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Reyhaneh
Jabbari : violenza di Stato
di
Vincenzo Andraous*
Una donna è stata costretta a salire sul patibolo. Lei, come
ultimo sberleffo a quel potere miserabile che la stava ammazzando,
s'è messa a ballare con il cappio al collo. Una danza
senza musica, senza rumore, senza parole, un dondolio assordante
fino all'ultimo rantolo, nell'estremo tentativo di mantenere
intatta la propria dignità, rimettendo al popolo dei giusti,
peraltro assenti, quella condanna di un potere religioso,
giuridico, politico, al di fuori di qualsiasi norma, legge,
comando di Dio, sempre che Dio da quelle parti esista ancora
o non gli sia gia' stata tagliata la gola.
Un
uomo tenta di stuprare la donna, che si difende disperatamente,
riesce a sottrarsi dall'attacco di quel violento, per giunta
funzionario dei servizi di Stato. Cosa fa la legge di quello
Stato? La mette in galera, la tortura, la condanna a morte,
infine la ricatta: se abiuri, se ritratti, se confessi di
averlo ucciso per tuoi interessi, non perché ti stava violentando,
ti verrà evitata la morte. Quello stato che fonda le sue radici
sulla fede che professa, inciampa rovinosamente sulle proprie
contraddizioni, una piccola donna, non accettando lo scambio
né la maschera di Dio offeso e umiliato, diventa una vera
martire. Lei sì una vera martire.
Fede,
politica, giustizia, quando le dosi sono altamente squilibrate,
formano un materiale ad alto potenziale, circondano un paese
con il filo spinato, le ideologie rendono patetiche le preghiere,
ingannevoli le lodi, che diventano minaccia e violenza, infine
è forca nei riguardi di un popolo sottomesso. Eppure Dio non
è uno straniero, è vivo sulla carta, sui libri, nelle parole
di ciascuno, Dio non è lontano, è prossimo, non è possibile
barare così malamente per chi crede Dio, quel Dio così ben
pronunciato dall'alto e in basso di quella corda tesa, di
quel legno a ospitarne nuovamente il corpo. Non sarà mai una
norma imposta dallo scranno più alto a travestire Dio, a farne
un imbroglione e poi un assassino, fino a costringerlo di
spalle a una pratica quotidiana che invece è ben vergata nel
Vangelo come nel Corano, in qualsiasi libro che ne ospita
le orme.
C'è da chiedersi se anche questa morte sarà avvolta dai silenzi
che riempiranno di dobloni sonanti le stive dei galeoni in
ordinata attesa. Chissà se rimarranno i segni sparsi all'intorno
per educarci davvero alla promozione umana, all'unica forma
di socialità, di legalità, di giustizia possibili, perché
hanno residenza e cittadinanza nella responsabilità. La
vita ingiustamente rubata a Reyhaneh Jabbari ci obbliga a
non guardare da un'altra parte, a non fare finta di niente,
perché ciò non è assoluzione per alcuno, ma consapevolezza
che non è più sufficiente predicare il bene, è necessario
praticarlo quel bene che è comune, attraverso l'impegno di
tutti i giorni.
*
responsabile servizi interni della Casa del Giovane di Pavia
Dossier
pena di morte
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