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Detenuti
e diritto alle relazioni affettive , anche con il proprio
cane
di
Annalisa Gasparre*
Il
cane del detenuto è “soggetto” che dà e riceve affetto. Attribuendogli
la soggettività di membro della famiglia, nella cui relazione
con il detenuto deve essere dedicata particolare attenzione
da parte (art. 28 Legge 354/75), il Magistrato di Sorveglianza
di Vercelli ha rimosso l’ostacolo “di specie” alle valutazioni
che, nel procedimento amministrativo di autorizzazione, il
Direttore dell’Istituto di pena dovrà compiere.
Rimuove l’ostacolo all’interpretazione letterale dell’art.
18 O.P. e dell’art. 37 DPR 230/2000, il Giudice affermando
che, seppure le norme sembrano limitare i colloqui dei detenuti
solo alle “persone”, anche se diverse dai prossimi congiunti,
la disciplina va tuttavia integrata alla luce degli altri
principi generali dell’ordinamento penitenziario e, in particolare,
facendo riferimento all’art. 28 O.P. il quale prevede che
“una particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o
ristabilire le relazioni dei detenuti con le famiglie”.
Il
concetto di famiglia è evidentemente sottoposto ai mutamenti
socio-culturali e, in un ambito non strettamente civilistico-successorio
non può certo essere limitato al concetto di “prossimi congiunti”,
come la normativa civilistica specifica allorquando intende
definire compiutamente e tassativamente diritti e doveri dei
“componenti della famiglia”; invero, non si rintracciano definizioni
nell’ordinamento, se non quella – esemplificativa, non esaustiva
e comunque non descritta mediante requisiti specifici – di
(una) formazione sociale naturale fondata sul matrimonio (art.
29 Cost.).
I
fatti evidenziati con il reclamo al Magistrato di Sorveglianza
denotavano un importante legame affettivo tra il detenuto
e il cane, tale da dover essere considerato ai fini della
decisione per l’autorizzazione ai colloqui con il cane all’interno
del carcere, come richiesto dal detenuto. Nella parte motiva
del decreto, il Magistrato utilizza i principi generali dell’ordinamento
giuridico, tra i quali vi è anche la tutela degli animali
d’affezione, rispetto ai quali lo Stato promuove e disciplina
la tutela, condanna gli atti di crudeltà, i maltrattamenti,
l’abbandono, al fine di favorire la convivenza tra uomo e
animale (Legge 281/91).
Il
legame affettivo nei confronti dell’animale domestico è poi
considerato meritevole di attenzione, alla luce del generale
principio del favor familiae cui si ispirano numerose norme
costituzionali (artt. 29-31 Cost.) e che, per il Magistrato
di Vercelli, prescinde dalla specie nei confronti del quale
i sentimenti sono rivolti, contando il fatto che il sentimento
sussiste in fatto ed è tutelato in diritto. D’altra parte
il favor familiae di cui al combinato disposto degli artt.
18 comma 3 e 28 O.P. è rivolto allo “scopo di consentire al
detenuto di coltivare e mantenere i valori affettivi più significativi
e di circoscrivere – per quanto più possibile – le ripercussioni
negative sulla persona derivanti dalla detenzione” (Magistrato
di Sorveglianza Vercelli, decreto 24/10/2006 – Est. Del Piccolo).
Nessuno meglio del diretto interessato può dunque esprimere
quali siano – per lui – i valori affettivi maggiormente significativi,
neppure se privato della libertà. La libertà di indicare chi
rappresenti il destinatario del proprio affetto non deve essergli
preclusa, né per un principio di umanità della pena, né sulla
base di un’irragionevole e sterile interpretazione letterale
della norma. Un unico altro precedente noto, è quello del
carcere di Palermo, dove il Sostituto Procuratore concedeva
all’indagato detenuto un “colloquio” con il cane dello stesso:
l’animale si stava lasciando morire.
Secondo il magistrato “La pena non deve essere inutilmente
afflittiva, anche per i familiari del detenuto. E perché no,
pure per quell’animale che è affezionato al suo padrone e
si sta lasciando morire” (fonte ADNKRONOS 24/12/2005).
*
esperta di diritto penale e procedura penale,
membro del Comitato tecnico-giuridico dell'Osservatorio
 
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