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Non
auguro questo carcere
di
Vincenzo Andraous*
In
questi giorni sento dichiarazioni importanti da parte di uomini
autorevoli, leggo lettere drammatiche scritte da persone detenute,
che fino a ieri erano riferimenti certi per l’intero paese.
Uomini di comando e di strategia politica incappano negli
errori propri, nelle malefatte agite alle spalle, nei ripieghi
del denaro che non fa prigionieri, scivolano dentro una cella
dove rasentano la follia di una giustizia in solitudine, una
legalità presa per il bavero, una equità che veste i panni
del clown.
Terribile
e disperato l’urlo che si alza da quelle righe scritte in
affanno, che ora fanno i conti con ciò che in carcere accade,
ma che pure ieri era all’ordine del giorno, senza morso allo
stomaco, senza un moto di consapevole disgusto civico. Qualcuno
si sente in diritto di ridere e gioire del dramma di un onorevole
caduto in disgrazia, invece è un liscio e busso che non assolve
alcuno, che non fa scomparire la carenza di spazi, di materiali
didattici e di mezzi, di attività trattamentali degne di questo
nome, la disperante necessità di impiegare la volontà umana
per riuscire diversamente dal passato.
Il
carcere è materia estremamente sdrucciolevole, addirittura
ingannevole, ma quale pena, quale percorso occorre consegnare,
quale significato, quale insegnamento fare scaturire da una
carcerazione che riguarda tutti, vittime e carnefici, innocenti
e colpevoli, perseguitati e furbi di vecchio e nuovo conio.
E’ forse sufficiente buttarla nel ridicolo, costruendo abbellimenti
dialettici, nelle parole di qualche ex potente finito in galera,
che riconosce la barbarie penitenziaria italiana, le tumefazioni
alla dignità di ciascuno, ben sapendo che quando la dignità
è trucidata, la stessa umanità scompare, non resta che l’indifferenza
a fare da sepolcro.
Non è limitativo ovviare a questa illegalità istituzionale,
a questa ingiustizia statuale, attraverso la domanda fatidica:
ma tu dov’eri quando urlavamo di una prigione irrappresentabile
almeno quanto il reato commesso. Tu dov’eri quando altri parlamentari
girovagavano per le prigioni della penisola, denunciando lo
stato di abbandono, di violenza, la disperazione dei restanti
neuroni ingabbiati tra le sinapsi del cervello, oramai in
balia della follia? Ti sei mai chiesto quanti suicidi quest’anno
hanno sancito l’edema della violenza dentro un carcere, quanta
morte quest’anno ha alimentato l’illiceità di un girone dantesco
camuffato da percorso di riparazione e riconciliazione?
Della vera emergenza interpretata male, in questo recinto
chiuso per il mantenimento dell’ordine e la sicurezza, ma
irriguardoso e soprattutto antitetico a quel rispetto richiesto
e auspicato per ogni persona umana, libera o detenuta che
sia. Un carcere popolato di diseredati da ogni possibile eredità
valoriale, del valore insito in ogni cittadino, dove ora “fanno
vasche” pure gli uomini di vertice, eppure quante volte si
è consigliata maggiore prudenza e attenzione, perchè in carcere
potrebbe finirci chiunque, perfino chi oggi si sente impunito
per vocazione e chi invece innocente lo è per davvero.
Chissà
se almeno adesso le parole pronunciate da un grande Direttore
di prigione: “il carcere dovrebbe arretrare nella sua voglia
di dominare, controllare, punire, e mettere al centro della
propria filosofia di vita la persona, diventando un’istituzione
di servizio”, saranno ben di più del solito scatto in
piedi, finalmente materia importante per un preciso interesse
collettivo.
*
tutor
nella Casa del Giovane di Pavia
 
Speciale
diritti
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