Osservatorio sulla legalita' e sui diritti
Osservatorio sulla legalita' onlusscopi, attivita', referenti, i comitati, il presidenteinvia domande, interventi, suggerimentihome osservatorio onlusnews settimanale gratuitaprima pagina
24 novembre 2014
tutti gli speciali

25 novembre e violenza sulle donne: riflessioni a margine
di Stella Arena e Mila Grimaldi*

Il 25 novembre ricorre la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, fioccano le iniziative, i convegni, i flash mob, le scarpe rosse nelle piazze a ricordare le vittime, ma la realtà è che la triste contabilità delle donne che perdono la vita o subiscono atti di violenza per mano degli uomini non si arresta.

Sebbene le statistiche proposte dalle associazioni che operano sul campo vengano spesso contestate in quanto ricomprendenti anche casi non ascrivibili al cosiddetto femminicidio, al di là dei numeri quello che emerge è che la violenza sulle donne è un fenomeno sociale allarmante per un paese dell’ ”occidente civilizzato”, che si sente anni luce lontano dalle condizioni di vita cui sono costrette ancora le donne in altri luoghi, ed in cui l’uguaglianza tra i sessi e la parità di genere sono tra i principi fondanti della Costituzione. Eppure sono passati solo poco più di trent’anni dall’abolizione nel nostro ordinamento penale del delitto d’onore e dell’istituto del matrimonio riparatore, fattispecie di retaggio fascista e rimaste in vigore ben oltre la riforma del diritto di famiglia del 1975 che sanciva la parità tra i coniugi in linea con il dettato costituzionale e con le istanze sociali del tempo.

Solo la L.442 del 1981 infatti aboliva l’art.587 del Codice Rocco che così recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.(…)”.

L’offesa all’onore era quindi fino al 1981 riconosciuta al punto da legittimare la reazione violenta che tale offesa doveva lavare. E sempre l’onore era alla base della previsione del matrimonio riparatore che cancellando l’offesa cancellava lo stupro. Non c’è da meravigliarsi quindi se ancora oggi nel nostro paese resistano dinamiche di possesso all’interno della famiglia e delle relazioni che vedono la donna come soggetto subalterno rispetto alla figura maschile dominante, frutto di una cultura ancora profondamente patriarcale e sessista.

Per operare un cambiamento non bastano quindi le norme, né l’inasprimento delle sanzioni, né la creazione di nuove figure di reato, ma deve avvenire uno scarto culturale, che coinvolga l’intera società. Occorrono modelli nuovi che superino l’idea della donna-vittima bisognosa di tutela, incapace di autodeterminarsi, quale invece a nostro giudizio continua a permanere nell’impianto normativo messo a punto in questi ultimi anni per far fronte a quella che è stata definita come un’emergenza da affrontare quasi alla stregua di una questione di ordine pubblico. Come infatti possono cambiare le cose se ancora una volta si toglie alla donna il potere di decidere delegandolo ad altri? Come si può auspicare una dinamica libera e paritaria nelle relazioni sociali se si propone ancora una volta il modello repressivo come unico possibile per arginare il fenomeno del maschio violento, anche a discapito della soggettività della donna e dei minori, ormai considerati solo come oggetto di tutela?

Tanto la legge che ha introdotto nel nostro ordinamento la figura dello stalking quanto il cosiddetto decreto sul femminicidio, si muovono invece proprio in quest’ottica che non può produrre risultati sul piano pratico. Si tratta in entrambi i casi di provvedimenti adottati sull’onda emotiva, utilizzando lo strumento della decretazione d’urgenza, cosa che il legislatore penale non dovrebbe mai fare, allo scopo di rassicurare l’opinione pubblica attraverso misure “forti” anche se poco efficaci in concreto.

Nel febbraio del 2009 venne varato dal governo il decreto legge, n. 11 intitolato “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” convertito, con modificazioni, nella legge del 23 aprile 2009, n. 38, con cui è stato introdotto al titolo XII – delitti contro la persona – del codice penale, nella sezione III – dei delitti contro la libertà morale - l’articolo 612 bis il quale prevede che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni“.

La disciplina di tale nuova figura di reato è stata poi modificata in senso ulteriormente repressivo, con inasprimento delle pene, ancora con decreto, il n. 93 del 2013 convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119 contenente “Nuove norme per il contrasto della violenza di genere che hanno l'obiettivo di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime”, con il quale seguendo le indicazioni provenienti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa, fatta ad Istanbul l’11 maggio 2011, riguardante la lotta contro la violenza sulle donne e in ambito domestico, ratificata dal Parlamento, si mirava a rendere più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori.

In particolare, senza entrare in una disamina tecnica ed approfondita delle misure su cui si è già espressa la Corte Costituzionale ( e sicuramente sarà chiamata ancora a farlo), si è introdotta l’irrevocabilità della querela nel caso di stalking in presenza di gravi minacce, sono state individuate aggravanti e sanzioni più gravi nell’ipotesi in cui i delitti vengano commessi nei confronti del partner o di donna in stato di gravidanza, sono state innalzati i minimi edittali della pena allo scopo di mantenere la misura cautelare del carcere, si è previsto che in presenza di gravi indizi di colpevolezza di violenza sulle persone o minaccia grave e di serio pericolo di reiterazione di tali condotte con gravi rischi per le persone, il Pubblico Ministero – su informazione della polizia giudiziaria - possa richiedere al Giudice di irrogare un provvedimento inibitorio urgente, vietando all’indiziato la presenza nella casa familiare e di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa.

Addirittura tra le misure di prevenzione per condotte di violenza domestica si prevede che “Nei casi in cui alle forze dell'ordine sia segnalato, (( in forma non anonima )), un fatto che debba ritenersi riconducibile (( ai reati di cui agli articoli 581, nonche' 582, secondo comma, consumato o tentato, del codice penale, )) nell'ambito di violenza domestica, il questore, anche in assenza di querela, puo' procedere, assunte le informazioni necessarie da parte degli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, all'ammonimento dell'autore del fatto. Ai fini del presente articolo si intendono per violenza domestica (( uno o piu' atti, gravi ovvero non episodici, )) di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare (( o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, )) indipendentemente dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.”

È evidente che il legislatore abbia puntato unicamente sullo strumento repressivo anche come deterrente ai fini della prevenzione del fenomeno, tralasciando ogni altra forma di intervento che invece è assolutamente necessaria per determinare un mutamento sociale che possa sradicare alla base la violenza. Non si è tenuto conto che l’aumento delle pene non ha mai sortito risultati nel progresso di una civiltà ma viceversa sembra cristallizzare i rapporti di forza tra le parti, portando indietro il nostro sistema giudiziario, dando prevalenza a misure di polizia che mal si conciliano con principi di garanzia. Non si è valutato che non è togliendo alla donna vittima di violenza la possibilità di decidere che si combatte il fenomeno o la si tutela, ma occorre dare alla stessa gli strumenti ed i supporti logistici ed economici che le consentano una serena decisione.

La stessa terminologia adoperata, il ricorso all’espressione “femminicidio”, oltre alla problematica relativa alla sua individuazione perché non basta che venga uccisa una donna perché esso sussista, può essere fraintesa in quanto sottolinea la diseguaglianza di genere. Un discorso a parte poi andrebbe fatto sul delicato tema dell’introduzione dell’ ”educazione sentimentale” nelle scuole perché se è vero che si sente il bisogno di partire dalle nuove generazioni per costruire una nuova dinamica delle relazioni affettive, è anche vero che può rivelarsi estremamente pericoloso il proporre lo schema dicotomico maschio violento – donna debole, con buona pace delle lotte di liberazione degli ultimi quarant’anni.

* giuriste. Mila Grimaldi è coordinatrice della Commissione violenze domestiche dell'Osservatorio


per approfondire...

Dossier diritti

_____
NB: I CONTENUTI DEL SITO POSSONO ESSERE PRELEVATI
CITANDO L'AUTORE E LINKANDO
www.osservatoriosullalegalita.org

°
avviso legale