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29 marzo 2024
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La vita non è un film
di Rinaldo Battaglia *

Il 28 ottobre 1940, in onore del 18° anniversario della marcia su Roma, il Duce ordinò l'invasione della Grecia: avrebbe così dato un segnale di vita al Fuhrer sempre più forte e potente e che solo qualche settimana prima – nel contesto della preparazione dell’attacco all’URSS – aveva conquistato la Romania e con essa i suoi pozzi di petrolio, essenziali per far avanzare i propri panzer in fretta.

L’occupazione della Grecia fu per noi un totale fallimento, sin dai primi giorni. Solo un fallimento. Ma quel che è peggio - e che da noi a distanza di oltre 80 anni non si vuol conoscere e far conoscere – furono le atrocità, commesse su larga scala di misure repressive, nei confronti dei civili. La peggiore operazione, contro i civili massacrati dai soldati italiani, si identificò con la strage di Domenikon. Vicino a quel piccolo villaggio della Grecia centrale, in Tessaglia, il 16 febbraio del 1943 un attacco partigiano contro un nostro convoglio provocò la morte di 9 militi italiani delle Camicie nere.

Subito vennero catturati i primi greci che si trovarono sul luogo. Furono considerati ‘partigiani’ o loro fiancheggiatori e 43 sul posto uccisi. Ma la scuola del Duce che già aveva prodotto stragi e massacri in terra di Jugoslavia, soprattutto nel luglio 1942, non poteva fermarsi qui. Si era soci dei nazisti e talvolta anche peggiori. Il generale della 24ª Divisione fanteria "Pinerolo" Cesare Benelli – criminale di guerra per il War Crimes Commission dell’ONU del 4 marzo 1948 – non pago e soddisfatto della vendetta, ordinò la repressione dei civili del villaggio. Poco interessava che fossero estranei. Si faceva così anche in Jugoslavia, facevano così anche i nazisti.

Un intero reparto dei nostri soldati in quel 16 febbraio circondò così il villaggio, da sempre abitato da famiglie di pastori e piccoli contadini. Vi erano ora solo vecchi, donne e bambini essendo gli uomini in guerra o già uccisi e deportati nei nostri campi di concentramento in Albania (Kukes, Klos, Kavaje, German, Scutari, Vermoshi e Porto Romano/Durazzo) o di quello grande vicino di Larissa. Il campo di Larissa, sempre lì in Tessaglia, aveva una capienza di 2.000 persone e i prigionieri furono sottoposti a condizioni di vita molto dure. L’obiettivo delle nostre autorità non era lo sterminio degli internati ma le loro pessime condizioni di vita furono notate persino dai nazisti. Non ci sono dati certi diretti ma fonti greche del dopoguerra ci dicono che il numero di vittime fu alquanto elevato.

Quei pochi uomini tra i 14 e gli 80 anni, che a Domenikon si trovarono in quel giorno di febbraio vennero come bestie caricati su furgoni militari per essere trasportati proprio a Larissa, ma sulla strada la colonna italiana fu raggiunta dall'ordine del comandante della Divisione Pinerolo di fucilarli sul posto. Immediatamente. Nel cuore della notte, nei pressi del villaggio di Damasi si procedette così alla fucilazione di 97 uomini. Furono risparmiati solo il Capo villaggio (insediato dagli stessi italiani nei primi mesi dell'occupazione), un suo fratello e un suo cugino, collaboratori degli italiani, che avevano promesso di segnalare i nominativi dei dirigenti delle bande partigiane.

Nel frattempo a Domenikon si procedette con la distruzione a tappeto del villaggio uccidendo soprattutto le donne, davanti agli occhi terrorizzati dei loro bambini. Erano ancora uomini della 24ª Divisione di fanteria “Pinerolo” e delle camicie nere “L’Aquila”, composti in parte da quelli che apparvero agli occhi dei contadini terrorizzati come “soldati ragazzini”. Le povere case furono rapinate di quel poco che avevano e incendiate. Non vi sono numeri precisi ma si parla – esclusi i primi 43 forse coinvolti nell’attacco partigiano – forse complessivamente di altre 200 vittime. Ma non finì a Domenikon. Il 12 marzo a Tsaritsani, non lontano da Domenikon, gli italiani fucilarono in piazza più di 40 civili, per lo più anziani, che non avevano fatto in tempo a fuggire sulle montagne, e diedero fuoco a più di metà delle abitazioni, senza risparmiare neanche gli edifici pubblici. La storica Lidia Santarelli parla di almeno 60 vittime innocenti.

La mattanza fascista proseguirà entro fine primavera con massacri a Farsalo e Oxinià. Solo il 6 giugno 1943, a Domokòs (sempre in Tessaglia) vennero uccisi a sangue freddo altri 106 ostaggi reclusi già nel campo fascista di Larissa, fucilandoli dopo averli legati, a due a due, con le manette, quale rappresaglia contro una precedente azione partigiana. Erano gli ordini del generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane di occupazione, basati sul principio della responsabilità collettiva, secondo cui "per annientare il movimento partigiano andavano annientate le comunità locali".

La Grecia divenne “terra bruciata”. Si incendiavano interi villaggi e le loro risorse alimentari per non farle cadere in mano ai partigiani. Già nel 1941, la penuria alimentare colpì soprattutto le grandi città, Atene e Salonicco, meno le zone agricole, come proprio la Tessaglia, dove la fame si fece meno sentire. Furono colpite con violenza invece molte isole egee, dove vi furono tassi di mortalità simili a quelli di Atene e questo per il fatto che i nostri generali bloccarono gli scambi tra queste isole e il continente. Questa scelta, unita alla crisi della navigazione dei cui proventi molti abitanti vivevano, fu fatale.

I greci risposero alla carestia attuando vere ‘strategie di sopravvivenza’ ricorrendo al mercato nero sia di grosse dimensioni – commercianti che importavano grossi quantitativi di alimenti dalle campagne e li vendevano negli epicentri della crisi – sia di piccolo cabotaggio – ad esempio viaggi nelle campagne organizzati da gruppi di persone per procurarsi alimenti. Recarsi ogni giorno in campagna o in regioni lontane per procurarsi beni scarsi divenne una pratica comune. Dalle isole egee un grosso numero di persone cercò di raggiungere con imbarcazioni di fortuna le coste della Turchia – allora non in guerra - un altro dei tanti esodi che colpirono le popolazioni civili durante e nell’immediato dopo guerra.

I principali effetti della crisi alimentare furono anche politici. Il potere dello stato greco ne risultò indebolito enormemente per diversi motivi. Prima di tutto gli stessi impiegati dello stato, i rappresentanti del potere centrale a livello locale persero potere d’acquisto a causa dell’inflazione e soffrirono della crisi alimentare. Questo aprì le porte a corruzione e inefficienza nella macchina amministrativa greca. Soprattutto la gendarmeria, i cui membri vivevano spesso ai margini della sopravvivenza, si rivelò un mezzo di controllo inefficiente. Si diffuse inoltre il brigantaggio in molte aree montuose e nelle città vi fu un generale aumento della criminalità e delle ‘delazioni’ a favore degli occupanti italiani o tedeschi, nella loro rispettive zone da competenza.

La crisi alimentare portò, poi, a un deficit di legittimità simbolica delle istituzioni col conseguente collasso generale che rese molto difficile governare il paese.

Dall’estate del 1942 le situazione precipitò col almeno 300.000 persone in Grecia colpite dalla carestia e dalla sottoalimentazione e se non si arrivò ad una catastrofe umanitaria lo si deve solo ad una serie di accordi che la Croce Rossa Internazionale riuscì ad ottenere, tra gli alleati e gli invasori italiani e tedeschi. In pochi mesi sul finire del ’42 furono trasportate ogni mese in Grecia 15.000 tonnellate di grano canadese. Quest’operazione stabilizzò la situazione alimentare nelle grandi città, ma raggiunse le aree periferiche solo con molto ritardo.

Nella ‘Conferenza per le riparazioni di guerra’ tenuta a Parigi il 10 febbraio 1947 in cui si definirono, tra l’altro, i confini tra Italia ed Jugoslavia sulla Linea Morgan - e la cui data, dal 2004, verrà usata quale ‘Giornata del Ricordo’ per non dimenticare, da noi, quasi esclusivamente (se non solo esclusivamente) le nostre vittime massacrate nelle foibe dagli uomini di Tito – la Grecia ci presentò un conto molto chiaro e sufficientemente completo, sebbene non esaustivo. Il tutto, per quanto ovvio, condiviso con gli Alleati.

In sintesi, questi furono il risultato della nostra occupazione della Grecia:
– 200 villaggi distrutti dagli incendi;
– una violenza inaudita contro le donne (stupri e sevizie);
– le barbare torture inflitte;
– le fucilazioni individuali e collettive;
– le rappresaglie contro gli ostaggi (specie se membri dei sindacati, se partigiani dell’EAM o dell’ELAS, ossia la Resistenza greca).
- 13.325 morti, 42.485 feriti, 4.250 dispersi e 1.531 prigionieri tra i greci.

A conclusione dei lavori all’Italia fu imposto di pagare come risarcimento di quanto provocato durante la guerra, complessivamente, 360 milioni di dollari Usa. Quasi un terzo (105 milioni) erano verso la Grecia. Era il 10 febbraio 1947.

45 anni dopo, il 30 marzo 1992, a Los Angeles nella 64ª edizione della cerimonia di premiazione degli Oscar, quale miglior film straniero venne premiato ‘Mediterraneo’ la grande opera di Gabriele Salvatores, che in Italia pochi non hanno mai avuto il piacere, almeno una volta, di guardare. Rappresentava però una realtà diversa, non sempre corrispondente – se non in piccole vicende – alla drammaticità della nostra guerra di Grecia, un fallimento sotto ogni aspetto, militare, umano e morale.

Ma conviene pensare ai nostri Lo Russo, Montini e Farina piuttosto che ai gen. Geloso e Benelli. È facile e comodo, sebbene meno istruttivo e reale. La solita differenza tra storia e film, tra palco e realtà.

E anche questo è fascismo, come ben diceva a suo tempo una vittima di quel regime criminale e falsificatore della Storia, quale Primio Levi:

"Ogni tempo ha il suo fascismo. A questo si arriva in molti modi. Negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola e diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine."

30 marzo 2024 – 32 anni dopo

* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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