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12 aprile 2015
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Sull’abolizione della pena di morte in Italia
di Claudio Giusti*

Nelle frenetiche giornate della Seconda Guerra d’Indipendenza fu di nuovo Firenze a rimettere in campo l’abolizione. Il 30 aprile del 1859 il Governo Provvisorio Toscano, onorando la memoria dei padri, aboliva la pena capitale nel Granducato, affermando che “fra noi la civiltà fu sempre più forte della scure del carnefice”.

Sul momento la cosa non suscitò particolare interesse, ma quando si riunì il primo Parlamento d’Italia (il 17 marzo1861 fu proclamata l’unità del paese sotto Re Vittorio Emanuele II) ci si rese conto che la pena capitale esisteva in tutto il Regno, ma non in Toscana. La Camera dei Deputati risolse con eleganza la spinosa questione. Dopo un vivace dibattito la Camera votò, il 13 marzo 1865, la fine della pena di morte per i reati di diritto comune.

Era stato Carlo Cattaneo a iniziare la battaglia, chiedendo la fine della pena capitale in nome del progresso e della civiltà, ma soprattutto per la sua dimostrata inutilità. A lui si unirono, con il loro “Giornale per l’abolizione della pena di morte” (1861-1865), i giuristi Pietro Ellero, che aveva “orrore per la schifosa danza” dell’impiccagione, e Francesco Carrara che la considerava più “illegittima” che inutile. A questi si aggiunsero Guerrazzi, Tommaseo, Carducci, Garibaldi e soprattutto Pasquale Stanislao Mancini: un raro caso di uomo politico che non annacquava il suo abolizionismo nel passaggio dai banchi dell’opposizione a quelli del governo.

Con lui la maggioranza dei deputati decise che: “Sarebbe difficile persuadersi che la Toscana [sia la] sola, dove la conservazione dell’ordine pubblico non ha bisogno di questa pena”. Purtroppo il Senato, che era di nomina regia, bloccò tutto e fummo ancora una volta battuti da San Marino che, nello stesso 1865, divenne abolizionista totale.

Ma l’uso del patibolo aveva i giorni contati. Le esecuzioni cessarono, grazie all’amnistia, nel 1877 e, per i successivi cinquant’anni, l’Italia mostrò al mondo che si poteva vivere senza la pena capitale. Infatti la lotta abolizionista aveva preso nuovo vigore dopo la bocciatura senatoriale e Mancini prima e Zanardelli poi, con l’appoggio dei giuristi e dell’opinione pubblica, portarono il Parlamento a votare, il 28 novembre 1888, il nuovo Codice Penale e l’abolizione della pena capitale per i crimini comuni.

Il desiderio di fornire al mondo un esempio di legislazione avanzata aveva vinto sulle obiezioni dei fautori del patibolo.

* Componente del Comitato scientifico dell'Osservatorio e coordinatore della Commisione "Pena di morte" dell'associazione


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Dossier pena di morte

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