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02 marzo 2023
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Memoria: la Trieste scomoda
di Rinaldo Battaglia*

Il 2 marzo 1921 a Trieste i fascisti guidati da Francesco Giunta – uno dei peggiori e violenti – devastarono le sedi di Edinost (Unità), il giornale della minoranza slovena fondato nel 1876 e allora con una tiratura anche di 12.000 copie al giorno.

Non soddisfatti, gli squadristi triestini decisero di per andare a “punire” la vicina Mùggia, allora bene difesa dalla polizia e da antifascisti organizzati in pattuglie. Non potendo far nulla subito, si recarono così a Pirano, sequestrarono un battello e la raggiunsero ugualmente dal mare. Il loro obiettivo era la distruzione della Camera del Lavoro: missione compiuta.

Non solo: i fascisti, organizzati in un proprio partito armato, ben finanziato e spalleggiato da importanti imprenditori e finanzieri locali nei giorni successivi – sentitisi oramai padroni del mondo - distrussero anche gli uffici e le sedi di molti professionisti slavi, di banche croate o slovene (Banca Adriatica, Banca di Credito di Lubiana, Cassa Risparmio Croata).

Giornali croati, come a Pola Hrvatski List, vennero subito anch’essi soppressi. Numerosi gli assalti e le aggressioni anche a sedi operaie slave e i piccoli villaggi dati alle fiamme, come Krnica e Mackolje. A volte senza giustificazione, a volte con alibi di scarso valore. Fanatismo completo, il fanatismo del fascio.

Del resto, già a luglio del 1920 a Trieste si erano riscontrati vari morti, causa l’uccisione qualche giorno prima a Spalato di nostri marinai da parte di esponenti slavi. Per reazione, venne dato alle fiamme il 13 luglio l’hotel Balkan, sede di associazioni culturali e politiche di sloveni, servi e croati. L’accusa era che fosse un covo insurrezionale. Mai completamente provato.

Il Piccolo di Trieste scriveva in quei giorni: «Le fiamme del Balkan purificano finalmente Trieste e purificano l’anima di tutti noi». Le nuove terre italiane divennero, inoltre, facile presa del nuovo squadrismo fascista, ancora prima della marcia su Roma. Come nel nord Italia ma qui, anche con motivazioni nazionalistiche e di rivalsa verso terre, solo qualche anno prima, nemiche sotto la bandiera austro-ungarica.

Il tutto bene spinto da Mussolini, non ancora Duce, con le sue inequivocabili le parole lì pronunciate il 22 settembre 1920: “Di fronte a una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500 mila slavi barbari”.

La politica del bastone. Sarà molto praticata e non solo fermandosi al bastone. Un episodio, ad esempio, va ricordato per meglio capire il clima particolare verso la minoranza slava in quegli anni del fascismo di confine e di Trieste.

Nel giugno ‘21 venne inaugurato sul Monte Nero, a pochi passi da Caporetto, un monumento agli Alpini a ricordo dei morti di quell’orrenda tragedia. Qualche giorno dopo, alla notizia che il monumento fosse stato oltraggiato, si organizzarono spedizioni punitive (con squadristi persino dall’Emilia e Veneto) contro la minoranza slava su tutto il Carso, da Gorizia a Tolmino.

Case bruciate, sloveni percossi, derubati, molti arrestati. Il messaggio era chiaro: lo slavo era il nemico conquistato, il fascista era l’italiano che doveva portare l’ordine e la legalità sulle nuove terre.

E il messaggio venne positivamente accolto anche da molti triestini e giuliani, che vedevano nel fascismo finalmente una rivincita dopo anni di torti e soprusi. Il solito film.

Mussolini sfrutterà molto, strada facendo, questo sentimento. La guerra contro lo slavismo con metodi da fascismo di confine sarà nel ventennio un suo cavallo da battaglia. E il monumento agli Alpini? Anni dopo, un’inchiesta dello stesso nostro governo accertò che aveva subito danni da… un forte temporale. Diremmo oggi una fake-news.

Il giornalista Livio Ragusin-Righi scriveva: 'I nuclei sloveni della zona di confine non hanno mai avuto una propria storia nazionale, né una propria civiltà. L’opera (fascista) di colonizzazione ha tre aspetti principali: prima di tutto deve ridare alla popolazione il suo aspetto genuino (in altre parole civilizzarli), in secondo luogo viene la colonizzazione che si può chiamare Stato, costituita dall’opportuna dislocazione di scelti funzionari italiani, infine viene la saturazione completa (l’italianizzazione degli slavi)'.

Solo nei primi anni del primo dopoguerra, dalla Venezia Giulia e Istria, in questo clima, emigrarono verso il Regno dei Croati e Serbi – la futura Jugoslavia - 30 mila, forse 40 mila persone, di cui ben 15 mila nei campi profughi.

Cacciati via da quella che prima era la loro terra e vogliosi forse un giorno di tornarci, al prossimo giro di carte o dadi. Solo nella città di Lubiana (Slovenia) e solo nel ‘19 ne arrivarono 5 mila. Un esodo giuliano-dalmata ripetuto più volte a seguire, talvolta anche in senso unico contrario o alternato.

E, come tutti gli esodi, poco conclamati e pubblicizzati. E saranno 40 mila invece gli italiani che, in quegli anni da varie regioni d’Italia, giungeranno in Istria per sostituirli. Non solo gerarchi fascisti, carabinieri o segretari comunali ma anche semplici maestri o intere famiglie di contadini, a cui erano stati assegnati i terreni prima sottratti o abbandonati dai contadini slavi. Anche famiglie in quanto bisognose d’aiuto per mariti o padri morti in guerra. Sulla falsariga di quanto avvenne nell’Agro-Pontino. Ma là le terre vennero rubate alle paludi malariche, qui ai contadini slavi.

E se le zanzare tenteranno di tornare nelle loro vecchie paludi, altrettanto faranno i contadini. Ognuno usando le proprie armi. E poi snazionalizzazione di tutto e tutti, chiusura delle scuole slave (1° ottobre ‘23) – con la scusa che qualche settimana prima, nella Dalmazia slava, era successo lo stesso per le scuole italiane – emigrazione e trasferimento dei funzionari pubblici locali, degli intellettuali e perché no dei sacerdoti.

Con le Leggi Fascistissime del ‘24/’25 vennero poi – come per il resto dell’Italia – eliminate le libertà di stampa, di associazione, proibiti gruppi sociali, sportivi, le casse rurali, le cooperative e ogni altra associazione che non fosse di diretta emanazione fascista. Stiamo parlando solo tra Gorizia e Trieste di ben 310 cooperative, di cui 156 casse rurali. Con la loro chiusura e il blocco del credito locale si creò inevitabilmente un forte stop allo sviluppo economico e agricolo nel territorio. Ne beneficiarono altri, più vicini e in linea col regime.
Coi regimi, da che mondo è mondo, c’è chi muore di fame e c’è chi si ingrassa.

Per quanto ovvio, assolutamente vietato l’uso della lingua slovena o croata. L’ordine già operativo dal 1° aprile ‘22 venne rafforzato il 15 ottobre ‘25, proibendo in modo tassativo l’uso in sede giudiziaria di lingue diverse dall’italiano.

In qualsiasi negozio o bar era vietato parlare slavo e, nel caso avvenisse, più che le sanzioni legali (chiusura locale) erano temute le azioni dei fanatici squadristi del fascio. Vennero cancellate le insegne e le indicazioni stradali in sloveno o croato e dal 29 marzo 1923 tutte le città e località modificarono il loro nome con termini italianizzati. La posta – essenziale a quel tempo – non sarebbe più stata consegnata se nell’indirizzo fosse comparsa una sola parola non italiana o non italianizzata.

Peggio col R.D. del 7 aprile 1927 che estenderà l’italianizzazione forzata su tutti i cognomi, sia quelli che in precedenza da italiani erano stati snazionalizzati dagli Austriaci, sia a tutti gli slavi autoctoni che di italiano non avevano nulla dalle loro origini. Sarà fatto d’ufficio, elenco per elenco, nome per nome, dal 1928 al 1931.

E questo, per molti, sarà un vero e proprio delitto. Come prima per gli italiani. Stiamo parlando del tuo cognome, quello di tuo padre e del padre di tuo padre. La tua identità. Le tue radici. È altrettanto ovvio che il discorso tocca, come prima a ruoli invertiti, il fattore cultura.

Il Popolo di Trieste pubblicava in data 27 giugno 1927: 'I maestri slavi, i preti slavi, i circoli di cultura slavi eccetera, sono anacronismi e controsensi in una regione annessa da ben nove anni e dove non esiste una classe intellettuale slava, da indurre a porre un freno immediato alla nostra longanimità e tolleranza'.

Siamo nel ‘27, Goebbels era ancora in fasce, Hitler era appena uscito di galera. Ma noi eravamo già più avanti, sulla strada che conduce al baratro. Qualche dato?

Alberto Buvoli, su Patria Indipendente nel 2005, scrive: «nel 1918 nella Venezia Giulia esistevano 541 scuole slovene e croate per 80mila studenti. Un solo anno dopo, le scuole erano 464 con 52mila alunni». Poi – lo sappiamo – 4 anni dopo verranno chiuse del tutto. Tutti gli insegnanti nel frattempo dovettero adeguarsi alla nuova legge, con apposito esame entro l’aprile ‘24 con cui dare assoluta garanzia di “leale adempimento dei doveri e di agire in conformità alla linea politica del governo”. Essere fascisti, insomma. Su un migliaio di insegnanti slavi, solo una cinquantina non persero il posto e solo cinque nella Venezia Giulia.

In questo clima da Gestapo, gli intellettuali slavi e tutte le persone istruite, professionisti, funzionari vari, tutti coloro che poterono, fuggirono in Jugoslavia alimentando così l’intellighenzia del nuovo stato e lì diventando avvocati, docenti universitari, manager delle nuove imprese. Formeranno le nuove leve statali, forse trasmettendo anche una dose di desiderio di rivalsa verso il paese che li aveva brutalmente messi alla porta, come i portatori della peste manzoniana o dell’attuale coronavirus. Peggio per i meno istruiti, scappati verso zone più povere (Macedonia o Montenegro), e su cui forse la nuova classe dirigente farà più presa. Qualcuno alla prima occasione non mancherà di pagare con monete sonanti di odio e rivincita quanto subìto.

Ce ne accorgeremo.

E ritorneranno le foibe. Ritorneranno perché vi erano anche prima, sebbene in maniera meno organizzata e non così su larga scala, come dopo l’8 settembre 1943.

A Pisino (Pisin in dialetto, Pazin in croato) già nel 1925 negli anni decisivi del “fascismo di confine” tra i camerati girava infatti una canzone molto eloquente: 'Fioii mii, chi che ofende Pisin, la pagherà: In fondo alla foiba finir el dovarà'.

E più indietro ancora, un libro del 1919 indicava una poesia “nazionalista” italiana ben nota nell’ambiente squadrista di Trieste, quale monito nella fase di de-slavizzazione delle nuove terre conquistate dopo la guerra: 'A Pola xe l’Arena, la Foiba xe a Pisin che i buta zo in quel fondo chi ga zerto morbin'.

Pochi anni dopo, nel 1927, il ministro dei lavori pubblici del Duce, Giuseppe Cobolli Gigli, quello che si attribuì l’appellativo vittorioso di “Giulio Italico”, scriverà invece: “La musa istriana ha chiamato con il nome di foibe quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell’Istria danneggiano le caratteristiche nazionali (italiane) dell’Istria” (pubblicato su “Gerarchia”, IX, 1927).

Anche questa è Storia, storia di Trieste e storia della nostra Italia, con pagine di carnefici e pagine di vittime scritte talvolta da italiani e talvolta da altri. Anche se non sempre da tutti sono pagine conosciute.

Fra tutte le definizioni che amo, ricordo con piacere quella di Alessandro Barbero quando scrive che ‘la storia è la capacità di studiare capendo le ragioni degli uni e degli altri, senza paura di dire - ogni volta - chi ha torto e chi ha ragione e, soprattutto, dire senza paura quello che non è comodo dire'.

Si chiama onestà intellettuale, il resto è politica e talvolta solo spazzatura.

2 marzo 2023 – 102 anni dopo - Rinaldo Battaglia

* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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