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06 maggio 2024
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I fascisti della caserma Piave
di Rinaldo Battaglia *

Per la serie ‘è sempre stata colpa dei tedeschi nazisti e gli italiani fascisti nei crimini, in Italia, della Seconda Guerra Mondiale non c’entravano nulla’, serie nell’ultimo periodo molto di successo – anche ai massimi livelli con l’obiettivo di ‘parificare’’ e quindi purificare’ il fascismo e i fascisti – oggi vi racconto delle atrocità commesse da due bande – al servizio dei nazisti ma fortemente autonome - che operavano dopo l’8 settembre ’43 a Palmanova e nella bassa friulana.

Mi riferisco alla banda Borsatti e, a seguire, alla banda Ruggiero che ne prese il testimone e proseguì. Mi piacerebbe sapere – a parte gli addetti ai lavori – chi ne sa oggi qualcosa. Eppure sono state basilari, importantissime, in quegli anni. Soprattutto la prima, la banda Borsatti, il cui nome nel ’44 faceva tremare di terrore le popolazioni civili della bassa friulana. Si deve sapere che quando, il 6-7 maggio 1945, arrivò la notizia che il TDP (Tribunale del Popolo) il giorno 5 maggio aveva chiuso il processo verso il comandante della banda – il tenente Odorico Borsatti – la popolazione di Palmanova si sentì solo allora finalmente ‘liberata’. Perché alla condanna di morte fu subito eseguita la sentenza e forse per molti anni più che onorare il 25 Aprile in quelle zone si celebrava il 5 maggio. Eppure il tenente Odorico Borsatti quando venne condannato e fucilato non aveva ancora 24 anni, giovanissimo, ma per le sue gesta spaventosamente temutissimo.

Vale la pena quindi di presentare questo figlio del Duce, fascista sin dalla nascita e cresciuto nel clima di forte ‘nazionalizzazione’ che era l’Istria (era nata a Pola il 13 giugno 1921) dopo il passaggio all’Italia e di quella tremenda violenza sulle minoranze slave (minoranza nelle città principali non certo nelle campagne).

Odorico Borsatti veniva da ricca famiglia imprenditoriale e sin da ragazzo l’esser fascista e prima ancora ‘benestante’ gli permise di raggiungere quello che cercava senza tanta fatica. A vent’anni o poco più era già tenente di cavalleria ‘in servizio permanente effettivo’ nel reggimento lanceri “Novara”. Morale della favola: al sicuro nelle caserme e lontano dal freddo invernale delle battaglie in Grecia o Jugoslavia o dal caldo del deserto dell’Africa, dove si combatteva e moriva. Aveva studiato, parlava da dio il tedesco (la famiglia si era arricchita con successo negli anni della prima industrializzazione ai tempi di Francesco Giuseppe) e questo lo facilitò anche dopo l’8 settembre ’43.

Venne infatti subito scelto, essendo di provata fede fascista e di buona parlata tedesca, quale interprete e aiutante del generale Emilio Canevari, incaricato personalmente dal Duce e da Graziani di andare nei lager nazisti con la missione di arruolare i prigionieri italiani, i nostri IMI, nell’esercito della RSI. Ma con luglio ’44, fallito il tentativo sugli IMI – che per l’85-90% preferirono restare nei lager piuttosto che ritornare a combattere per il Duce – scelse, anziché di lavorare direttamente per la RSI, di arruolarsi nelle SS e combattere inquadrato nelle Waffen-SS. In cambio ottenne da Berlino non solo il grado Waffen-Obersturmführer der SS e il comando di un plotone (Reiter-Zug) dalla Waffen-Gebirs (Karstjäger)-Brigade der SS (un reparto composto da soldati tedeschi e italiani volontari) ma ampia e forte autonomia. Un po’ come la X° Mas di Junio Valerio Borghese, sebbene in misura minore e su scala più locale.

Comandava ufficialmente all'inizio solo una quarantina di uomini, bene selezionati, fidati, fanatici ma ‘coadiuvati’ da altri soldati appartenenti ad altri reparti fascisti e soprattutto sempre bene protetti e supportati dal Comando delle SS/Polizei dell’SS-Haurtsturmführer, Herbert Pakebusch. Di fatto in zona aveva carta bianca. E aveva solo 23 anni.

In pochi mesi mise in piedi un’attività di repressione del movimento partigiano fortissima e violentissima, attraverso rastrellamenti, arresti anche di solo sospettati di aver aiutato o soccorso gruppi partigiani, violenze indiscriminate, torture ai prigionieri ed esecuzioni sommarie. A dicembre 1944 Borsatti, col suo squadrone di allora 100 fascisti che egli stesso chiamava le sue ’iene’, spostò la sua sede poco fuori Udine a Venzone e successivamente a Colloredo di Montalbano, allargando così le sue azioni criminali. Partecipò, al comando dei suoi uomini, peraltro attivamente coi nazisti anche a marzo ed aprile del ’45, nell’operazione Winterende nella selva di Tarnova e poi Lastisana, uno degli ultimi tentativi dei tedeschi per non ‘perdere’ quelle terre.

Ma fu la Caserma Piave di Palmanova il centro del suo potere ed il simbolo delle sue attività. Secondo molti storici e soprattutto ‘’Istituto friulano per la Storia del Movimento di Liberazione’ da agosto/settembre 1944 ai primi giorni dell’aprile 1945, “la caserma Piave fu sede di uno dei più importanti centri di repressione antipartigiana, istituito per debellare l’attività della Resistenza della Bassa friulana.

In otto mesi di attività, nella caserma Piave furono torturate e uccise 465 persone, uomini e donne di cui si conosce l’identità; ma numerosi furono i resti di corpi umani ritrovati dalle forze alleate inglesi nei pozzi neri della caserma e interrati all’esterno della città. Delle vittime 231 sono attribuite alla banda Borsatti e 234 alla banda Ruggiero, figure di spicco nella cruenta operatività della caserma. Si stimano altre 700 persone imprigionate e torturate, per un totale di oltre un migliaio”.

Per molti la Caserma Piave è diventata “un luogo simbolo degli efferati avvenimenti" della Seconda guerra mondiale e da tramandare quale "memoria storica e coscienza delle origini della democrazia, conquistata attraverso percorsi tragici, che hanno segnato profondamente il nostro territorio”.

Odorico Borsatti e i fascisti della Caserma Piave erano ampiamente noti per la loro violenza già dopo pochi mesi. Si pensi che il Bollettino settimanale d’informazioni n. 26 del 26 dicembre 1944, il servizio di informazioni partigiano, aveva raccolto prove e definito Borsatti un “criminale di guerra a Palmanova dove ha sottoposto a tortura numerosi patrioti della Bassa Friulana spargendo il terrore nella plaga”. Lo storico Angiolino Filiputti, più di altri ha studiato e approfondito il modus operandi dei fascisti della caserma Piave di Palmanova. Raccontava che “la sevizia più comune consisteva nel legare i polsi della vittima, di solito nuda, con una corda, dopo averle fatto mettere le mani dietro la schiena e sospenderla con la stessa corda a un grosso gancio infisso nel muro, lasciandola lì per ore, spesso percuotendola e gettandole addosso secchi di acqua gelida o bollente. Un supplizio che provocava la slogatura delle spalle e spesso anche la perdita di lucidità.”

Poi si arrivava a far bere ai condannati bevande salate se andava bene, o urina se andava male. Alla fine venivano uccisi scrivendo come causa la solita frase “morte per tentata fuga”, frase tipica e vigliacca dei fascisti della banda Borsatti per nascondere l’eliminazione dei prigionieri dopo i loro ‘interrogatori’.

Filiputti avrebbe trovato ad oggi ben 113 di questi casi. Con tanto di nomi e cognomi. Non uno ma bensì 113. Per non parlare poi dei vari partigiani ‘effettivi’ arrestati.

Nella zona di Borsatti e della sua banda operavano due gruppi partigiani: la Osoppo – di estrazione cattolica, che il 4 settembre 1944 si costituì in Brigata – e la Montes dal nome di battaglia del comandante Silvio Marcuzzi, tra le più grandi e meglio organizzate del Friuli e forse anche oltre.

La Osoppo però fu decimata e distrutta con l’arresto e la deportazione nei lager nazisti, nel novembre 1944 del suo comandante Eugenio Morra e del collaboratore Carlo Dessì. Sulla Montes invece ci arrivò invece prima Borsatti. Grazie alle informazioni raccolte con le torture inflitte ad un ragazzo partigiano nella caserma di Palmanova (che poeticamente Borsatti chiamava ‘le celle del paradiso’), Silvio Marcuzzi (“Montes”, Medaglia d’Oro della Resistenza) venne arrestato e torturato a morte. Resisterà solo 3 giorni, senza lasciare alcuna parola, alcuna informazione sui suoi amici partigiani.

Quanto sia stato crudelmente torturato lo riprese ancora lo storico Angiolino Filiputti da una testimonianza di un altro partigiano, prigioniero in quei giorni nella caserma e miracolosamente poi sopravvissuto: “Da dove mi trovavo sentivo Montes urlare come i cani, chiamava nomi strani e cantava. Poi fu la sua fine perché non lo udii più”.

Ma forse le parole più complete sui fascisti della Caserma Piave agli ordini di Odorico Borsatti sta nei documenti di un altro storico quale Flavio Fabbroni: “Odorico Borsatti, al comando di un gruppo di SS volontarie italiane e tedesche aderì in toto all’ideologia nazifascista, al concetto di superiorità della razza eletta, al disprezzo degli avversari, sottouomini che non meritavano di vivere”. Sarà Borsatti – scrive Fabbroni - “ad arrestare Montes e sarà lui a catturare uno dei partigiani friulani più ricercati, il comandante Gap di battaglione Ilario Tonelli Martelli, che, per sua fortuna, sarà subito trasferito nelle carceri di Udine dalla polizia tedesca, irritata per come Borsatti aveva gestito la sorte di Montes che avrebbero voluto interrogare.

Martelli verrà liberato dalle carceri di Udine nel corso della leggendaria azione messa a segno dalla formazione gappista dei Diavoli Rossi di Gelindo Citossi il Mancino. Tra le mura di Palmanova verrà torturato anche un componente dei Diavoli Rossi: Antonio Fedrigo Lampo, arrestato, seviziato e fucilato dai tedeschi per rappresaglia il 22 marzo 1945, in via Pradati a Cervignano, insieme ad altri tre partigiani; Idilio Cappelletto, di Chiarano (TV) ma residente a Monfalcone; Derno Paravano Milo di Torsa di Pocenia e al milanese Giorgio De Santi Milan”. E in queste parole si trovano anche le cause della fine di Odorico Borsatti. Sganciato anche dai nazisti, che consideravano le sue atrocità talvolta controproducenti, a guerra perduta preferì farsi arrestare dai partigiani di Udine il 28 aprile, convinto che sarebbe stato ‘salvato’ perché sapeva troppe cose e poteva esser utile ancora a qualcuno. Di certo aveva troppi lupi alla sua ricerca, troppi uomini che lo ‘cacciavano’ ora che aveva perduto i suoi protettori. Aveva troppe persone che volevano farsi giustizia.

Troppo sangue commesso, troppe ingiustizie, troppi morti. Persino oggi alla Risiera di San Sabba il suo nome viene citato tra i criminali colpevoli.

Pensava di salvarsi, invece anche i partigiani avevano bisogno di far vedere la loro vittoria e la condanna del boia di Palmanova, sebbene di neanche 24 anni, il capo della banda Borsatti, poteva esser esibita quale sintomo di potere. Di certo per la popolazione di Palmanova venne vista quale atto di giustizia e liberatorio nello stesso tempo.

Sono passati 79 anni dal quel 5 maggio 1945, quando venne giustiziato e ancora oggi per quei pochi che lo hanno studiato sorprende sapere che qualcuno - anche ai massimi livelli con l’obiettivo di ‘parificare’’ e quindi purificare’ il fascismo e fascisti – ancora oggi accusi dei crimini commessi in Italia solo i nazisti tedeschi, dimenticando il male fatto dagli italiani sugli italiani.

Ma lo diceva decenni fa Aldous Leonard Huxley: “i fatti non cessano di esistere solo perché noi li ignoriamo” o peggio – aggiungo io - vogliamo farli ignorare perché ci conviene.

* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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