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15 febbraio 2023
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I martiri di Prozor
di Rinaldo Battaglia*

25 anni fa, nel 1998, una ‘Commissione parlamentare di inchiesta’ - istituita allora per capire le cause che avevano portato all’insabbiamento del famoso ‘armadio della vergogna’ scoperto casualmente solo nel 1994, dopo la caduta del muro di Berlino – ammise la dura realtà sulle motivazioni politiche in merito al silenzio sui crimini delle foibe e parimenti dei massacri italiani e fascisti in terra di Jugoslavia.

Venne scritto nero su bianco che, nell’immediato dopoguerra “il governo italiano si trovava nell’imbarazzante situazione da un lato di negare l’estradizione di presunti criminali italiani, richiesta da altri Paesi, e dall’altro di procedere alla richiesta, proveniente dalla magistratura militare italiana, per l’estradizione di militari e criminali di guerra tedeschi”.
Verrebbe da dire che non è mai troppo tardi.

Da De Gasperi in poi, tutti i nostri governi decisero, per convenienza, di dormire.
Il verdetto della Commissione, a riguardo, non usava perifrasi: “è responsabilità dei governi dell’epoca, che condivisero la difesa ad oltranza dei presunti criminali italiani, e sacrificarono sull’altare dell’onore dell’esercito italiano la punizione dei gravi crimini commessi dai nazifascisti in Italia.”

Ma non solo.
Se non si poteva parlare di Mussolini, Roatta, Robotti & C., se non si doveva neanche nominare sottovoce Rab e Podhum, dovevi ‘obtorto collo’ nascondere le foibe, necessariamente sottodimensionare il dramma degli esodi dall’Istria e Dalmazia, cancellare dai ‘media’ anche i massacri e gli eccidi che vedevano gli italiani non più come ‘carnefici’ e gli slavi come ‘vittime’, ma anche quelli – e non mancarono - in ruolo invertiti.

Podhum non esiste, l'ho scritto più volte.
Ma, anche ‘Prozor’ è stato sacrificato nell’altare dell’ipocrisia e del silenzio assoluto. Anche Prozor non esiste.
Qualcuno di noi sa qualcosa dei martiri di Prozor?
Il massacro di Prozor avvenne nel febbraio 1943, nell’attuale Bosnia-Erzegovina, in una zona montuosa e molto boschiva, sulla strada che da Spalato porta a Sarajevo.
La data è una ricorrenza molto triste e volutamente dimenticata per diversi motivi: il 16 febbraio 1943.

A 800 km di distanza a Domenikon, nella Grecia centrale, i fanti della Pinerolo comandati dal gen. Cesare Benelli, altro criminale di guerra per la War Crimes, quel giorno sterminarono gli abitanti del piccolo villaggio. Quasi tutti vecchi, donne e molti bambini. Si parla di oltre 150 civili uccisi. Un’altra Podhum. La Podhum greca. Il motivo? Una rappresaglia per alcune azioni dei partigiani locali, che si opponevano alla nostra invasione. E se non riesci a sconfiggere i militari, è più facile sfogarsi sui civili, magari solo pastori, armati di pecore e capre.

La realtà di Prozor è invece completamente diversa. Qui non è questione di civili, inermi e non preparati alla guerra. A Prozor sono soldati contro altri soldati. Ma ciò non toglie che anche in guerra non ci siano regole da rispettare e dignità da mantenere. E poco conta se i primi a non rispettare le regole siano stati proprio i nostri generali.

Fino alla Grande Guerra, prima di invadere un territorio nemico – giova ripeterlo - si inoltrava la dichiarazione di guerra. Era un atto formale, ma aveva il suo valore: siamo soldati, ma prima ancora ‘uomini’. Anche l’invasione della Serbia, da parte dell’Austria, il 28 luglio 1914 fu anticipata da un ultimatum, da un atto formale, per quanto inaccettabile. Lo stesso il Kaiser col Belgio il 4 agosto. Ma con l’arrivo di Hitler e di Mussolini tutto cambiò. Vi era il disprezzo totale verso il nemico, che non meritava nulla. Chi conosce la nostra invasione della Grecia il 28 ottobre ‘40 e la stessa guerra di Jugoslavia il 6 aprile ‘41, non può che condividere. Il Fuhrer aveva aperto la porta alla più grande tragedia mai avvenuta al mondo, il 1 settembre 1939, senza preavvisare il governo di Varsavia. Crimine nei fatti e crimine nei modi, in perfetto stile fascista.

Ma a dire il vero, il pioniere del mancato rispetto non va indicato in Hitler, ma bensì al Duce e per la solita legge, non scritta, che prima venne il Fascismo italiano e dopo, dopo tutti gli altri, nazismo tedesco compreso.
Il primo caso risale, infatti, alla notte tra il 2 ed il 3 ottobre 1935 quando, senza nessuna formale né ufficiale dichiarazione di guerra, Mussolini dette ordine al gen. Emilio De Bono di invadere l’Etiopia, Stato allora sovrano, indipendente e presente, come l’Italia, nella Società delle Nazioni, Organizzazione che puntava all’assoluto rispetto delle regole internazionali e dei confini in essere.

Come andò a finire è storia nota, raggiungendo vette di orrore e crudeltà degne del peggior nazismo del Terzo Reich e dove la figura del gen. Rodolfo Graziani si avvicina molto a quella dei più spietati carnefici di Hitler. E non sarà un caso che a Salò, dopo Mussolini il numero due fosse proprio il gen. Graziani, con ovvio consenso di Berlino.
Rodolfo Graziani proprio quello che ad Affile, vicino a Roma nel 2012 i nostri politici. con fondi pubblici (160 mila euro si dice) gli hanno costruito un grande mausoleo a ricordo.

Probabilmente se oggi si cercano delle ‘matrici’ sarebbe facile trovarne, anche alle porte di Roma. Basterebbe volerlo. Il massacro di Prozor avvenne nella più complessa battaglia passata, sui libri di storia, come la ‘battaglia del fiume Neretva’ (o ‘Narenta’), oggetto peraltro anche di film famosi.

Da una parte, i nazi-fascisti tedeschi ed italiani, supportati dagli ustasha croati e da gruppi di cetnici, acerrimi nemici allora, in quel preciso momento, dei comunisti. Dall’altra, i partigiani ora più che mai sotto gli ordini di Tito, fino allora in seria difficoltà, sia come strategia che forze in campo, ma ancora decisi a cacciare gli invasori.

L’offensiva nazifascista - denominata ‘Weiss’ dai tedeschi ossia ‘bianca’ in contrapposizione ad un’altra analoga allora in corso in terra slovena, chiamata ‘Schwarz’ (nera) – stava maturando con un forte successo.
I partigiani vennero spinti in un angolo, chiusi da una parte - a valle - dalla Neretva e dall’altra - a monte - da oltre 100.000 soldati, ben dotati di mezzi corazzati. L’unico ponte sul fiume era saldamente, poi, in mano a 20.000 cetnici, bene armati soprattutto dagli italiani di Roatta.

Se c’era una via d’uscita per gli uomini di Tito, restava solo quella che portava a Prozor, piccola cittadina, bene fortificata ed in mano da tempo alle truppe italiane e precisamente il 3° Battaglione del 259° Reggimento Murge (della 154a Divisione di fanteria ‘Murge’ costituita ad hoc per la guerra d’invasione nei Balcani), integrato da fanatiche ‘camicie nere’. Al comando il col. Enrico Molteni, militare tutto d’un pezzo e molto stimato dalla sua truppa.

I partigiani di Tito attaccarono Prozor la notte tra il 15 ed i 16 febbraio ’43, col massimo delle loro energie, spinti anche dalla forza della disperazione per come le cose si stavano mettendo per loro. Fu una battaglia all’ultimo sangue, senza sconti per nessuno, ma l’attacco venne respinto dai soldati italiani, manifestando molto coraggio e altrettanta capacità strategica.

Nelle ore successive e prima della notte, i partigiani slavi vennero tuttavia rinforzati da nuove truppe (5a Brigata d’assalto montenegrina) e con partecipazione diretta sul campo del loro comandante, Sava Kovačević.
Per i nostri soldati fu un macello, ma riuscirono a lottare finché ebbero dotazione di munizioni e forse anche dopo, visto che vi furono non pochi combattimenti ‘all’arma bianca’, come oramai non si vedeva da decenni sui campi di battaglia. Forse dalla grande guerra precedente.
Non è mai stato quantificato da nessuno il numero dei nostri soldati uccisi con le ‘armi in pugno’, prima che fossero costretti, inevitabilmente, ad arrendersi.
Erano in 771 il giorno precedente. Ma a battaglia finita, dopo che il reggimento, col col. Molteni in testa, disarmato si arrese, i sopravvissuti furono tutti sterminati.

Tutti: soldati di truppa ed ufficiali. Feriti e non feriti. Mutilati e sani. Uno ad uno. Per ordine diretto del giovane comandante di zona, uomo di fiducia di Tito, Milovan Gilas. Senza alcun rispetto delle normali e minime regole di guerra o di leggi internazionali, firmate a suo tempo anche dal Regno di Jugoslavia, prima che fosse invaso, a tradimento, dai nazisti tedeschi e dai soldati del Duce. Disprezzo su disprezzo.

Nelle sue memorie, il comandante Gilas (M. Gilas - La guerra rivoluzionaria jugoslava. 1941-1945. Ricordi e riflessioni - tr. it. Gorizia 2011, p. 276-277) parlò di 740 soldati uccisi, tra i morti nell’attacco e quelli dopo giustiziati. Il resto riguardava alcuni ufficiali che, con Molteni in testa, vennero portati nella vicina Jablanica e fucilati in pubblica piazza.

Molteni venne addirittura freddato con un colpo di pistola alla nuca, sparato direttamente proprio da Sava Kovačević, come fosse un criminale comune, come fosse un animale da macello.
La vicenda venne alquanto penalizzata anche da storie anomale di delazioni e tradimenti, solitamente sempre presenti da entrambe le parti. Nel caso specifico risulterebbe l’azione di un ufficiale triestino, convinto antifascista, passato a collaborare coi partigiani comunisti: il capitano Riccardo Illeni. Il ‘tradimento’ potrebbe apparire strano, se non raro, ai profani di questa guerra, nata in disprezzo di tutte le regole militari e proseguita su quel terribile sentiero, giorno dopo giorno.

Va subito detto però che, dopo l’armistizio dell’8 settembre’43 - che cambiò le carte in tavola – almeno 40.000 soldati italiani scelsero di combattere i nazifascisti, unendosi ai partigiani di Tito. Talvolta in ordine sparso, talvolta in gruppi ben definiti come la Brigata Garibaldi, che con le sue migliaia di uomini provenienti soprattutto dalle divisioni Venezia e Taurinense fu partecipe, peraltro, anche alla liberazione della capitale Belgrado nell’ottobre ’44. 40.000 volontari italiani che formeranno da soli 3 divisioni, con 15 brigate e 7 battaglioni, come ben raccontano molti affermati storici, in primis Giacomo Scotti (in ‘Bono Taliano’ ad esempio). O Luciano Monzali in ‘L’occupazione italiana della Jugoslavia 1941/1943’ (ed. Le Lettere).

La vicenda tuttavia è sempre stata, ai più, nascosta e vista in negativo, quasi da traditori. A pesare in questo giudizio, sarà stato il ruolo avuto da alcuni di loro, i più fanatici e politicamente i più integralisti, nel seguire gli ideali di Tito e di Stalin, anche in terra d’Istria e a Trieste, nel periodo tragico delle foibe. Contro altri italiani.

In questa fredda analisi, tuttavia, non vengono mai considerati, proprio, gli ‘italiani di confine’ inseriti da Roatta nei ‘battaglioni speciali’. Emblematico fu il caso di un istriano purosangue, Joakim Rakovic, che con l’arrivo degli italiani venne battezzato in ‘Gioacchino Racozzi’. Arruolato nel 1941 nel nostro Regio Esercito, alla prima occasione utile – la licenza di Natale del ‘42 - ritornò nella sua Istria e assieme ad un altro compaesano – Giuseppe Suran – si rifugiò nella zona montagnosa del Gorski Kotar, tra Fiume e Zagabria ben difesa da foreste e fitta vegetazione. Costituì una brigata di partigiani, molto imponente che poi sfocerà nella 13° Divisione croata al servizio di Tito. Prima di esser preso e fucilato dai nazisti, ad inizio ‘45, darà loro il filo da torcere e sarà uno dei riferimenti nella lotta partigiana per i croati.

Joakim Rakovic nella statistica della guerra come andrebbe etichettato? ‘Italiano traditore’ oppure ‘eroe croato’?
Probabilmente andrebbe quanto meno parificato ad un altro istriano doc, Nazario Sauro, nato a Capodistria ai tempi di Francesco Giuseppe, arruolatosi nella ‘nostra’ marina anziché nel ‘suo’ esercito, ma poi catturato dagli austriaci e giustiziato il 10 agosto 1916 a Pola. Medesimo destino di Cesare Battisti o Fabio Filzi nel Castello di Trento.

Eroi o traditori? O forse – perché no – solo uomini. Solo uomini di valore, che credevano negli ideali del cuore e meno nei confini, segnati da altri con un tratto di penna, in una cartina geografica. Si racconta nei documenti ufficiali che, il 16 febbraio ‘43, nella confusione legata alla resa di Prozor, un ufficiale, un giovane tenente, riuscì a sfilarsi e a scappare. Ma i partigiani sembra avessero a loro mani l’elenco degli ufficiali (consegnato dal cap. Illeni, forse?) e, individuatolo, fecero subito girare la voce che se non si fosse liberamente consegnato ai vincitori, subito altri 20 ufficiali sarebbero stati fucilati al suo posto. L’anonimo tenente ritornò così indietro, manifestando lealtà e coraggio. Non servì ne uno e ne l’altro: fu preso messo al muro e fucilato assieme a tutti gli altri soldati ed ufficiali italiani.
Quando mesi dopo, Jablanica sarà ripresa dai nazifascisti, in una fossa comune troveranno i corpi degli uomini del ‘Murge’. Alcuni risultavano persino squartati. Senza alcun rispetto. Disprezzo su disprezzo.

La battaglia di Neretva proseguì e, in virtù anche di scelte strategiche molto opportune di Tito, i nazifascisti furono dapprima sconfitti e dovettero, momentaneamente, abbandonare la zona. Il gen. Roatta, in seria difficoltà verso Mussolini per l’esito negativo della battaglia, scaricò l’attenzione solo sulla sorti del Battaglione di Molteni, esaltando l’eroica difesa di Prozor.
Parallelamente rafforzò, nelle sue truppe, la politica del ‘Non dente per dente, ma testa per dente’ incitandoli alla massima violenza verso tutti gli slavi, militari, partigiani e civili che fossero. Senza pietà o giustificazione alcuna. E’ la fase del ‘Si ammazza troppo poco’, già brevettata un anno prima dal gen. Robotti ai tempi infami della Circolare 3 C.

Fase non degna di un paese civile, per quanto impegnato in una guerra assassina e di occupazione, e pertanto volutamente dimenticata e nascosta nella pieghe della nostra storia. Disprezzo su disprezzo. E nel nascondere i crimini di Roatta, inevitabilmente venne cancellato dalla memoria anche l’eroismo degli uomini di Molteni.

A dire il vero, se Podhum non esiste e non esiste Prozor, anche l’immediata reazione delle nostre truppe venne, vergognosamente, dimenticata e nascosta dal nostro conoscere.
Il riferimento è la strage di Alpe Golobar o, per gli slavi, di ‘ Kal-Koritnica’ di fine aprile ‘43, due mesi dopo Prozor.
Anche qui la vicenda è di soldati (partigiani titini) contro altri soldati (Alpini del Battaglione Vicenza, al comando del magg. Attilio Cilento). Ma non è il numero che solo qui conta: una quarantina di partigiani slavi uccisi. Anche qui è, invece, il modo disumano di disprezzare i nemici che, dopo esser stati legati i col fil di ferro e poi ammazzati, vennero vilipesi e trascinati per il paese, sotto gli occhi dei civili, terrorizzati nel vedere un tale scempio dei loro ‘difensori’, dei loro eroi.

Era già successo – spinti dall’odio viscerale dei nostri generali – anche ad inizio mese a pochi chilometri di distanza, nella valle di Malga Bala.
Anche in questo caso sempre gli uomini del ‘Battaglione Alpini di Vicenza’ e sempre comandati dal magg. Cilento, che riuscirono a circondare 130 partigiani di Tito - sembra - impegnati in una sorta di festa popolare, con canti, balli e suoni.

Fu un macello: oltre la metà vennero subito uccisi dalle mitragliatrici, colti di sorpresa. Il resto, i feriti e chi si arrese, giustiziati senza pietà sul posto. Disprezzo su disprezzo. I cadaveri di almeno 29 dei caduti jugoslavi vennero utilizzati a scopo propagandistico dai nostri generali per spaventare i civili: ‘legati come tronchi e trascinati a valle sino al villaggio di Cal Coritenza, furono poi ammassati nei cassoni di alcuni camion e portati a Bovec tra canti e suoni di fisarmonica per essere esposti in piazza prima che ne fosse concessa la sepoltura’.

Come scrissero gli storici Antonio Russo (in ‘Planina Bala’ - Aviani & Aviani Editori) o Aberto Buvoli (in ‘Foibe e deportazioni: ristabilire la verità storica o in ‘Quaderni della Resistenza’ cap. n. 10, p. 70). Anche un altro storico, Alessandro Della Nebbia (in ‘L'eccidio di Malga Bala’ in Notiziario Storico dell'Arma dei Carabinieri, n. 2, 2019, p. 10), fu molto preciso su quegli avvenimenti poco civili e frutto, di certo, della propaganda fascista:
«La strage di Malga Bala è spesso anche posta in relazione con l’eccidio che era stato perpetrato dai nazisti per rappresaglia in una frazione di Bretto di Sopra nell’ottobre 1943, uccidendo circa 15 persone, lasciandone esposti i corpi come monito alla popolazione e dando alle fiamme tutte le abitazioni. Altri richiamano infine anche lo scontro tra partigiani e reparti dell’Esercito italiano avvenuto sul vicino monte Golobar nell’aprile ancora precedente, in cui rimasero uccisi circa 40 combattenti sloveni, le cui salme sarebbero state trascinate a valle legate con fil di ferro.»

La guerra è veramente solo ipocrisia, la guerra è solo odio, la guerra è solo menzogna.
Del resto se ti lavano il cervello con nuovi comandamenti, basati sul falso vangelo del “So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori”, come scriveva, mesi prima, Mussolini ai soldati della Seconda Armata, cosa puoi ottenere?

Niente da meravigliarsi, quindi, se dopo il 25 luglio 1943, arrestato Mussolini, vi furono azioni difficili da catalogare nel nostro esercito e pertanto volutamente dimenticate nei nostri libri di storia. Perchè se Podhum non esiste nel comune conoscere, se Prozor è stata cancellata, molte altre vicende sono sparite.

Chi sa qualcosa dei 28 alpini di Bol, nell’Isola di Brazza a sud di Spalato, fucilati poco dopo il 25 luglio 1943 per sentenza del nostro Tribunale Militare di Sebenico?
Erano dei nostri, erano italiani. Avevano solo festeggiato la caduta del Duce, che li aveva spediti lontano da casa a combattere e morire. E ad usare metodi criminali contro i civili, drogati com’erano da generali fanatici.

A Bol, il 5 agosto i partigiani di Tito, esaltati anche loro per l’arresto del Duce e convinti che la guerra fosse oramai segnata nel suo destino e a loro favore, si scontrarono con gli Alpini del presidio locale. Erano del 3° Reggimento, agli ordini del cap. Leo Banzi e del s.ten. Renzo Raffo. Poco armati e colti di sorpresa, i 70 alpini sopravvissuti allo scontro, alla fine si arresero. I partigiani li lasciarono liberi, disarmati ma liberi di andarserne.
Niente vendette, niente uccisioni vigliacche come a Prozor o ad Jablanica, niente uomini ammazzati e usati come trofei di caccia. Liberi di tornare verso i loro Comandi.

Ma se talvolta il nemico non è nemico, talvolta sono i tuoi ad esserlo. Nell’agosto ’43 non si capiva bene chi fosse fascista e chi no, chi fosse ancora legato a Duce e chi meno. Per il cap. Balzi e il s.ten. Raffo la confusione di ruoli durò poco. Per direttissima vennero processati e assieme ad altri 26 alpini condannati a morte e fucilati a Punta Maddalena, lì poco lontano. Altri 22, invece, condannati a ‘solo’ 15 anni di reclusione. Solo i feriti gravi vennero assolti. La colpa: essersi arresi al nemico, prima di aver finito le munizioni.
O forse meglio: aver festeggiato la fine di un tiranno criminale che aveva ingrassato un’èlite di militari assassini. Dopo l’8 settembre – ma ci furono anche casi nello stesso mese di agosto – molti soldati al momento di scegliere con chi combattere e soprattutto contro chi, preferiranno ‘il nemico’.

Storie nascoste, storie dimenticate. Storie non in linea col pensiero generale da tramandare ai posteri: gli eroi sono gli italiani, i criminali gli slavi, quelli poi assassini nelle foibe sul Carso, quelli maledetti ogni 10 febbraio dall’opinione pubblica italiana. Anche quest'anno.

Noi siamo la ‘ragione’, gli altri il ‘torto’.

15 febbraio 2023 – 80 anni dopo - liberamente tratto da ‘A Podhum io scrivevo sui muri' - ed. Ventus/AliRibelli- 2022

* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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