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27 aprile 2024
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Donne resistenti: la brigata di Alice
di Rinaldo Battaglia *

Poco si conosce e poco se ne parla. Le donne sono state essenziali nella lotta al fascismo di casa nostra. Forse è questo che stona, che non piace ad un certo pensiero – ora in voga – perché probabilmente in netto contrasto con la figura della donna imposta solo 10/20 anni prima di quel 25 Aprile 1945.

Solo nel 1938 Ferdinando Loffredo, un affermato allora economista di provata fede fascista, nella sua ‘Politica della famiglia’, spiegava la visione della donna italiana secondo la dottrina del Duce: «La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito […] Il lavoro femminile crea nel contempo due danni: la ‘mascolinizzazione’ della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe».

Visione che aveva già trovato la sua sintesi nel decreto del 20 gennaio 1927, con cui il Duce aveva ridotto alla metà gli stipendi e i salari delle donne rispetto agli uomini. Mentre poco prima (Regio Decreto n. 2480 del 9 dicembre 1926) aveva deciso che ‘le donne saranno escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, verranno tolte loro alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, si vieterà loro di essere nominate dirigenti o presidi di istituto’. Poco dopo (decreto del 6 maggio 1927), inserendo il tutto nella Riforma Gentile, il regime fascista vietava ‘alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie. Per estirpare il male veramente alla radice, saranno raddoppiate le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare’. Estirpare il male?

Ma, anche in questo campo, il fascismo fu solo un fallimento e la ‘Resistenza delle donne italiane’ – nate, allevate e cresciute sotto il mantra del ‘dio, patria e famiglia’ - lo mise in luce anche ai ciechi. Pensate a Genova – città principe e probabilmente simbolo di questa ‘Resistenza’ – il 1° maggio 1945, appena liberata l’Italia, si svolse un imponente corteo, in cui sfilarono tutte le formazioni partigiane. E tra loro non potevano mancare le donne della brigata femminile. A dire il vero non tutti i ‘vincitori’ furono soddisfatti di quella presenza, del resto è noto che le grandi conquiste non sono sempre facili e semplici. Racconta Massimo Bisca (illustre storico e presidente provinciale dell'ANPI genovese) che, addirittura, in quell’occasione, così importante e simbolica, un dirigente delle SAP – Squadre d’azione patriottica – minacciò una partigiana della Resistenza “di stare attente a sfilare in pantaloni, perché avrebbero rischiato di sembrare delle poco di buono”. Gli fu risposto in malo modo e fu assicurato che avrebbero cucito delle gonne per il corteo”, ma fu messo bene in guardia che non le fossero mai toccate “le armi dei fascisti che loro stesse avevano conquistato in battaglia”.

A Genova le donne sfilarono, altrove fu loro impedito. Come a La Spezia. E che tutto quello che avvenne a Genova, fu ancora più significativo che altrove. Perché a Genova le donne furono determinanti e se il 25 aprile del 1945, a villa Migone, il comandante in capo delle truppe tedesche in Liguria, il generale Gunther Meinhold, si arrese per primo alla C.N.L. lo si deve anche all’apporto femminile. E’ documentato che almeno 700 partigiane ‘attive e combattenti ‘ erano liguri e almeno 60 con incarichi di direzione militare. E come non bastasse per confermare il loro sacrificio va detto che, di loro, ben 180 facevano parte della Brigata "Alice Noli": una brigata partigiana composta da solo donne, anche nei gradi di comando. L’unica in Italia. Una brigata tutta rosa, di veri eroi o, meglio, vere eroine.

“Vinceranno e regine della guerra siamo noi E il notturno dall'Italia suona già Lili Marlene (partiranno, saluteremo eserciti di eroi) Vinceranno e regine della guerra siamo noi.”

La Brigata venne così identificata con quel nome solo nell’autunno del 1944 - dopo che oramai già da un anno era operativa ed organizzata - in onore di Alice Noli, una staffetta partigiana dell’entroterra genovese (era di Campomorone). La donna (il vero nome era Felicita Noli, ma per tutti era solo ‘Alice’) fin da ragazza, a 16 anni, aveva iniziato a lavorare alla Brambilla, una ditta di pelletteria nel quartiere genovese di Pontedecimo. Ma poi con la guerra aumentò il carico di lavoro (gli uomini e i giovani erano al fronte) e toccava alle donne a sostituirli in fabbrica. Fu facile per lei capire subito la nuova realtà e aderire convinta alla causa antifascista.

Si racconta che già dopo l'8 settembre 1943, quando i tedeschi avevano disarmato ed imprigionato i nostri soldati, un giorno Alice, a braccia aperte in mezzo alla strada, avesse obbligato un camion dei nazisti a fermarsi. E senza alcuna paura malgrado i fucili puntati contro, rivolgersi al capitano e a voce alta chiedergli: "Mi prometta che non si farà del male ai nostri soldati". L'ufficiale nazista fu così sorpreso che di scatto le rispose di ‘sì, sì lo prometto’.

Un altro giorno ad un tenente fascista, a Pegli, disse apertamente cosa pensasse del Duce e del fascismo. In un’altra occasione quand’era in bicicletta, davanti al ponte della Ferriera, in un posto di blocco tenuto dai tedeschi e dalle brigate nere della "Silvio Parodi" , sentendosi investita da una loro moto, gridò ai fascisti in faccia: "Vigliacchi!". La fecero subito scendere dalla bici, la scortarono nell'ufficio e la misero in stato di accusa. Ma anche lì dichiarò apertamente la sua simpatia per i partigiani, ed ebbe il coraggio di aggiungere che le violenze che i tedeschi e le camicie nere commettevano erano inutili perché ormai essi avevano perso la guerra e c'era da vergognarsene ad agire in quella maniera.

Poi fu un coerente prosieguo. Il passaggio dal ‘fare propaganda’ per i partigiani alle azioni per raccogliere viveri, medicinali, persino armamenti fu veloce e consequenziale. Dapprima collaborando attivamente con i ‘Gruppi di difesa della donna’, la più importante organizzazione femminile di sostegno alla Resistenza. Poi, già subito dopo Natale del ’43, entrando a far parte della 3° brigata “Liguria”. Ma la sua carriera di partigiana durò poco. Fu tra le prime ad intervenire dopo il massacro della Benedicta (6-11 aprile ’44), dando la sepoltura ai 147 partigiani uccisi – di cui ben 75 dopo che si erano arresi –in particolare dai fascisti della GNR di Genova e di Alessandria e da reparti nazisti che operavano in zona.

Nei mesi successivi proseguirono i rastrellamenti fascisti in zona e anche Alice, ad agosto, venne catturata assieme ad altri sei giovani partigiani. Subito portata in caserma, gli uomini del Duce insistettero con lei con violenze e torture convinti che fosse l’anello debole e in grado pertanto di ‘rivelare’ nomi, indirizzi, notizie importanti per la cattura di altri partigiani. Ma visto che continuava a non parlare – malgrado le sofferenze – l’8 agosto venne messa su un camion per essere fucilata. Lungo il percorso, proprio a Campomorone il suo paese natale, il comandante fascista fece fermare il mezzo e Alice, con altri cinque arrestati, fu fatta scendere.

Dopo aver fucilato gli uomini, qualcuno disse "C'è anche la donna". E la uccisero senza pietà. Aveva non ancora 38 anni. Il sacrificio di Alice colpì molto l’ambiente partigiano ma anziché frenare divenne – soprattutto per le donne – uno stimolo, un esempio, la strada da percorrere. E la Brigata Alice Noli prese col nuovo nome forte vigore, operando sui monti di Genova e svolgendo una funzione di raccordo tra le fabbriche della Val Polcevera (quella del Ponte Morandi, purtroppo da anni famoso) e i vari nuclei partigiani.

E fu una ‘brigata rosa' composta da solo donne di diversa età, diversa cultura, diverso censo. Ma con un unico forte comune denominatore: l’ideale di liberare l’Italia dal regime fascista e dall’invasore nazista. Si racconta che la più ‘vecchia’ - nome di battaglia non a caso ‘Nonnina’ (Uga Baduel) – avesse 72 anni, la più giovane solo 15 anni, a cui i nazifascisti avevano deportato entrambi i genitori in Germania (Adele Rossi, che morirà in combattimento). Ognuna di loro ‘combatteva’ talvolta anche con mezzi non-convenzionali. Come Nina (Nina Bardelle) che lavorando nelle pulizie all'Ansaldo, quando doveva lavare i pavimenti buttava volutamente l'acqua sporca tra le assi del pavimento. Aveva capito che sotto, nel piano sotterraneo, vi era un deposito di munizioni ed armi dei nazifascisti. In questo modo molti armi e bossoli andavano rovinati, talvolta anche in modo definitivo.

O come la bellissima Valeria. Massimo Bisca raccontava che "aveva il compito di recuperare l'esplosivo a Diano Marina, quindi girava con una valigia piena di tritolo. Quando prendeva il treno per tornare a Genova, andava dritta negli scompartimenti riservati ai tedeschi e ai fascisti. Era talmente bella che le davano persino una mano per mettere a posto la valigia nella cappelliera, ignari che fosse piena di esplosivo. Le offrivano persino le sigarette, merce rara all'epoca. Ma non finiva qui: quando scendeva alla stazione di Sampierdarena, c'era da superare un posto di blocco, ma lei, tranquilla, chiedeva aiuto alla guardia e questo, ammaliato, le prendeva la valigia, le faceva attraversare il posto di blocco senza controllarla e le riconsegnava la valigia. Una volta al sicuro, andava in dei via dei Laghi dalla "Gigia" e, con lei, divideva le saponette di tritolo facendosi beffe dei controlli. Geniale".

Oppure Angela (la decorata con medaglia d'argento al valor militare Angela Michelini), che in pieno centro storico, a Genova: "fece saltare una bomba in un bar frequentato solo da tedeschi. Un partigiano biondo si vestì da tedesco, lei finse di essere la sua fidanzata, entrarono nel bar, piazzarono la bomba. Tornata a Cornigliano le dissero di buttare via il cappotto elegante, il tailleur e le chiesero di tingersi i capelli di biondo. Lei rispose secca: 'i capelli biondi non me li faccio o mio padre m'ammazza'. Aveva più paura del padre che dei nazisti". Oppure, "Tamara" la vice comandante della brigata (Vincenzina Musso), che il 26 luglio 1944 col marito Giovanni Porcù fece partire un corteo dal Campasso, arrivando fino alle carceri di Sampierdarena insieme ad oltre 1.000 persone, con tutte donne in prima fila. Raccontava Massimo Bisca che per tutto il giorno fecero “una confusione bestiale con l'unico scopo di far liberare i prigionieri politici”. Tamara in un’altra occasione riuscì a nascondere un carico di armi nel banco del lotto, lo fece trasportare nella rimessa dei tramvieri di Sampierdarena, attraversare tutta la vallata ed arrivare a Pontedecimo e quindi consegnare il tutto ai partigiani di Capanne di Marcarolo.

Altre donne – come Carla, Fioretto, Elsa, tutti questi i loro nomi di battaglia - "hanno garantito capillarità, diffusione, ramificazione della lotta. – riprendo sempre parole dello storico Bisca - Negli scioperi delle fabbriche, ad esempio, gli uomini incrociavano le braccia davanti alle macchine, ma erano le donne a fermare tutto, staccando le spine”. Altre operarono sfruttando il proprio ruolo o mansioni di lavoro. Come la dottoressa Albertina (Albertina Maranzana, laureata in Medicina a Genova) che aiutò molti partigiani feriti a scappare dall’ospedale “dai nazifascisti che aspettavano solo che si riprendessero per arrestarli e torturarli". Ma non solo ‘le donne dell’Alice Noli’.

Va detto che, già nel primo CNL di quartiere che nel genovese nacque a Rivarolo, oltre alla presenza dei rappresentanti dei partiti antifascisti clandestini, vi erano anche una donna e un giovane, precursori dei gruppi "Difesa della donna" e del "Fronte della gioventù". Si voleva un’Italia diversa, nuova e democratica, dove anche il mondo femminile contasse, in netto contrasto con la donna del ventennio, quella del ‘dio, patria e famiglia’.

E le donne ne pagarono il prezzo. Pensate: finché fu attivo il Tribunale Speciale (25 luglio 1943) "il 54% venne processato e condannato da quando cominciò la guerra, ovvero da quando le donne entrarono in fabbrica per sopperire alla mancanza di uomini. In più, le donne genovesi condannate furono 102 su 504, un grandissimo tributo di sangue" (da Massimo Bisca).

Questa l’importanza delle donne nella Resistenza, anche se poco si sa e poco se ne parla. Ma la Storia resta lì a ricordarcelo. Tu puoi anche non conoscere Alice, Tamara, Nonnina o Angela, puoi anche volutamente nascondere la loro ‘Resistenza’, puoi anche non onorare quelle donne e preferire – come in voga oggi – il mondo del ‘dio, patria e famiglia’ ma resta un problema tuo perché come diceva un grande storico come Aldous Leonard Huxley “i fatti non cessano di esistere solo perché noi li ignoriamo”.

"Vinceranno e regine della guerra siamo noi Partiranno, saluteremo eserciti di eroi Vinceranno e regine della guerra siamo noi".

27 aprile 2024 – 79 anni dopo

* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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