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Esistono
le guerre giuste ?
di
Giuseppe Casarrubea*
Con il libro “Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei
conflitti e l’America dal Vietnam all’Afghanistan”, uscito
per i tipi di Mimesis Eterotopie, Carlo Ruta pone una questione
centrale nell’era della globalizzazione. Non riguarda, in
astratto, i conflitti e la loro natura, le questioni più o
meno plausibili che essi sollevano, ma l’analisi critica della
teoria di Michael Walzer in una sua opera ormai classica,
“Guerra giusta e ingiusta”. Una lettura critica da parte di
un intellettuale americano che ha come campo di osservazione
l’istituzionalizzazione delle logiche di dominio di un Paese
democratico come l’America.
La questione iniziale che Ruta affronta, prende lo spunto
dalla necessità di sapere se la dottrina del filosofo politico
“sia stata in grado di intercettare, dopo il Vietnam, le istanze
dell’America ufficiale”. Ma non solo di questo si tratta.
Traspare, già dal titolo, una contestazione di fondo che ha
radici umanistiche e legalitarie lontane nel tempo. L’uomo
si è, infatti , sempre interrogato sulle ragioni della guerra
e, nel corso della sua storia si è dato risposte sempre compatibili
con il suo bisogno di dominio. Alla domanda se sia giusta
una guerra, risponde di sì se ciò gli serve. E’ sempre stato
così dall’epoca delle caverne alla recente presa di posizione
dei paesi occidentali sulla Libia.
Dunque
queste prese di posizione evidenziano le varie legittimazioni
che della guerra si sono avute nel corso della storia e il
dato di fondo che ci possano essere guerre “giuste” laddove
la causa che le promuove abbia una sua ragion d’essere nella
fede, nella difesa dei modelli di civiltà. Insomma nell’eterna
storia paranoica del male contro il bene e nel diritto a ricorrere
alle armi in via preventiva, pur di non soccombere. Ragioni
di ordine sottilmente psicologico che hanno fatto le vicende
umane dall’epoca dei patriarchi del Vecchio testamento, dai
padri della Chiesa ai nostri giorni. Costantino vinse le sue
guerre nel segno della Croce e l’Europa conquistò il Nuovo
mondo allo stesso modo commettendo atroci stermini. Stando
alle stesse logiche, già alla fine della seconda guerra mondiale,
gli Usa hanno avviato un allargamento del loro orizzonte politico,
imponendolo a modelli di cultura diversi, utilizzando parametri
ideologici. La guerra è stata soprattuto uno scontro della
democrazia contro i modelli di dittatura comunista.
Il
caso del Vietnam è solo un punto di partenza nell’analisi
di Walzer, preso in esame da Ruta. Divergente rispetto al
comune sentire dell’opinione pubblica che avverte la guerra
come “una caduta morale” e comincia a parlare di “guerra sporca”.
Scrive il nostro autore: “Walzer argomenta che la guerra giusta
è possibile a determinate condizioni e che la convenzione
bellica, lungi dall’essere un inutile orpello, può costituire
un espediente razionale per imbrigliare i conflitti fra Stati,
allo scopo di ricondurli il più possibile a una dimensione
morale”. E’ un tema, questo, che sollecita diversi altri filoni
di lettura. Ad esempio quella dei pacifisti, per i quali la
guerra è sempre un crimine. Nel caso della “teoria dell’aggressione”,
però, il filosofo americano afferma che gli Stati, di fronte
a una guerra di aggressione “godono di due diritti fondamentali:
l’integrità territoriale e la sovranità politica”. Spiega
così che “l’aggressione giustifica tanto una guerra di autodifesa
quanto una guerra di rivendicazione del diritto violato”.
E’ il caso della guerra del Terzo Reich nazista, dell’aggressione
americana in Vietnam, o dell’occupazione dell’Afghanistan
da parte dell’Armata rossa di Breznev.
In
generale, scrive Ruta, gli Stati nella storia hanno sempre
potuto giustificare le proprie aggressioni sostenendo i propri
diritti e giustificando la guerra con i torti degli altri,
fino all’accettazione dell’attacco preventivo, necessario
a eliminare la minaccia dell’aggressione. Materia, questa,
che trova le sue prime argomentazioni teoriche nella diffusa
cultura del giusnaturalismo di epoca secentesca (Ugo Grozio)
prima ancora che l’illuminismo desse nuove basi alla nozione
del diritto internazionale. Un vero e proprio prodotto delle
società borghesi in ascesa e alla ricerca dei propri fondamenti
ideologici e cultuali capaci di rispondere alle situazioni
imposte dalla storia contemporanea. E’ il caso di ciò che
scrive Walzer a proposito della guerra scatenata da Israele
contro i Paesi arabi confinanti, o della dichiarazione di
guerra da parte degli Usa contro l’Iraq di Saddam Hussein
(2003). A questa data si arriva attraverso un lungo percorso
che porta gli Usa di John F. Kennedy a sostenere lo stesso
principio dell’attacco preventivo a proposito del conflitto
con l’Urss per la questione dei missili atomici a Cuba, alla
guerra nel Vietnam, fino ad arrivare all’attacco della Nato
nel Kossovo e, nel 2001, all’ Afghanistan.
L’analisi
di Ruta è scrupolosa e certosina, probabilmente sollecitata
da ragioni umanitarie e dai disastri che si aprono continuamente
nel mondo a causa dello scarso potere di dialogo tra i popoli
e spesso per l’insufficienza o i ritardi di intervento delle
stesse Nazioni unite di fronte a conflitti imprevisti, o cronicizzati.
Essa prende in esame una sorta di manuale dei profili giuridici
della guerra, smontandone le ragioni più dottrinarie finalizzate
a legittimarla laddove questa è sempre un male estremo e irreparabile.
In questo senso trova una sua esatta giustificazione l’azione
di guerriglia come “risposta necessaria alle logiche della
guerra convenzionale più che alla tradizione della “guerra
giusta”. Pur nella sua semplicità, Ruta, insomma, ci dà una
riflessione complessa e attuale, specialmente in un tempo,
come quello che abbiamo davanti, in cui rivoluzioni e sconvolgimenti
vari pongono al centro la questione non solo della legittimità
della guerra tra di Stati, ma anche quella delle guerre intestine
che stanno travagliando il mondo. Ad esempio quello arabo.
Tema, questo, che l’esame storico ci aiuta a meglio definire,
se si pensa al terrorismo algerino contro la dominazione francese,
ai vari Fronti di Liberazione nazionale che esistono nel mondo,
a cominciare dalla lotta palestinese per la propria terra,
dalla guerra di liberazione cubana, condotta da Fidel Castro
e Che Guevara contro la dittatura di Batista.
Secondo
Walzer le “risposte militari” (ad esempio quelle di Truman
contro i giapponesi a Hiroshima e Nagasaki), “furono inopportune
e terroristiche, computabili quindi come crimini”, in assenza
di una assoluta necessità a fare uso delle bombe atomiche.
“Le ragioni di Walzer nell’argomentare in negativo – scrive
Ruta- si possono ben comprendere. Dovrebbero essere resi ammissibili,
se non legittimi, atti militari che ripugnano alla coscienza,
laddove siano derivanti da uno stato di necessità”. Anche
nel mutato quadro globale la dottrina di Walzer resta coerente
con se stessa. Anzi. Scrive l’autore del libro: “Nella mutata
situazione geopolitica, la dottrina di Walzer fa scuola del
resto ben oltre i confini dell’establishment. […] Norberto
Bobbio giustifica la guerra all’Iraq del 1991, ritenendola
una articolazione della legittima difesa del Kuwait, e, seppure
con dei distinguo, quella portata dalla Nato alla Serbia di
Milosevic a fine decennio. In definitiva è giusta per il filosofo
torinese la guerra che viene combattuta in difesa di valori
umani universali, che sia finalizzata comunque a una pace
positiva retta sulla giustizia”.
Dal
canto suo, Jürgen Habermas, fatto proprio il medesimo paradigma,
sostiene che la democrazia in determinate emergenze si possa
imporre coattivamente. Suggerisce quindi la formazione di
forze armate neutrali di pronto intervento, una sorta di polizia
internazionale, capace di valutazioni imparziali e misurate.”
Necessità, questa, dettata dall’insorgenza del terrorismo
internazionale, dopo l’attentato alle Torri gemelle, l’11
settembre 2001. Anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite autorizza attacchi preventivi, quando ciò si rende necessario.
Ma sono gli Usa, soprattutto, a modulare una cultura bellicista
i cui riflessi sono visibili nei nuovi linguaggi messi in
campo dalla diplomazia internazionale. Se una guerra è giusta
sono anche accettabili gli “effetti collaterali” che comportano
stragi di civili, le azioni di presidio delle aree di guerra
diventano “missioni umanitarie”, e le “rappresaglie” le risposte
immediate ad atti terroristici.
Il
fine della guerra giusta, differente, nota Ruta, a livello
di popolazioni coinvolte e di politiche statali, diventa comunque
una sorta di dovere etico giustificato, per le masse popolari,
dal consenso verso una visione morale della guerra, nonché
dalla valutazione del “non essere morti invano”, ma per una
causa che consegna ai posteri un qualche beneficio. Le logiche
aggressive della guerra inducono così a trattare l’intervento
militare sotto ben altri profili. Come quando – rileva Ruta
– gli Usa, tra il 1950 e il 1953 intervennero contro la Corea
del Nord, ponendosi come obiettivo “la totale distruzione
del regime nord-coreano. La dottrina della guerra giusta è
esposta da Walzer in Wars dove si pongono le condizioni per
l’attacco bellico preventivo. Fatto che si può scatenare con
la messa in atto del “primo colpo” a fronte di attività concrete
da parte del nemico quali la mobilitazione delle truppe, le
alleanze militari, le incursioni, ecc. Giustificazioni che
il sociologo americano trae dalla guerra dei sei giorni condotta
da Israele.
Da
qui Walzer esorbita dalla casistica storica. E giunge a un
punto inequivocabile costituito da un limite proprio del “giocare
d’anticipo per scompigliare le carte” del nemico. E’ il caso,
ad esempio, dell’attacco preventivo e unilaterale mosso, però,
da “una serie di artifici dall’amministrazione Bush”. Scrive
l’autore: “Era stato detto che, per la tutela degli interessi
americani, era necessario scoprire e distruggere l’arsenale
chimico del regime iracheno, risultato in realtà inesistente.
A tale fase, che echeggia l’utilitarismo classico, è seguita
tuttavia quella di un più mirato tornaconto, in chiave affaristica,
testimoniata dalle trattative, largamente pubbliche, che hanno
avuto luogo per la divisione del bottino della ricostruzione.
La terza fase, che ammicca appunto al silenzio della morale,
è quella degli abusi nella caserma di Abu Ghraib, dei turisti
che ricercano emozioni nei luoghi del conflitto, dei magnati
statunitensi e di altre nazioni che si fanno fotografare in
posa da safari, attorniati da mercenari e bodyguards”.
Da qui la domanda che percorre tutto il libro di Ruta: è ammissibile
una guerra giusta? Quella, insomma che Walzer definisce nei
limiti dell’”estrema ratio”? La risposta è il dubbio. O meglio
la soggettività della coscienza di chi è preposto ad intervenire.
Ma
la risposta più saggia è una sola: le guerre sono sempre ingiuste.
E per un fatto semplicissimo: sono il risultato dell’incapacità
degli uomini a risolvere a monte i problemi posti dai conflitti.
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