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18 dicembre 2023
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Saturno contro
di Rinaldo Battaglia *

“Saturno contro”. Con questa definizione, resa peraltro famosa nel 2007 dal film di Ferzan Özpetek, si intende il momento più in basso, toccato da un uomo in una situazione, talmente basso che per reazione astrologica, quasi obbligata, nasce una nuova fase, si evolve in qualcosa di diverso, si abbandonano le paure e si è costretti per cause di forze maggiori a cambiare totalmente. Volenti o nolenti.

Sul Don, durante la campagna di Russia, i nostri soldati non conoscevano il senso della parola ‘Saturno’ ma ne subirono le conseguenze, soprattutto dal 19 dicembre 1942. E saranno conseguenze terrificanti, di cui vergognosamente in Italia abbiamo perso la dimensione e la memoria nelle esatte proporzioni.

Quest’anno – nel 2023 - ricadevano gli 80 anni della sanguinosa battaglia di Nikolaevka, quando il 26 gennaio ’43 quel che rimaneva della "Tridentina" riuscì a rompere l'accerchiamento e a guadagnare la via verso Šebekino oppure della ritirata finale del 31 gennaio 1943, quando una piccola parte dei nostri alpini raggiunsero il presidio di Triskoje, arrivando così alla salvezza. Una piccola parte perché quel che restava dei nostri uomini delle divisioni "Cuneense", "Vicenza" e i pochi sopravvissuti della "Julia", rimasero per sempre intrappolati dall’Armata Rossa e costretti alla resa il 28 gennaio a Valujki.

Si racconta che tra dicembre 1942 e quel 31 gennaio ’43 morirono combattendo o di fame e freddo almeno 25.000 soldati italiani e oltre 70.000 vennero fatti prigionieri. Di questi ultimi ne torneranno a casa – qualcuno anche solo nel novembre 1954 – solo 10.030. Quando erano partiti, spediti al Duce come carne da macello nella campagna di Russia nella famosa ‘Barbarossa’ di Hitler, tra l’agosto ‘41 (come CSIR) e l’aprile del ’42 (ora battezzato ARMIR), risultavano poco meno di 230.000 (229.005 precisano gli storici). Servirono 200 tradotte per portarli sul Don, tra l’attuale Ucraina e la Russia. Nel ritorno ne furono sufficienti solo 17.

Gli storici hanno quantificato i nostri morti (e dispersi) in 89.799, ai quali vanno aggiunti 35.133 tra feriti gravi e congelati, la cui vita sarà segnata per sempre. Un’armata scomparsa, una generazione perduta. Quest’anno ricadeva l’80° anniversario, ma non ho personalmente visto molto attenzione a quella tragedia ed un‘analisi seria ed onesta delle sue cause.

Eppure qualche sopravvissuto, come il capitano Gabriele Gherardini (nelle sue memoria, “Morire giorno per giorno. Gli italiani nei campi di prigionieri dell’URSS”, Mursia 1966) vent’anni dopo scriveva: “Nessuno dimenticherà, nessuno potrà dimenticare: né oggi né mai”. Si sbagliava. Lo abbiamo tradito perché nei fatti in Italia abbiamo già dimenticato il peso di quelle immani sofferenze e di quell’infame crimine che l’Uomo della Provvidenza commise, senza che nessuno del suo ‘cerchio magico’ lo bloccasse.

Abbiamo dimenticato la campagna di Russia perché…perchè “è toccata ad altri”. E’ brutto dirlo, ma è così. A Mussolini di certo no, e nemmeno ai figli della lupa che ancora oggi lo osannano, pagano necrologi sul giornale, festeggiano la marcia su Roma con cene nostalgiche a Salò, dedicano vie o porti ai vertici del regime, si vantano di baciare il suo busto alla sera prima di coricarsi sebbene siano arrivati alla Seconda carica dello Stato.

Mi piacerebbe personalmente conoscere quanti nelle loro rispettive famiglie, a quel tempo, erano stati impiegati sul Don, perché a quanto - nel mio piccolo – a me risulta è toccato a nessuno di loro. Almeno dei principali ‘nostalgici’, almeno da quanto ho potuto sapere.

E dev’essere stato proprio così perché altrimenti, avendo quei soldati toccato il fondo avrebbero – se sopravvissuti - poi cambiato totalmente la loro vita ed il loro modo di pensare ed agire. Come sottintende il termine ‘Saturno contro’. Perché fu proprio in quel 19 dicembre 1942 che arrivò Saturno per i nostri soldati in Russia.

A dire il vero l’Armata Rossa aveva scatenato già il mese prima - il 19 novembre - un’offensiva nella zona di Stalingrado, che in pochi giorni darà un colpo mortale agli uomini del generale Friedrich von Paulus. La città natale di Stalin fu circondata e ben 250.000 i tedeschi della 6ª Armata, oltre ai 13.000 delle 3ª e 4ª Armate Rumeni e ad un centinaio anche di italiani – stabilmente al servizio dei nazisti – furono, come topi, lì intrappolati. Stalin intitolò quest’operazione col nome di ‘Urano’, il pianeta che sebbene lontano dal sole per diametro risultava il terzo. Forse come a dire: non conta se si è lontani da Mosca, è importante la struttura che possiedi. E sappiamo come andò a finire. Poi toccava agli italiani. Stalin e soprattutto il suo generale Aleksandr Vasilevskij decisero il 2 dicembre, che entro due/massimo tre settimane sarebbe iniziata un’offensiva ancora maggiore, da attivare in due tempi e con due direzioni: la prima contro la nostra ARMIR con obiettivo finale di arrivare a Rostov e la seconda contro i tedeschi posizionati ancora sul Don (il Gruppo d'armate Don che tentava di soccorrere la 6ª Armata accerchiata a Stalingrado) e nel Caucaso (il Gruppo d'armate A), comandati dal generale Kurt von Tippelskirch.

L’operazione venne chiamata ‘Saturno’, il pianeta più vicino di Urano al Sole e soprattutto più grande (il secondo dopo Giove). Il nome assegnato descriveva il peso di cosa sarebbe arrivato addosso agli italiani. I piani però di Mosca subirono degli imprevisti, perchè il 12 dicembre 1942 Hitler ordinò una controffensiva tedesca, per aiutare le truppe in trappola a Stalingrado. Questo cambiò le carte sul tavolo e la maestosa operazione Saturno venne ridotta sulle forze sovietiche in campo, utilizzando solo quelle allora pronte, ma anticipata. Non a caso Mosca chiamerà dopo quest’azione come ‘la piccola Saturno’. Ma per i nostri soldati, il dramma non si ridusse e non fu ridimensionato.

I nostri comandi reagirono, in supporto anche alla controffensiva del generale Kurt von Tippelskirch. E fu qui che emersero anche ai ciechi, ancora una volta, i limiti strategici e tecnici della nostra campagna di Russia. Fin dall’inizio, ma soprattutto da aprile (8 mesi prima) col potenziamento e ristrutturazione dell’ARMIR, le nostre divisioni dovevano attaccare in un fronte di 270 chilometri. “C’è un soldato ogni sette metri!” dirà qualcuno.

Una densità inesistente contro le forze sovietiche che, dopo 18 mesi dall’invasione del 22 giugno non risultavano più impreparate e incredule. E poi ora potevano contare sui moderni T34, di 28 tonnellate ciascuno di peso, contro cui non avevamo armi anticarro e i nostri carri armati ”L6/40” (solo una trentina) erano soltanto “scatolette” per il tonno, da soltanto tre tonnellate, più leggeri e deboli di un camion.

Per non parlare del resto: le comunicazioni risultavano inadeguate a coordinare un fronte ampio, le radio antiquate, gli autoveicoli scarsi, vecchi e logori, con difficoltà di procurarsi il carburante, che era già un problema per i nazisti, figuriamoci per noi. A dire il vero, all’inizio della campagna nelle retrovie le scorte di armamenti, vestiari e alimenti non mancavano ma il difficile restavano le consegne e gli approvvigionamenti su un fronte così ampio.

Per non parlare del vestiario. Le divise erano di finta lana ‘autarchica’, i soldati per salvarsi dal gelo invernale – almeno chi poteva – si faceva mandare indumenti spediti da casa. Peggio le scarpe: le medesime del Nord-Africa inadeguate rispetto all’inverno russo coi scarponi chiodati che favorivano la formazione del ghiaccio. Il motto era uno solo: arrangiarsi. Ma poteva durare?

Poi arrivò, contro, anche la ‘Saturno’. Perché l’offensiva nazista del 12 dicembre fu bloccata dalla 2ª Armata sovietica verso Kotel'nikovo e così la 1ª Armata delle guardie del Fronte Sud-Occidentale e la 6ª Armata del Fronte di Voronež (che nel piano iniziale erano già a noi destinate) fu libera di attaccare l'ARMIR e il distaccamento Hollidt della 3ª Armata rumena già dal giorno 16 dicembre. Per tre giorni le truppe sovietiche vennero sistematicamente respinte dai nostri - a costo di gravi perdite - mostrando una determinazione e un coraggio senza eguali. Come italiani c’è ancora oggi da esserne orgogliosi.

Ma tutto precipitò il 19 dicembre. L’Armata Rossa raggiunse Kantemirovka, uno dei centri logistici dell'8ª Armata del gen. Italo Gariboldi, interrompendo il collegamento ferroviario tra Millerovo e Rossoš', tramite cui ci si poteva rifornire. Poi arrivò a Dëgtevo e ciò significava che le nostre quattro divisioni (e una tedesca) erano accerchiate, come i nazisti a Stalingrado. Nella stessa giornata del 19 arrivò dal nostro comando l’ordine l'ordine di tentare di difendersi sulla zona del Tichaja o sul Čir e – qualora non possibile, come a tutti risultava evidente, ma difficile da ammetterlo sia dal quartier generale del generale Gariboldi sia dagli ufficiali dello stato maggiore – di cercare di uscire dalla sacca e raggiungere il prima possibile le linee tedesche.

Facile da dire ma quasi impossibile da realizzare per tutti. Non esisteva infatti piano già predisposto per la ritirata: ognuno cercò di fare il meglio che poteva, in modo di conseguenza disorganizzato, usando il buon senso, perché altro non rimaneva. Si abbandonarono nella neve le artiglierie e gli uomini furono costretti a proseguire a piedi, a 30 anche 40 gradi sottozero, in lunghe colonne difendendosi dai continui attacchi delle unità sovietiche e partigiane che dal giugno 1941 aspettavano un momento del genere.

Mancarono ordini e piani precisi e talvolta gli ordini furono sbagliati o non aggiornati alla nuova realtà. Basti pensare che a quel che restava della divisione "Sforzesca", il giorno 20 dicembre, quand’era già in ritirata, fu obbligata a fare marcia indietro per rioccupare le posizioni sul Čir abbandonate il giorno precedente. Poi per noi fu solo un’agonia. Ma fu proprio allora che – come richiede la parola ‘saturno contro’ - qualcosa scattò e totalmente cambiò nell’anima di quegli italiani che dalla Russia riuscirono a tornare.

Fu evidente che il fascismo aveva fallito e che solo un regime criminale – e non solo per i 1.283 fascisti così giudicati dalla War Crimes Commission dell'ONU – poteva aver voluto una guerra come la campagna d’invasione in Russia, che si trasformò, in pochi mesi, in un cimitero per i nostri uomini.

Qualcosa cambiò e molti di quei reduci poi divennero partigiani, dopo l’8 settembre ’43, senza se e senza ma. La mia terra vicentina ha molte croci che portano il nome di quei militari, prima, in Russia e, poi, partigiani nella Resistenza. E chi fu arrestato, e deportato nei lager nazisti, preferì i reticolati come IMI piuttosto che ritornare sotto il Duce. Credo che la figura di Mario Rigoni Stern sia più che rappresentativa.

L’operazione nemica ‘Saturno’ ci fece toccare il fondo e mostrare il vero volto di Mussolini e del fascismo, poi si reagì e sappiamo come è andata finire. Anche se non giova a molti, oggi, ricordarlo. E dispiace, per davvero, riconoscere di come quel povero capitano Gabriele Gherardini si sbagliasse in quel suo: “Nessuno dimenticherà, nessuno potrà dimenticare: né oggi né mai”.

Un giorno, tempo fa, ho avuto una discussione ‘storica’ con degli amici che difendevano certi discorsi di qualche politico ‘nostalgico’. Ne abbiamo molti anche oggi; troppi per me. Ma lì, in quell’occasione, ho capito come si possono mettere in crisi certi retaggi, che per la Storia odorano solo di fallimento, politico, umano, etico. Basta solo domandare loro se hanno avuto in famiglia, nel ’41 o ’42, qualche giovane spedito in Russia. Solamente nel vicentino di soli morti e/o dispersi ne abbiamo avuto 2.523. A Cornedo dove abito 29, a Lonigo dove sono nato altri 61. Senza contare chi è tornato vivo, almeno esternamente, almeno col corpo.

Questa è stata la campagna di Russia, anche se da noi oggi è stata dimenticata. Perché non giova a molti parlarne. Elettoralmente non conviene, non porta voti. E parafrasando Liliana Segre sulla Shoah, ”oggi in Italia ci sono solo 4 righe sui libri di storia, fra qualche anno neanche più quelle”.

E allora – se sono convinto - arriverà ancora il momento che avremo ‘saturno contro’.

19 dicembre 2023 – 81 anni dopo

* Coordinatore Commissione Storia e memoria dell'Osservatorio


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