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25 maggio 2023
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Memoria: una mamma di nome 6075
di Rinaldo Battaglia *

Un giorno ad Angela (Angela Orosz-Richt), quando aveva sette anni, a scuola le venne chiesto di scrivere il suo nome e il luogo di nascita. Fu solo allora che ebbe, per la prima volta, la consapevolezza di essere nata proprio lì, ad Auchwitz, in quel luogo dell’orrore. “Non è stato facile accettarlo”, ma mia madre mi ha sempre detto che “no, non lo avrebbe mai cambiato, questo è ciò che si deve sapere’”.

Angela, che oggi risiede a Montreal, in Canada, aveva già testimoniato nel giugno del 2015, al processo contro Oskar Gröning, un contabile di Auschwitz, sergente delle SS naziste accusato di complicità nell’assassinio di 300 mila ebrei in quel campo di morte.

“Io non posso perdonarvi, Herr Gröning!” – disse quel giorno con la voce rotta dalla commozione. “Quando ho sentito parlare di questo processo dal mio avvocato e amico Heinrich Rothmann, ho deciso di visitare Auschwitz per la prima volta dopo 70 anni. Non mi sentivo ancora pronta a testimoniare. Vi ringrazio per avermi dato l’occasione di parlarvi della sofferenza della mia famiglia e della sorte di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi imprigionati ad Auschwitz, di cui più del 90% sono stati assassinati”.

Quella visita ha fatto così scattare dentro di lei l’estremo bisogno di quella che è diventata una vera e propria missione: di dover parlare in nome di chi oggi non può farlo, per puntare il dito contro i responsabili di quella atroce disumanità da cui lei è nata, contro chi in qualche modo ha contribuito a quel terrore, proprio come Herr Gröning.

È una missione di cui si sente investita e che ha voluto trasmettere anche ai suoi figli perché oggi avverte la netta sensazione che l’Europa oggi sia tornata ad essere un luogo pericoloso per un Ebreo. Per questo c’è ancora bisogno di ricordare alla gente di ciò che è accaduto durante la Shoah: tutti coloro che sono sopravvissuti avranno per sempre nel corpo e nell’anima le cicatrici fisiche e psicologiche di quell’orrore.

La sua storia ha inizio con quella di sua madre, una donna molto colta di Budapest proveniente da una famiglia benestante. Il padre era un architetto molto noto nella capitale ungherese, la madre parlava perfettamente quattro lingue. Dopo aver terminato il liceo non poteva andare al college perché agli ebrei era vietato accedere all’Università. Conobbe suo marito nel 1943 e fino all’anno successivo, quando i nazisti invasero l’Ungheria, ebbero una vita felice. Il giorno dopo Pasqua, nel mese di aprile, sentirono bussare alla porta. Era la milizia locale ungherese, che costrinse i suoi genitori a lasciare la loro casa e a salire su un treno adibito solitamente per il trasporto del bestiame, che li portò al ghetto di Satoraljaujhely, dove vissero di stenti per un mese.

Poi da lì un altro viaggio, questa volta verso l’inferno di Auschwitz, dove arrivarono il 25 maggio. 80 anni fa come oggi. “È stata un’esperienza a dir poco traumatica – racconta Angela. “Mia madre, con me nel grembo, fu picchiata. Le SS avevano fruste e mitragliatrici e gridarono – ‘Tutti fuori, lasciare i bagagli sul treno!’ Altre guardie delle SS, colleghi di Gröning erano nelle torri di guardia e puntavano mitra e faretti contro di noi. Fino al suo ultimo giorno mia madre ha sempre avuto il terrore dei cani che abbaiavano, retaggio di quei terribili giorni trascorsi in quel lager”.

“Forse vi ricordate di lei signor Gröning” – si rivolse così Angela alla guardia nel corso del processo. Era bella, bruna, aveva gli occhi grigio-verdi.

Appena arrivati ad Auschwitz gli internati venivano suddivisi in due gruppi dal dottor Mengele, il famigerato “angelo della morte”. Da una parte le donne incinte, i bambini, gli anziani e le persone più fragili, dall’altra tutti coloro che potevano essere sottoposti ai lavori forzati. Dicevano ai primi: “Toglietevi i vestiti; andrete a farvi una doccia.” In realtà questi ebrei furono gasati e prima di essere ammassati nelle camere a gas venivano depredati di tutti i loro averi.

Ai genitori di Angela fu risparmiata quella fine atroce: quando fu il turno della madre, il dottor Mengele la ritenne comunque sana e in grado di sostenere i lavori forzati. Fu comunque separata dal padre, che non sopravvisse alle condizioni disumane del campo e morì di sfinimento, costretto a lavorare fino all’ultimo respiro. La madre fu completamente rasata e costretta a farsi un tatuaggio, che era un po’ il simbolo della sua disumanizzazione: da quel momento non era più Vera ma un numero, il 6075.

Inizialmente le assegnarono il turno di notte nel magazzino che conteneva gli oggetti personali delle vittime. Il suo compito era quello di ordinare quelli di valore e separarli dagli altri. In seguito fu costretta a lavori pesanti all’aperto come la costruzione di strade e di ponti, poi fu trasferita in cucina. Questo le ha permesso di rubare spesso bucce di patate che probabilmente sono state la salvezza della figlia che aveva in grembo. Quello che le davano da mangiare infatti non era sufficiente per poter sostenere una gravidanza: un caffè la mattina, una zuppa di erbe a pranzo e una fetta di pane per cena.

A un certo punto, sopraffatta dal durissimo lavoro fisico, finì per confessare che era incinta. Secondo le regole di Auschwitz questo avrebbe comportato che sarebbe finita immediatamente nella camera a gas. Invece fu mandata in una caserma del Campo C, dove avrebbe dovuto prendersi cura di alcuni bambini, in particolare dei gemelli che sono stati utilizzati per degli esperimenti medico-scientifici da Mengele e da suoi colleghi. In seguito divenne lei stessa oggetto di sperimentazione per provare la sterilizzazione in laboratorio quando era già incinta di sette mesi: le furono somministrate delle sostanze chimiche tramite dolorosissime iniezioni.

All’ottavo mese una dottoressa ungherese che lavorava in quella équipe le suggerì di ricorrere a un aborto. Le disse: “Quando si va a partorire non sappiamo quale possa essere la reazione di Mengele. Se lui è di buon umore, morirà solo il bambino, ma se è di cattivo umore si finisce direttamente nella camera a gas. Sei così giovane, solo così potresti salvarti la vita”. Vera rispose che ci avrebbe pensato e che le avrebbe dato una risposta il giorno dopo. Quella notte le apparve in sogno sua madre che la supplicò di non ascoltare quel consiglio: “Vera, il feto è già un bambino, sta per uscire. Non abortire, confida in Dio”. La mattina dopo diede il suo responso alla dottoressa: era un no categorico, senza appello.

Il giorno in cui Angela venne alla luce (presumibilmente il 22 dicembre) la madre fu aiutata dalla responsabile del suo campo: suo padre era medico e sapeva come agire in situazioni del genere. “Pesavo solo un chilo ed ero così malnutrita che non ero in grado di piangere – racconta. Questa è stata la mia salvezza”. “Tre ore dopo la nascita – prosegue – mia madre ha dovuto lasciarmi da sola nella cuccetta per andare a rispondere all’appello nominale, dimostrando un coraggio e una forza davvero fuori del comune. Era pieno inverno e, vestita solo di stracci, ha dovuto resistere a lungo al freddo glaciale prima della chiamata. Per tutto il tempo pregava di riuscire a ritrovarmi viva al rientro in caserma”.

Resistettero lì ancora un altro mese, fino al 27 gennaio 1945, quando Auschwitz fu liberata. Proprio quel giorno nacque un altro bambino, si chiamava Gyorgy Faludi. Lei e Gyorgy furono i soli bambini sopravvissuti tra i nati in quel campo di concentramento. Dopo la liberazione sua madre cercò disperatamente a Budapest una cura che potesse salvare la figlia. Poco prima di compiere un anno Angela pesava appena tre kg e secondo i medici non aveva alcuna speranza di sopravvivere.

“Mia madre era l’unica ad avere la convinzione che avrei potuto salvarmi. La gente la prendeva per matta: molti credevano che avesse perso il cervello ad Auschwitz e che io fossi nient’altro che una bambola, perché non ero capace di muovermi. In effetti avevo le sembianze di una bambola di pezza, anche se mia madre mi diceva sempre che ero come un uccello senza piume.

Alla fine riuscì a trovare un medico che le diede almeno un briciolo di speranza e che si prese cura di me. Lo fece per molti anni, almeno fino a quando le mie ossa non divennero abbastanza forti da permettermi di camminare. Il miracolo si era avverato. Certo porto ancora i segni dell’eredità di Auschwitz e di tutto quello che ha rappresentato, soprattutto per la fame che ha dovuto patire mia madre: sono ancora piccola oggi.”

Angela poi racconta del suo ritorno ad Auschwitz nel gennaio 2015. Si è sentita come in trance, aveva difficoltà di respirazione. “Temevo che ogni passo che facevo fosse sulla tomba di qualcuno. Settant’anni non rimuovono nulla. Niente può cancellare la disumanità e l’incubo di quanto stava accadendo lì”.

“Come faccio a perdonare?” ha detto, quasi supplicando, nel rivolgersi a Herr Gröning nella deposizione al processo. “Come posso dimenticare? Molto tempo dopo la guerra, mia madre sembrava aver messo gli orrori di Auschwitz in fondo sua mente. Ha vissuto come una persona felice e amorevole, ma quando si vide morire di cancro all’età di 71 anni, a Toronto, gli incubi sono tornati. Vide Mengele in piedi davanti alla porta della sua stanza d’ospedale. Nemmeno una forte dose di morfina poteva farlo sparire”.

La madre di Angela morì il 28 gennaio perché il 27 gennaio era l’anniversario della liberazione di Auschwitz e disse che era certa che per nessuna ragione al mondo poteva morire proprio quel giorno. “Per questo e per tutti quelli che hai ucciso o hai contribuito a uccidere, non posso perdonarti, Herr Gröning” – ha proseguito.

“Il passato è presente e questo rende impossibile per me dimenticare o perdonare i responsabili di Auschwitz, i numerosi campi di concentramento in Europa e l’assassinio di sei milioni di ebrei. Sei milioni di persone innocenti uccise solo perché erano ebrei.” Nel recente processo contro Reinhold Hanning, una ex-guardia nazista ad Auschwitz ove testimoniò, chiuse la sua deposizione ancora con quelle parole: “Ero così malnutrita in quel lager che non riuscivo nemmeno a piangere”.

25 maggio 2023 – da ‘Non ho visto farfalle a Terezìn’ - ed. AliRibelli 2021 e liberamente tratto da parole e scritti di Sebastiano Catte, autore e storico, molto attivo sul tema ‘Shoah’ e sui diritti degli ‘altri’

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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