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Il
minore conteso nei procedimenti di separazione : effetti psicologici
di
Marina Angela Visco*
Vorrei
iniziare il mio intervento prendendo spunto da un recente
episodio che ha fatto molto discutere, suscitando forti reazioni
sia da parte dell’opinione pubblica che in ambito istituzionale.
Penso siano ancora nella mente di tutti le immagini di quello
che è avvenuto davanti ad una scuola di Cittadella, in provincia
di Padova, dove un bambino è stato prelevato con la forza,
nonostante la sua strenua opposizione, per eseguire l’ordinanza
del Tribunale che stabiliva l’allontanamento dalla madre e
la sua collocazione in una comunità protetta, prima di essere
affidato al padre.
Al
di là di considerazioni rispetto allo specifico caso, la domanda
che si impone di fronte a un episodio del genere è come si
possa arrivare a un tale livello di tensione e violenza, dove
evidentemente la conflittualità non è agita solo dai genitori,
ma l’intero sistema sociale e giudiziario che vi ruota intorno
sembra prendervi parte attiva, in un agire che non lascia
spazio a una riflessione più attenta e profonda sui motivi
che portano a tanto malessere, ma anzi perpetuandolo ed amplificandolo.
L’immagine del bambino afferrato per le gambe e le braccia
dagli adulti, violentemente strattonato da una parte e dall’altra,
sembra rimandare a un’altra immagine, quella del giudizio
salomonico, dove l’unica soluzione possibile per soddisfare
le pretese di entrambi i contendenti-genitori è quella di
sottoporre il bambino ad una lacerazione mortale, facendolo
diventare vittima di una violenza inaudita ed ingiustificata.
Sappiamo come nell’episodio biblico il verdetto di Salomone
abbia permesso di salvare il bambino, rivelando allo stesso
tempo quale sua vera madre colei che è capace di rinunciare
al bambino come un oggetto da possedere. Nella realtà invece,
laddove la contesa tra i genitori appare insanabile, è purtroppo
il bambino ad essere irrimediabilmente lacerato nel suo mondo
interno, diviso tra due immagini genitoriali in continua lotta
e contrapposizione.
La
rottura del legame tra i genitori e la conflittualità tra
di loro vengono vissute dal bambino con profonde angosce,
timori di abbandono, confusione e disorientamento per l’assenza
di punti di riferimento chiari e rassicuranti. Questa condizione
di acuta sofferenza nel minore, foriera di possibili sviluppi
psicopatologici, non è specifica delle separazioni, ma si
ritrova anche in condizioni di non separazione, quando le
relazioni familiari sono altamente danneggiate e gli adulti
non sono in grado di gestire adeguatamente la crisi coniugale.
Sembra importante sottolineare come l’elemento potenzialmente
patogeno non sia dunque la separazione in sé, ma il tipo e
la qualità di relazione che, sempre esistita nella storia
di queste coppie, si sintetizza nel suo potenziale perverso
e distruttivo a separazione avvenuta (Montecchi, 1996).
La
conflittualità tra i coniugi infatti ha generalmente inizio
già prima della decisione della coppia di separarsi, e continua
di solito ben oltre la separazione, giungendo progressivamente
ad una escalation. In questo contesto, i figli si trovano
per lungo tempo a fare da spettatori di accuse ed aggressioni
reciproche, spesso incastrati all’interno di dinamiche affettive
fatte di ricatti e richieste di alleanze e collusioni, che
li spingono a prendere di volta in volta le parti di uno dei
due genitori sentendo di tradire l’altro. Il bambino di fronte
ad una rottura così drammatica del legame tra i suoi genitori
può provare senso di colpa, angosce di abbandono e vissuti
di impotenza, costretto a subire una situazione che lui non
ha voluto, e che spesso nemmeno si aspettava (pensiamo al
senso di impotenza che comunica il grido del bambino di Cittadella,
che si sente nel filmato “Aiutami zia…Come faccio?!”).
Se
la separazione dei propri genitori richiede un vero e proprio
processo di elaborazione del lutto, quello della perdita dei
legami affettivi e delle abitudini di vita in precedenza acquisite,
tale elaborazione appare un traguardo psichico irraggiungibile
per il bambino nella misura in cui sono gli stessi genitori
a non riuscire a elaborare il fallimento della propria relazione,
il loro “divorzio psichico” (Dell’Antonio, 1993), e perpetuano
patologicamente il legame alimentando la conflittualità. In
questa impossibilità a separarsi psichicamente dei genitori,
il minore della famiglia separata si trova così al centro
di dispute e rivendicazioni, occupando un ruolo particolare
in quanto rappresenta da un lato il simbolo dell’unione indissolubile
della coppia, dall’altro l’elemento scatenante del conflitto.
Il
figlio di fatto costituisce un oggetto conteso come “proprietà”
da acquisire da una parte o dall’altra, in un conflitto che
spesso chiama in causa anche le famiglie di origine dei rispettivi
coniugi ad esacerbare la tensione (Malagoli Togliatti, Lavadera,
2002).
Ciò
che spesso accade nella separazione è che i coniugi, vivendo
la fine del rapporto come una loro personale crisi in cui
prevalgono senso di inadeguatezza e bisogno di ritrovare all’esterno
conferme del proprio valore, finiscono per ricercare queste
conferme nell’affermazione del proprio ruolo genitoriale,
lottando per “accaparrarsi” l’amore dei propri figli. La conflittualità
che molto spesso accompagna le separazioni coniugali impedisce
ai genitori di cogliere e rispondere adeguatamente ai bisogni
affettivi dei propri figli, ignorandoli o distorcendoli in
funzione delle proprie personali esigenze.
Uno degli scenari che si può presentare in situazioni di alta
conflittualità è rappresentato dal tentativo da parte dei
genitori di manipolare, in maniera più o meno consapevole,
i figli allo scopo di ottenere il loro affidamento o comunque
di instaurare con loro un rapporto esclusivo,fino ad arrivare
ad impedire all’ex coniuge di esercitare la propria funzione
genitoriale. Questa
dinamica familiare viene da alcuni autori inquadrata, nei
suoi casi estremi, sotto il termine di “Sindrome da alienazione
genitoriale” (Gulotta, 1998), con tutti i pro ed i contro
che, a mio parere, un’etichetta diagnostica viene ad assumere.
Se essa ci permette di inquadrare un fenomeno, portando alla
nostra attenzione una delle possibili dinamiche messe in atto
nelle separazioni altamente problematiche, essa rischia allo
stesso tempo di essere applicata in modo forzato ed indiscriminato,
prestandosi essa stessa a manipolazioni.
Vediamo
meglio in cosa consisterebbe questa sindrome. Essa è stata
categorizzata formalmente da Richard Gardner (1985) come un
disturbo che insorge essenzialmente nel contesto di controversie
sulla custodia dei figli. Sono diversi i sintomi che presenterebbe
il bambino: in primo luogo la PAS si caratterizzerebbe per
una campagna di denigrazione espressa dal bambino contro uno
dei genitori, senza che essa abbia alcuna giustificazione
in reali comportamenti di trascuratezza, mancanza o violenza
da parte del genitore denigrato.
La PAS, secondo Gardner, sarebbe prodotta da una programmazione
dei figli da parte di un genitore patologico (definito genitore
alienante), un “indottrinamento” al quale il minore aderirebbe
(si parla al riguardo di un poco chiaro “contributo del minore”)
che porterebbe i figli a perdere il contatto con i propri
affetti e ad esibire un disprezzo ingiustificato nei confronti
dell’altro genitore (definito genitore alienato). Le tecniche
di programmazione tipicamente comprenderebbero l’uso di espressioni
denigratorie riferite all’altro genitore, false accuse di
trascuratezza, violenza o addirittura abuso, a cui il minore
aderirebbe, mostrando di allearsi con il genitore alienante
(per approfondimenti si può consultare Gulotta, 1998; Segura
et al. 2006; Giordano et al. 2006).
Si tratta di una sindrome la cui definizione è piuttosto controversa,
attualmente al centro di grandi polemiche per il suo utilizzo
semplicistico e indiscriminato, che non viene riconosciuta
come tale dalla maggior parte della comunità scientifica e
legale. Alcuni autori al riguardo preferiscono parlare di
“mobbing genitoriale” (Giordano, 2004) per indicare un quadro
fatto di continue e sottili pressioni psicologiche sul minore
da parte di uno dei due genitori, che arriva ad ostacolare
e compromettere il rapporto con l’altro genitore. Resta sempre
a mio parere da stigmatizzare un uso acritico dei concetti
diagnostici (e quindi anche della PAS) che si prestano a banalizzazioni
ed a un loro utilizzo strumentale, soprattutto in un campo
come quello giuridico in cui il bisogno di definizioni chiare
e rigorose facilmente presta il fianco a riduzionismi e fraintendimenti.
Va considerato, per esempio, come il genitore “alienato” possa
colludere, più o meno inconsciamente, con i tentativi di estraneazione
messi in campo dall’ex coniuge, per poi utilizzare le difficoltà
relazionali con il figlio come arma di ricatto, accusando
l’altro genitore di aver messo in campo un’azione di plagio
nei confronti del minore. E che dire poi di quelle “alienazioni
silenti” in cui uno dei due genitori scompare, defilandosi
progressivamente dalla vita del figlio? Questi casi possono
non arrivare in tribunale, dato che il conflitto non viene
apparentemente agito tra i coniugi, ma l’assenza di un genitore
non potrà che condizionare pesantemente anche in questo caso
la crescita del figlio.
Insomma, come tutte le definizioni diagnostiche, quella di
PAS poco o nulla ci dice delle dinamiche psichiche in gioco
in quello specifico contesto familiare. E, soprattutto, appare
come una etichetta ad uso e consumo degli adulti. Secondo
questa definizione, ad essere alienati sarebbero i genitori.
Ma cosa dire del bambino? Cosa accade nel suo mondo interno?
È a questo che bisognerebbe prestare davvero attenzione, soprattutto
nell’ottica di predisporre un intervento che lo possa aiutare.
Sotto la pressione di uno dei due genitori il bambino può
essere spinto a prendere parte attiva nello scontro, farcendo
affermazioni che assumeranno poi, in un contesto legale, la
forma concreta di relazioni in cui il minore parla positivamente
di un genitore e negativamente dell’altro. Il bambino per
sfuggire a una situazione di tensione e/o per avere garanzie
affettive finisce per allearsi con uno dei genitori, rifiutando
l’altro. Questa perdita viene però vissuta come un lutto,
causato da se stesso, che va ad accentuare i suoi sentimenti
di colpa e di abbandono; ciò accresce allo stesso tempo il
timore di essere abbandonato anche dall’altro genitore, generando
legami invischianti e impedendo ogni possibilità di separazione
psichica da esso.
È
importante sottolineare come in questi bambini venga sì distrutta
l’immagine di un genitore, quello screditato, ma anche l’immagine
del genitore scelto ne risulta immancabilmente danneggiata.
Come osserva Montecchi (2006), infatti, il bambino, spinto
ad esprimersi criticamente su di un genitore “non ne attacca
solo la figura reale, ma anche la corrispondente immagine
interna. L’altro genitore, tuttavia, nel suo potenziale danneggiante
il minore, non si rende conto che, quando il figlio si accorge
di essere solo usato, incrina la fiducia nei suoi confronti
e danneggia anche l’immagine interna che ha di lui, con un
vissuto di perdita per il danno che di fatto si realizza nelle
immagini intere di padre e madre”. Per il minore “non è possibile
crescere bene, avendo dentro se stesso l’immagine materna
o paterna svalutata, disprezzata, eliminata o negata” (ibid.).
Il rischio quindi è che il bambino “alieni se stesso”, cioè
arrivi a negare vissuti, sentimenti, parti di sé che gli divengono
del tutto estranei, non trovando un adeguato spazio di comprensione
e accoglimento nel suo contesto affettivo.
Talvolta
però l’atteggiamento di rifiuto nei confronti della madre
o del padre può esprimere non tanto il desiderio di allontanare
un genitore non voluto o temuto come effetto di un “plagio”,
quanto piuttosto il bisogno di non essere abbandonato dall’altro
genitore, sentito come più rassicurante. Può accadere per
esempio che, nella situazione di grande disorientamento in
cui si trova, il bambino possa avvicinarsi maggiormente al
genitore più protettivo, che lo costringe in un rapporto di
dipendenza infantile e di indifferenziazione (Dell’Antonio,
1993).
Insomma, se il concetto di alienazione può essere utile per
capire in primo luogo quelle che possono essere le conseguenze
psichiche sul minore di una separazione “non riuscita”, l’attenzione
deve essere posta alla complessità dei processi in gioco,
perché soprattutto quando si ha a che fare con i minori non
sono permesse semplificazioni. Il prezzo da pagare infatti
è la perdita di elementi fondanti il processo di strutturazione
psichica del soggetto in via di sviluppo, aggravando la condizione
di sofferenza in cui il minore già si trova, contribuendo
a creare le condizioni per lo sviluppo di una psicopatologia
in età adulta.
Sempre
nell’ottica della complessità, è importante evidenziare come
non siano solo i coniugi ad agire il conflitto, ma in esso
sembrano assumere una parte attiva e determinante le diverse
figure istituzionali coinvolte nel momento in cui il processo
di separazione prende il suo corso. Come osservano Segura
et al. (2006) il sistema legale può determinare una vera e
propria “Sindrome giuridica familiare”, in cui avvocati,
giudici, periti e altri professionisti coinvolti assumono
una responsabilità sul consolidamento di una condizione di
alienazione genitoriale. Il rifiuto dei figli assume un significato
fortemente rilevante se espresso in tribunale, dal momento
che si scatenano a partire da ciò accuse, tentativi di dare
spiegazione ed azioni varie intraprese nell’istanza giudiziaria
allo scopo di risolvere il problema. “Il
sistema giudiziario per il ruolo che occupa per mantenere
ed incrementare la PAS potrebbe essere inserito nel contesto
dell’abuso istituzionale” (ibid.).
In questo contesto, non pochi sono i rischi che un “indottrinamento”del
minore (per riprendere una delle terminologie utilizzate nella
citata sindrome da alienazione parentale) venga messo in atto
da chi invece si dovrebbe occupare, sul piano legale ed istituzionale,
di ristabilire un equilibrio, svolgendo una funzione di mediazione
ed attivando le risorse necessarie per un recupero di un ruolo
genitoriale da parte di entrambi i coniugi. L’iter giudiziario
anziché dirimere le controversie tra i coniugi sembra in molti
casi contribuire ad esacerbare le problematiche, colludendo
con le tendenze della coppia a relazionarsi in termini di
estremi contrapposti: giusto/ingiusto, vincitore/vinto, vittima/carnefice.
A
questo proposito appare rilevante anche il ruolo degli avvocati,
che spesso inaspriscono il conflitto innescando una escalation
simmetrica che va al di là delle intenzioni dei loro stessi
clienti.
Sarebbero
molte altre le considerazioni da fare sui diversi livelli
in cui l’iter giudiziario può colludere con la conflittualità
della coppia, che finisce per utilizzare il contesto legale
come ulteriore ambito in cui esprimere il suo potenziale perverso
e distruttivo. I genitori, schierati in opposte fazioni, preferiscono
illudersi di fare il bene del figlio attraverso la soddisfazione
della loro vittoria, piuttosto che provare “a guardarsi dentro
e a chiedersi cosa è sotteso a certe ostinate iniziative intraprese
in nome del bene dei figli”(Montecchi, 1996). Si tratta però
in questi casi di una occasione mancata da parte del sistema
giudiziario, che rappresenta un elemento “terzo”, regolatore,
e che in quanto tale potrebbe efficacemente aiutare queste
coppie a distinguere la dimensione coniugale da quella genitoriale,
recuperando il proprio ruolo di madre e di padre. In molte
coppie “simbiotiche”, che non riescono a separarsi psichicamente,
il ricorso alla legge può rappresentare sì una ulteriore arma
di ricatto e manipolazione, ma può anche esprimere la richiesta
di trovare un punto di riferimento saldo, di ricorrere a figure
che sappiano stabilire dei limiti ed assumersi delle responsabilità
laddove essi stessi non sembrano riuscirvi.
“C’è qualcuno che si assume la responsabilità di capire cosa
sta succedendo davvero? Se non il giudice, il CTU, chi?” mi
ha detto una volta, nel corso del procedimento giudiziario
per l’affidamento del figlio, un padre giunto al colmo dell’esasperazione.
Se i giudici, i tribunali e le varie figure istituzionali
che vi ruotano intorno sono troppo spesso chiamati a sostituirsi
ai genitori in questo compito, essi stessi devono essere genitori
responsabili. E ciò significa in primo luogo avere nella mente
il bambino, senza confondere le sue esigenze con quelle degli
adulti a vari livelli implicati.
BIBLIOGRAFIA
Dell’Antonio
A. (1993), Il bambino conteso. Il disagio infantile nella
conflittualità dei genitori separati, Giuffrè Editore, Milano,
1993
Gardner R.A. (1985), Recent trends in divorce and custody
litigation. The Academy Forum, 29 (2):3-7
Giordano G. (2004).
Conflittualità nella separazione coniugale: il “mobbing” genitoriale,
Psychomedia Telematic Review, 20 luglio 2004
Giordano G., Patrocchi R., Dimitri G. (2006), La sindrome
di alienazione genitoriale. Psychomedia Telematic Review,
25 luglio 2006
Gulotta G. (1998), La sindrome di alienazione genitoriale:
definizione e descrizione. Pianeta Infanzia, Questioni e documenti,
n.4, Istituto degli Innocenti, Firenze
Malagoli Togliatti M., Lavadera A.L., (2002), Dinamiche relazionali
e ciclo di vita della famiglia. Il Mulino, Bologna
Montecchi F.(1996), Bambini a rischio nelle separazioni conflittuali:
l’abuso sul minore. Psychomedia Telematic Review, 4 settembre
2000
Segura et al. (2006). La sindrome da alienazione genitoriale:
una forma di maltrattamento infantile. Psychomedia Telematic
Review, 19 maggio 2011
*
componente del Comitato Tecnico-giuridico dell'Osservatorio,
intervento tenuto al convegno "I bambini prime vittime",
svoltosi a Cosenza il 24 novembre 2012
 
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bambini prime vittime
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