Sull’abolizione
della pena di morte in Italia
di
Claudio Giusti*
Nelle frenetiche giornate della Seconda Guerra d’Indipendenza
fu di nuovo Firenze a rimettere in campo l’abolizione. Il
30 aprile del 1859 il Governo Provvisorio Toscano, onorando
la memoria dei padri, aboliva la pena capitale nel Granducato,
affermando che “fra noi la civiltà fu sempre più forte della
scure del carnefice”.
Sul
momento la cosa non suscitò particolare interesse, ma quando
si riunì il primo Parlamento d’Italia (il 17 marzo1861 fu
proclamata l’unità del paese sotto Re Vittorio Emanuele II)
ci si rese conto che la pena capitale esisteva in tutto il
Regno, ma non in Toscana. La Camera dei Deputati risolse con
eleganza la spinosa questione. Dopo un vivace dibattito la
Camera votò, il 13 marzo 1865, la fine della pena di morte
per i reati di diritto comune.
Era stato Carlo Cattaneo a iniziare la battaglia, chiedendo
la fine della pena capitale in nome del progresso e della
civiltà, ma soprattutto per la sua dimostrata inutilità. A
lui si unirono, con il loro “Giornale per l’abolizione della
pena di morte” (1861-1865), i giuristi Pietro Ellero, che
aveva “orrore per la schifosa danza” dell’impiccagione, e
Francesco Carrara che la considerava più “illegittima” che
inutile. A questi si aggiunsero Guerrazzi, Tommaseo, Carducci,
Garibaldi e soprattutto Pasquale Stanislao Mancini: un raro
caso di uomo politico che non annacquava il suo abolizionismo
nel passaggio dai banchi dell’opposizione a quelli del governo.
Con
lui la maggioranza dei deputati decise che: “Sarebbe difficile
persuadersi che la Toscana [sia la] sola, dove la conservazione
dell’ordine pubblico non ha bisogno di questa pena”. Purtroppo
il Senato, che era di nomina regia, bloccò tutto e fummo ancora
una volta battuti da San Marino che, nello stesso 1865, divenne
abolizionista totale.
Ma l’uso del patibolo aveva i giorni contati. Le esecuzioni
cessarono, grazie all’amnistia, nel 1877 e, per i successivi
cinquant’anni, l’Italia mostrò al mondo che si poteva vivere
senza la pena capitale. Infatti la lotta abolizionista aveva
preso nuovo vigore dopo la bocciatura senatoriale e Mancini
prima e Zanardelli poi, con l’appoggio dei giuristi e dell’opinione
pubblica, portarono il Parlamento a votare, il 28 novembre
1888, il nuovo Codice Penale e l’abolizione della pena capitale
per i crimini comuni.
Il desiderio di fornire al mondo un esempio di legislazione
avanzata aveva vinto sulle obiezioni dei fautori del patibolo.
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Componente del Comitato scientifico dell'Osservatorio e coordinatore
della Commisione "Pena di morte" dell'associazione
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