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Carcere
: sei suicidi in un mese , ma la parola d'ordine è
tacere
di
Vincenzo Andraous*
Partendo dall'idea che di galera non si debba parlare, dei
morti ammazzati dentro una cella neppure, del suo sovraffollamento
meno ancora, volendo così significare che l'ingiustizia è
stata finalmente sanata, mi sovviene un pensiero che rafforza
drammaticamente quel che è già risaputo da tempo: più la galera
sarà ridotta a un lazzaretto disidratato, più chi poco conosce
della prigione risulterà contento.
Chiaramente
si tratta di una disattenzione che renderà il cittadino ulteriormente
allarmato, ovvero alla ricerca di sempre nuove sanzioni restrittive
che però non risolveranno i problemi che affliggono la società
di cui è parte. Una sorta di autoipnosi collettiva, perché
è provato dalla recidiva inequivocabile che le carceri punitive
non consentono alcuna rieducazione, alimentando ben poca "sicurezza"
per quei cittadini che invece auspicano una giustizia giusta.
Sul
carcere è franato un silenzio spesso come la pece, frutto
di un'architettura sofisticata al punto da non obbligare ad
alcuna indignazione, neanche per le patologie a doppia diagnosi
che s'espandono nelle celle di una prigione. C'è
silenzio feroce sulla notizia, tramortita dall'estate in dirittura
conclusiva: contiene un messaggio sottotraccia, non bisogna
parlarne troppo, occorre evitare strilli e urla, sono "eventi
critici" che dalla notte dei tempi appartengono al novero
delle "insindacabilità" carcerarie. Sei detenuti suicidi,
ognuno ospite in un Istituto diverso, ciascuno strozzato in
gola, con le orbite esplose nei polmoni.
Sei
persone all'ammasso, corpi denudati, cadaveri in cerca d'autore.
Sei residenti in quella sorta di terra di nessuno, dove non
si vuole guardare, sei interrogativi rapinati brutalmente
di soggetto e complemento oggetto, sei uomini azzerati della
propria esistenza nello spazio di un mese o giù di lì. Manca
il personale, non ci sono mezzi necessari a tutelare e garantire
se non una parvenza vita, una possibile sopravvivenza. In
questi frangenti le colpe non sono mai di nessuno, ovvero
sono "semplicisticamente" riconducibili alla fragilità umana,
genuflessa al peso della colpa e del rimorso incombente. Episodi
licenziati sbrigativamente dall'urto e nel fastidio della
piaga endemica dell'Amministrazione Penitenziaria, il sovraffollamento,
come unica condizione d'irrappresentabilità della pena da
scontare. Non c'è da farla tanto lunga, tante e troppe persone
per bene muoiono ingiustamente nel consorzio sociale libero!
Non
fa una grinza, ma forse c'è da tener in debita considerazione
che queste dipartite appartengono anch'esse a cittadini detenuti,
sì, privati della libertà, ma a norma di legge con le mani
e con i piedi interamente affidati allo Stato che li detiene,
che però non dovrebbe spogliarli della propria dignità. C'è
arrendevolezza di comodo al male minore, rispetto alla condizione
di inaccettabilità cui è costretto il carcere. Sei detenuti
di ogni età, terra di origine, si sono "volutamente" estinti
in altrettante regioni della penisola, dunque non è la solita
letteratura di parte che riguarda una ben definita Cayenna,
quel famoso inferno, quella unica e malcelata dependance del
diavolo.
Sei esseri umani hanno preferito la ferita scarnificata al
collo, il cappio stretto alla gola, se ne sono andati in sei
nell'arco di un mese, scacco alla sofferenza, al dolore, all'abbandono
e alla follia che imperversa in ogni disperazione solitudinarizzata
da una politica scardinata dei propri ideali. Sei morti ammazzati
nello scorrere di qualche settimana non sono una miserabile
materia di rimbalzo, tacerne la gravità sottende latitanza
di una dignità da rispettare per norma costituente, se non
per un diritto e un dovere di umanità che riguarda l'intera
collettività. Forse è giunto il tempo di mettere mano davvero
alla Riforma Penitenziaria, quanto meno per riconsegnare al
carcere il suo scopo e la sua utilità.
*
Responsabile servizi della Casa del Giovane di Pavia
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