a sangue, oggetto di ogni sorta di dileggi, e imprigionata negli scantinati del Municipio di Arsiero. Poi fu trasportata in una vecchia struttura ospedaliera resa inservibile dalle forze tedesche in ritirata: aveva già subito il taglio integrale dei capelli secondo una prassi ormai diffusa, e camminava faticosamente a causa delle angherie che aveva già dovuto sopportare, quando fu sottoposta al «giudizio» di un improvvisato tribunale popolare composto dal medico condotto, dal farmacista e da diversi partigiani, ivi compreso un ex Commissario Prefettizio della Repubblica Sociale Italiana che era stato particolarmente abile nell’arte del riciclaggio.
Nella predisposizione della sentenza stava prevalendo il buon senso, ma gli elementi oltranzisti riuscirono ugualmente a imporsi con probabile ricorso alla minaccia. Un elementare senso di carità e riservatezza esime dal riferire circa i nuovi oltraggi: tra l’altro fu fatta procedere a piedi nudi e semivestita, fino al valico sovrastante Arsiero, e costretta a raggiungere la frazione di Strenta, non senza subire nuove oscenità, mentre il partigiano Lino Fontana (nome di battaglia Spada), incaricato di comandare il plotone d’esecuzione, non disdegnava di continuare a tormentarla con lo scudiscio. Come se tutto ciò fosse ancora poco, un partigiano si fece premura di piantarle un coltello nella schiena.
Ormai impossibilitata a procedere, fu trascinata fino al luogo prescelto per l’estremo sacrificio, ma il plotone, colpito da un pur tardivo senso di «pietas», non volle sparare, costringendo il comandante a disporre perché l’opera fosse compiuta da un giovane partigiano quattordicenne presente alla scena, che avrebbe eseguito l’ordine scaricando a più riprese il mitra sul corpo esanime della sventurata.
Era il 6 maggio, a pochi giorni dalla tanto vagheggiata «liberazione», come emerge dall’atto di morte presente negli archivi del Comune: ciò significa che la sua «via crucis» si era protratta per un’intera settimana, senza che nessuna autorità, o presunta tale, potesse o volesse intervenire a fronte di quello scempio...”,
Chi era quindi Maria Meneghini in Locarno? Probabilmente le due ‘verità’ sono le due facce della stessa medaglia, perché la prima non può a priori escludere la seconda.
“In guerra, la verità è la prima vittima.”
E nelle guerre in corso, quella in Ucraina per prima o nel Medio Oriente, dov’è sta la verità? Quale risulta la verità?
Difficile rispondere ancora oggi per
le vicende criminali della mia terra di 80 anni fa, figuriamoci per i crimini odierni, che non si fermano ad est.
So solo che, se vogliamo conoscere ‘la vera verità’ dobbiamo prima voler fermare la guerra. Tutto viene dopo.
Forse. Perché “in guerra, la verità è la prima vittima.”
16 agosto 2024 – 80 anni dopo - Rinaldo Battaglia
* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
 
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