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25
novembre e violenza sulle donne: riflessioni a margine
di
Stella Arena e Mila Grimaldi*
Il 25 novembre ricorre la Giornata mondiale contro la violenza
sulle donne, fioccano le iniziative, i convegni, i flash mob,
le scarpe rosse nelle piazze a ricordare le vittime, ma la
realtà è che la triste contabilità delle donne che perdono
la vita o subiscono atti di violenza per mano degli uomini
non si arresta.
Sebbene
le statistiche proposte dalle associazioni che operano sul
campo vengano spesso contestate in quanto ricomprendenti anche
casi non ascrivibili al cosiddetto femminicidio, al di là
dei numeri quello che emerge è che la violenza sulle donne
è un fenomeno sociale allarmante per un paese dell’ ”occidente
civilizzato”, che si sente anni luce lontano dalle condizioni
di vita cui sono costrette ancora le donne in altri luoghi,
ed in cui l’uguaglianza tra i sessi e la parità di genere
sono tra i principi fondanti della Costituzione. Eppure sono
passati solo poco più di trent’anni dall’abolizione nel nostro
ordinamento penale del delitto d’onore e dell’istituto del
matrimonio riparatore, fattispecie di retaggio fascista e
rimaste in vigore ben oltre la riforma del diritto di famiglia
del 1975 che sanciva la parità tra i coniugi in linea con
il dettato costituzionale e con le istanze sociali del tempo.
Solo
la L.442 del 1981 infatti aboliva l’art.587 del Codice Rocco
che così recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge,
della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la
illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato
dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito
con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace
chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona
che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con
la figlia o con la sorella.(…)”.
L’offesa
all’onore era quindi fino al 1981 riconosciuta al punto da
legittimare la reazione violenta che tale offesa doveva lavare.
E sempre l’onore era alla base della previsione del matrimonio
riparatore che cancellando l’offesa cancellava lo stupro.
Non c’è da meravigliarsi quindi se ancora oggi nel nostro
paese resistano dinamiche di possesso all’interno della famiglia
e delle relazioni che vedono la donna come soggetto subalterno
rispetto alla figura maschile dominante, frutto di una cultura
ancora profondamente patriarcale e sessista.
Per
operare un cambiamento non bastano quindi le norme, né l’inasprimento
delle sanzioni, né la creazione di nuove figure di reato,
ma deve avvenire uno scarto culturale, che coinvolga l’intera
società. Occorrono modelli nuovi che superino l’idea della
donna-vittima bisognosa di tutela, incapace di autodeterminarsi,
quale invece a nostro giudizio continua a permanere nell’impianto
normativo messo a punto in questi ultimi anni per far fronte
a quella che è stata definita come un’emergenza da affrontare
quasi alla stregua di una questione di ordine pubblico. Come
infatti possono cambiare le cose se ancora una volta si toglie
alla donna il potere di decidere delegandolo ad altri? Come
si può auspicare una dinamica libera e paritaria nelle relazioni
sociali se si propone ancora una volta il modello repressivo
come unico possibile per arginare il fenomeno del maschio
violento, anche a discapito della soggettività della donna
e dei minori, ormai considerati solo come oggetto di tutela?
Tanto
la legge che ha introdotto nel nostro ordinamento la figura
dello stalking quanto il cosiddetto decreto sul femminicidio,
si muovono invece proprio in quest’ottica che non può produrre
risultati sul piano pratico. Si tratta in entrambi i casi
di provvedimenti adottati sull’onda emotiva, utilizzando lo
strumento della decretazione d’urgenza, cosa che il legislatore
penale non dovrebbe mai fare, allo scopo di rassicurare l’opinione
pubblica attraverso misure “forti” anche se poco efficaci
in concreto.
Nel
febbraio del 2009 venne varato dal governo il decreto legge,
n. 11 intitolato “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica
e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti
persecutori” convertito, con modificazioni, nella legge del
23 aprile 2009, n. 38, con cui è stato introdotto al titolo
XII – delitti contro la persona – del codice penale, nella
sezione III – dei delitti contro la libertà morale - l’articolo
612 bis il quale prevede che “Salvo che il fatto costituisca
più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo,
minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un
grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato
timore per la sicurezza personale propria o di una persona
vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il
suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa,
con la reclusione da sei mesi a quattro anni“.
La disciplina di tale nuova figura di reato è stata poi modificata
in senso ulteriormente repressivo, con inasprimento delle
pene, ancora con decreto, il n. 93 del 2013 convertito in
Legge 15 ottobre 2013, n. 119 contenente “Nuove norme per
il contrasto della violenza di genere che hanno l'obiettivo
di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime”,
con il quale seguendo le indicazioni provenienti dalla Convenzione
del Consiglio d’Europa, fatta ad Istanbul l’11 maggio 2011,
riguardante la lotta contro la violenza sulle donne e in ambito
domestico, ratificata dal Parlamento, si mirava a rendere
più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni
di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti
persecutori.
In particolare, senza entrare in una disamina tecnica ed approfondita
delle misure su cui si è già espressa la Corte Costituzionale
( e sicuramente sarà chiamata ancora a farlo), si è introdotta
l’irrevocabilità della querela nel caso di stalking in presenza
di gravi minacce, sono state individuate aggravanti e sanzioni
più gravi nell’ipotesi in cui i delitti vengano commessi nei
confronti del partner o di donna in stato di gravidanza, sono
state innalzati i minimi edittali della pena allo scopo di
mantenere la misura cautelare del carcere, si è previsto che
in presenza di gravi indizi di colpevolezza di violenza sulle
persone o minaccia grave e di serio pericolo di reiterazione
di tali condotte con gravi rischi per le persone, il Pubblico
Ministero – su informazione della polizia giudiziaria - possa
richiedere al Giudice di irrogare un provvedimento inibitorio
urgente, vietando all’indiziato la presenza nella casa familiare
e di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla
persona offesa.
Addirittura tra le misure di prevenzione per condotte di violenza
domestica si prevede che “Nei casi in cui alle forze dell'ordine
sia segnalato, (( in forma non anonima )), un fatto che debba
ritenersi riconducibile (( ai reati di cui agli articoli 581,
nonche' 582, secondo comma, consumato o tentato, del codice
penale, )) nell'ambito di violenza domestica, il questore,
anche in assenza di querela, puo' procedere, assunte le informazioni
necessarie da parte degli organi investigativi e sentite le
persone informate dei fatti, all'ammonimento dell'autore del
fatto. Ai fini del presente articolo si intendono per violenza
domestica (( uno o piu' atti, gravi ovvero non episodici,
)) di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che
si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare
(( o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo
di matrimonio o da una relazione affettiva, )) indipendentemente
dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso
la stessa residenza con la vittima.”
È
evidente che il legislatore abbia puntato unicamente sullo
strumento repressivo anche come deterrente ai fini della prevenzione
del fenomeno, tralasciando ogni altra forma di intervento
che invece è assolutamente necessaria per determinare un mutamento
sociale che possa sradicare alla base la violenza. Non si
è tenuto conto che l’aumento delle pene non ha mai sortito
risultati nel progresso di una civiltà ma viceversa sembra
cristallizzare i rapporti di forza tra le parti, portando
indietro il nostro sistema giudiziario, dando prevalenza a
misure di polizia che mal si conciliano con principi di garanzia.
Non si è valutato che non è togliendo alla donna vittima di
violenza la possibilità di decidere che si combatte il fenomeno
o la si tutela, ma occorre dare alla stessa gli strumenti
ed i supporti logistici ed economici che le consentano una
serena decisione.
La
stessa terminologia adoperata, il ricorso all’espressione
“femminicidio”, oltre alla problematica relativa alla sua
individuazione perché non basta che venga uccisa una donna
perché esso sussista, può essere fraintesa in quanto sottolinea
la diseguaglianza di genere. Un discorso a parte poi andrebbe
fatto sul delicato tema dell’introduzione dell’ ”educazione
sentimentale” nelle scuole perché se è vero che si sente il
bisogno di partire dalle nuove generazioni per costruire una
nuova dinamica delle relazioni affettive, è anche vero che
può rivelarsi estremamente pericoloso il proporre lo schema
dicotomico maschio violento – donna debole, con buona pace
delle lotte di liberazione degli ultimi quarant’anni.
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giuriste. Mila Grimaldi è coordinatrice della Commissione
violenze domestiche dell'Osservatorio
Dossier
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