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03 marzo 2024
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Un film sulla banalità del male
di Roberto Rizzardi

Ieri, alla conclusione di un piovoso sabato, sono andato a vedere "La zona d'interesse", il film diretto da Jonathan Glazer che ci rappresenta un aspetto del fenomeno concentrazionario nazista, che massacrò milioni di ebrei, ed altri di cui si tende a scordarci, sul quale non ci si è mai soffermati abbastanza, a dispetto di opere come "La banalità del male" della Arendt.

Il film parla del gerarca nazista Rudolf Höß, un umile figlio di commercianti miracolato dall'adesione al partito nazionalsocialista, comandante e progettista esecutivo del campo di concentramento di Auschwitz, nonché prolifico organizzatore delle "efficienti" pratiche di sterminio che vi vennero affinate, della sua molto piccolo borghese moglie Hedwig, dei loro cinque figli e di altri personaggi, tra cui alcune servette ebree temporaneamente affrancate dal loro destino di morte per servire in casa.

La famiglia Höß trascorre la propria apparentemente banale quotidianità all'interno della cosiddetta area di interesse (Interessengebiet) di circa 40 km² attorno al campo, volutamente ciechi all'orrore, tranne le serve ovviamente, consce della provvisorietà delle loro vite, che si sta consumando al di là del muro che divide la loro linda ed ordinata casa dall'attiguo campo di concentramento.

La cifra stilistica del film, ad onta della britannicità del regista, mi ha ricordato molto alcuni prodotti della cinematografia sovietica, con una perseguita assenza di espliciti picchi drammatici. La brutalità del campo non viene mai direttamente rappresentata. Sappiamo che esiste perché l’onnipresente muro di cemento, coronato da filo spinato, è una componente ricorrente delle riprese in esterno; cosa quel manufatto comporti emerge solo dal commento sonoro.

La famiglia Höß vive la sua piccolo borghese esistenza. La brava e compiaciuta massaia Hedwig conduce la casa, distribuisce tra le serve i capi d’abbigliamento sottratti alle detenute, si contempla allo specchio mentre indossa una pelliccia di visone dalla stessa provenienza e discute con le amiche e la madre dei beni sottratti a famiglie ebree risucchiate nel tritacarne nazista, mentre si immagina un florido ed appagante futuro da colona tedesca nel “lebensraum” postbellico est-europeo ipotizzato dal regime.

Il capofamiglia Rudolf si applica con diligenza al “lavoro”, è un padre presente ed affettuoso, un marito complice, che non disdegna di intrattenersi anche con altre donne, forse avvenenti detenute provvisoriamente avviate al meretricio coatto prima della mattanza che le attende.

I figli sono piccoli discoli, innocenti solo per via della loro età. Forse l’unica che ha un sussulto di consapevolezza è la madre di Hedwig, in visita dalla Germania, che pure ostentando il proprio antisemitismo ad un certo punto abbandona di gran fretta la casa, dopo una notte insonne durante la quale i bagliori ed i suoni provenienti dal mondo celato da quel muro non le consentono più di “non sapere”.

L’apparente normalità di casa Höß è infatti un simulacro tenuto in piedi solo dalla tenace indifferenza verso i suoni che sfuggono dal campo: urla irate dei guardiani, latrare di cani furiosi, grida di gente disperata, scossa dall’apatia autoconservativa di chi ottunde la propria consapevolezza dal solidificarsi del proprio destino di morte, colpi di armi da fuoco e quelle costanti colonne di fumo e chiarori rossastri di sinistri falò. Appena fuori di quella tranquilla esistenza borghese, si svolge un dramma assoluto e lucidamente perseguito, per quanto ostinatamente non considerato.

I pochi fatti che si svolgono fuori dell’ambito familiare sono ancora più perversamente “normali”. Rudolf discute con alcuni appaltatori la costruzione di un forno crematorio “a ciclo continuo” più efficiente e in grado di eliminare i tempi morti, oppure partecipa a riunioni nelle quali, con i suoi altrettanto tecnocratici colleghi delle SS, discute dei “pezzi” (ebrei) “trattati” (soppressi), dei costi e dei tempi di un ciclo di lavorazione, di morte, teutonicamente definito e organizzato.

Personalmente, in quanto anziano che ha vissuto un dopoguerra di controverse rivelazioni, osteggiate da un negazionismo ipocrita e interessato, il film non mi ha detto nulla che già non sapessi, e forse per questo l’impatto emotivo è stato in me assai contenuto, ma non per questo ho trovato il film meno efficace.

Direi anzi che, a distanza sempre crescente dai tempi che videro lo svolgersi dei fatti, è necessario e conveniente che vi siano opere che mantengano vivo un concetto che rischia di perdersi in una polverosa scansia dello scaffale della storia, come se qualcosa di simile non si svolgesse tuttora da qualche parte.

La sala era piena. Non c’era una sola poltrona vuota, per quanto infelice potesse essere la sua dislocazione nella sala, e altrettanto avverrà per la replica di oggi pomeriggio, come ho potuto constatare dal sistema di prenotazione.

La cosa che ho notato è che tra il pubblico non vi erano solo miei coetanei, avviati al tramonto di un’esistenza ormai abbastanza lunga, ma anche giovani. Non giovanissimi, direi dai venticinque anni in su, e la cosa mi ha in parte confortato, anche se mi chiedo se la sommessa narrazione non abbia bisogno degli espliciti tratti di un film come "Kapò", dell'acquisizione diretta e senza veli di ciò che si faceva in quei campi, per raggiungere gli scopi dell'opera.


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