Osservatorio sulla legalita' e sui diritti
Osservatorio sulla legalita' onlusscopi, attivita', referenti, i comitati, il presidenteinvia domande, interventi, suggerimentihome osservatorio onlusnews settimanale gratuitaprima pagina
15 settembre 2010
tutti gli speciali

Etica e famiglia
di Rita Guma*

Sul tema etica e famiglia molto si potrrebbe dire. Mi sembra giusto soffermarmi su tre punti importanti.

Il primo riguarda la famiglia come luogo di coltivazione dei valori e di trasmissione di valori. Si e' parlato del ruolo della famiglia per costruire la legalita', ma la domanda e': la famiglia e' in grado oggi di trasmettere valori, di insegnare la legalita'? Il fatto e' che una volta la societa', la scuola, la televisione, la politica insegnavano gli stessi valori della famiglia, mentre oggi la societa' e la televisione propongono modelli di successo facile violando le regole ed i politici - che forse anche una volta non erano santi ma operavano con discrezione e dichiaravano valori che oggi vengono calpestati - si fanno un vanto di evidenziare le scorrettezze mediante le quali hanno conquistato soldi e potere. Dunque diviene difficile per la famiglia trasmettere i valori, sempre che essa voglia farlo e non mostri di ritenere normali clientelismi e raccomandazioni ormai tanto difusi nella societa'.

Un altro importante aspetto del tema etica e famiglia e' quello dell'etica di chi opera con le famiglie in crisi. Mi riferisco a tutti quei soggetti, avvocati, assistenti sociali, psicologi etc che intervengono nel momento della separazione, del divorzio e dell'affidamento.
Sono certa che i giuristi presenti - e ci si augura anche tutti gli altri soggetti summenzionati - opereranno in modo coerente con la deontologia professionale. Tuttavia per chi si trova a margine di un conflitto e' forte la tentazione di aizzare i contententi, esasperare i toni e spesso suggerire l'uso dei figli come arma di ricatto.
Tutto questo non soltanto danneggia i minori, i quali vanno sempre salvaguardati al massimo, ma non giova nemmeno ai propri assistiti, perche' occorre ricordare che quella famiglia spezzata dovra' continuare a dialogare e collaborare in modo civile nell'interesse dei figli, specialmente in caso di affidamento condiviso. Dovremmo quindi porre attenzione a che tutti i soggetti in causa operino in modo corretto e con particolare attenzione.

Ma vorrei soffermarmi su un altro aspetto che raccorda l'etica e la famiglia - di tutt'altra specie ma parimenti importante e attualissimo e soprattutto particolarmente inerente al titolo del nostro convegno - e cioe' la modifica della morale sociale con la diffusione delle famiglie allargate, dei conviventi e delle coppie omosessuali, nonche' con gli immigrati che spesso ci costringono a confrontarci con modelli culturali e giuridici che generano contaminazioni anche nella nostra giurisprudenza.
Giurisprudenza che - se maggiormente nota - indurrebbe anche ad una riflessione sociale, dato che - lungi dall'essere, come spesso taluni propongono, risposta alla volonta' popolare - la giurisprudenza delle alte Corti, proprio perche' chiamata a dire l'ultima parola su questioni del tutto nuove - spesso precorre i tempi e disegna un percorso di diritti che potrebbe essere importante insegnamento di etica pratica anche per la societa' stessa. Quello che mi interessa infatti sottolineare e' l'aspetto etico portato nelle motivazioni della Corte, non quello giuridico che compete ad altri valutare e che e' gia' stato sinteticamente analizzato in altra sede.

Con la sentenza n. 7472 Cassazione civile, sez. I, del 20.03.2008 con cui la Corte ha bocciato il ricorso del Ministero degli Affari Esteri avverso un decreto del Tribunale che disponeva il rilascio del visto per il ricongiungimento familiare (in Italia), ad un cittadino marocchino e alla coniuge sulla base del legame con la piccola affidata loro in custodia dai suoi genitori con atto notarile redatto da due notai nel paese d'origine. In questo caso la Corte si e' dovuta confrontare con l'istituto islamico della kafalah. Negli ordinamenti musulmani, infatti - stante la sancita illiceità di qualsiasi rapporto sessuale fuori dal matrimonio, l'esclusa giuridicità, ad ogni effetto, nei confronti del padre, dei figli naturali, e la considerazione di quelli adottati come "non veri figli" - il dovere di fratellanza e di solidarietà, cui pure esorta il Corano, è assolto, nei confronti dei minori illegittimi, orfani o comunque abbandonati, attraverso l'unico strumento di tutela e protezione dell'infanzia definito "Kafalah" mediante il quale il minore, per il quale non sia possibile attribuire la custodia ed assistenza (hadana) nell'ambito della propria famiglia legittima, può essere accolto da due coniugi od anche da un singolo affidatario (kafil), che si impegnano a mantenerlo, educarlo ed istruirlo, come se fosse un figlio proprio, fino alla maggiore età, senza però che l'affidato (makful) entri a far parte, giuridicamente, della famiglia che così lo accoglie.

Il Ministero poneva un quesito di diritto: "se la kafalah di diritto islamico possa essere considerata rilevante al fine del ricongiungimento familiare ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998 nonostante la sua natura esclusivamente negoziale e l'assenza di ogni intervento giurisdizionale volto alla verifica dei presupposti di fatto della situazione di abbandono del minore e dell'idoneità dei kafil (o affidatari)". Lo stesso Ministero dava risposta negativa basandosi principalmente sulla presupposta "natura eccezionale" ("in linea con le politiche di contenimento della immigrazione") dell'istituto del ricongiungimento familiare, che il decreto in parola (non suscettibile, a suo avviso, di interpretazione analogica od estensiva) circoscriverebbe ai soli specifici rapporti (di filiazione, adozione, affidamento e tutela) testualmente elencativi. La Corte l'appello aveva invece ritenuto la kafalah equipollente all'istituto dell'affidamento.

Argomenta la Cassazione: "Laddove, ove plurimi, ed antagonisti, siano i valori costituzionali di riferimento (come, appunto, nel caso del ricongiungimento familiare, con riguardo al quale vengono in gioco, da un lato, l'esigenza di protezione dei minori e dall'altro, la tutela democratica dei confini dello Stato), potrà considerarsi "adeguata" solo quella interpretazione, della norma ordinaria, che realizzi l'equo bilanciamento di tali superiori interessi, alla luce anche della scala, di valori presupposta dal Costituente. Bilanciamento - questo - che con riguardo al T.U. sulle immigrazioni, la stessa Corte Costituzionale (Giudice naturale, in materia) ha già avuto appunto occasione di operare (in sede di controllo di legittimità di altre sue denunziate disposizioni), nel segno di una tendenziale prevalenza del valore di protezione del minore, anche in relazione al minore straniero, rispetto a quelli di difesa del territorio e contenimento dell'immigrazione (cfr. sent.ze nn. 198 e 205/2003). Prevalenza che, a maggior ragione, appare peraltro coessenziale ad una esegesi costituzionalmente orientata della disciplina sul ricongiungimento, per lo specifico profilo che qui viene un rilievo, ove si consideri che - mentre ai "pericoli di strumentalizzazione ai fini di elusione della normativa in materia di immigrazione", non irragionevolmente paventati dal Ministero ricorrente, può comunque porsi in qualche modo rimedio attraverso i controlli interni al complesso e articolato procedimento autorizzatorio che (previo nulla osta dello Sportello Unico per l'immigrazione e visto d'ingresso dell'autorità consolare) si conclude con il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari - una pregiudiziale esclusione (come quella che pretende l'Amministrazione) del requisito per il ricongiungimento familiare per i minori affidati in "Kafalah", penalizzerebbe (anche con vulnus al principio di eguaglianza) tutti i minori di paesi arabi, illegittimi, orfani o comunque in stato di abbandono, per i quali la kafalah è - come si dirà- l'unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti islamici."
L'alta Corte ricordava che "Ogni singolo Paese di area islamica ha disciplinato, in maniera più o meno dettagliata, la Kafalah la quale e' espressamente riconosciuta come istituto di protezione del fanciullo anche nella Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (sub. art. 20)".

La Cassazione aggiungeva poi che "tra la Kafalah islamica e il modello dell'affidamento nazionale prevalgono, sulle differenze, i punti in comune, non avendo entrambi tali istituti, a differenza dell'adozione, effetti legittimanti, e non incidendo, sia l'uno che l'altro, sullo stato civile del minore; ed essendo anzi la Kafalah, più dell'affidamento, vicina all'adozione, in quanto, mentre l'affidamento ha natura essenzialmente provvisoria, la Kafalah (ancorchè ne sia ammessa la revoca) si prolunga tendenzialmente fino alla maggiore età dell'affidato.4/4. Per cui, conclusivamente, può darsi risposta affermativa al quesito di diritto, come sopra formulato, con enunciazione del principio per cui la Kafalah di diritto islamico, come disciplinata (nella specie) dalla legislazione del Marocco, può fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare, e dare titolo allo stesso".

Questo non significa che la Corte assecondi gli usi di altre culture quando essi contraddicono i diritti e comunque principi etici propri della protezione che deve essere garantita nell'ambito familiare. Ne e' un esempio la sentenza 02.03.2009 n. 9276 della Corte di Cassazione, sez. V penale, riguardante un caso di abbandono di minore. Con essa la Corte ha bocciato la tesi del ricorrente, condannato a 7 mesi di reclusione per abbandono del figlio di sette anni, lasciato incustodito per svariate ore della giornata sulla pubblica via e giunto in questura dopo la sottrazione di un telefonino dal banco di un'agenzia di viaggi, tesi secondo cui c'era stata violazione dell'art. 591 c.p., perchè la norma connette la responsabilità al pericolo per l'incolumità della persona (Cass., Sez. 5^, n. 4408/98), estremo non ricorrente nella specie (il bambino, di origine nomade, si accompagnava ad altri in città), e rapporta l'elemento psicologico all'incapacità del soggetto passivo di provvedere alle proprie esigenze in una situazione di pericolo per la propria integrità fisica (Cass., Sez. 5^, n. 15147/07) mentre il minore sarebbe stato affidato alla nonna paterna presso l'abitazione di lei, ove erano i cugini.

La Suprema Corte ha tuttavia spiegato che "L'evento di pericolo per la incolumità di un minore può essere escluso solo se, chi ha l'obbligo di custodia, vigila sui suoi comportamenti attuali o potenziali, ed ha cura dei suoi bisogni, in maniera da prevenire il pericolo secondo la sua capacità in rapporto al tempo ed al luogo. La custodia implica perciò diverse modalità di esercizio ed è delegabile solo ad un affidatario maggiorenne e capace. In questa luce è evidente perchè le ragioni di cautela cui si ispira la norma incriminatrice dell'art. 591 c.p. hanno, per legge, a che fare solo con l'astratta capacità del soggetto passivo connessa all'età e cioè a sue assunte consapevolezze e responsabilità. L'esclusione del pericolo non è invero affatto assicurata dalle abitudini della famiglia recepite dal minore, se l'ambiente esterno è governato da diversi costumi, la qualcosa rende il pericolo maggiormente complesso e difficile da evitare. In particolare la cultura nomade non radica alcuna presunzione riconoscibile in una città europea, e la diversa opinione travisa del tutto il diritto alla sicurezza del minore che circola per le sue strade. Inoltre, sul piano soggettivo del reato rileva esclusivamente la volontà dell'abbandono, che per sè implica coincidenza tra risultato voluto della propria condotta ed evento. Pertanto il dolo non è escluso dal fatto che chi ha il dovere di custodia stimi il minore capace di badare a se stesso, per l'aiuto di coetanei legati a lui di vincolo di parentela". Ammonimento valido non soltanto per chi sia di cultura nomade, ma per tutti coloro che hanno la responsabilita' genitoriale.

Da segnalare - in tema di etica e famiglia - anche la sentenza n.24668/2010 della quinta sezione penale della Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che il reato di maltrattamenti in famiglia sussiste a prescindere dalla convivenza o dalla coabitazione. Secondo la Corte per la configurabilità del reato previsto e punito dall'articolo 572 del codice penale è "sufficiente che intercorrano relazioni abituali tra il soggetto passivo e quello attivo". La norma infatti, evidenziano i supremi giudici, tutela le persone della famiglia "ove per famiglia non si intende soltanto un consorzio di persone avvinte da vincoli di parentela naturale o civile, ma anche una unione di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione e di solidarietà".

La giurisprudenza di legittimita' - ricorda la Corte - "ha da tempo chiarito che il delitto di maltrattamenti in famiglia è ravvisabile anche per la cosiddetta 'famiglia di fatto', ovvero quando in un consorzio di persone si sia realizzato, per strette relazioni e consuetudini di vita, un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarieta ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi, anche assistenziali" (v. Cass. n. 8953/1997). In tale sentenza si precisava che non è necessaria la convivenza e la coabitazione; ciò perchè la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie criminosa in questione.
La decisione della Suprema Corte richiama anche la sentenza n. 49109/2003 in cui la Corte ha affermato che il reato sussiste anche quando la convivenza sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto. I supremi giudici ammettono che in giurisprudenza esiste anche un orientamento diverso ma ritengono che, stando al tenore letterale della norma, non è possibile desumere che la sussistenza del delitto censurato sia subordinabile al presupposto di stabile convivenza e/o coabitazione.

E infatti va in tale direzione anche la Cassazione penale, sez. VI, con sentenza 22.05.2008 n. 20647 relativa al ricorso di un uomo gravemente indiziato del reato di cui all'art. 572 c.p., per avere sottoposto per anni la convivente a continue violenze fisiche e morali e per il quale il Tribunale aveva stabilito misure cautelari giustificate con la gravità dei fatti e con lo scopo di evitare possibili inquinamenti probatori, in relazione alla testimonianza resa dalla figlia minore della vittima, presente all'ultima aggressione. L'indagato, chiedendo la sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, contestava anche la sussistenza del reato di maltrattamenti che a suo dire non si sarebbe potuto configurare, in quanto la donna era semplice convivente.

La Corte ha ritenuto il ricorso manifestamente infondato ed ha dichiarato che "Ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia non assume alcun rilievo la circostanza che l'azione delittuosa sia commessa ai danni di persona convivente more uxorio. Infatti, il richiamo contenuto nell'art. 572 c.p., alla "famiglia" deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, ricomprendendo questa nozione anche la "famiglia di fatto". Una consolidata giurisprudenza di questa Corte richiede soltanto che si tratti di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra due persone con legami di reciproca assistenza e protezione". Da notare che si parla genericamente di "persone".

Oltre alle ovvie conseguenze, vorrei far notare come il principio stabilito dalle sentenze citate riguardo alla convivenza e la definizione di famiglia richiamata - che nella sua forma non fa riferimento al genere dei 'contraenti' il rapporto ne' al tipo di legame fra essi - apre scenari di interpretazioni estensive a tipi di rapporti non convenzionali di qualsiasi natura. Tali sentenze, infatti, pur essendo per loro stessa natura sanzionatorie di comportamenti criminosi, pongono speculari interrogativi sulle nuove forme di famiglia oggi non riconosciute dalla morale sociale prevalente ne' dalla legislazione nazionale ma fra le quali esitano relazioni abituali e un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra due persone con legami di reciproca assistenza e protezione. Possiamo quindi pensare che siano ricomprese in questa definizione non solo le coppie di fatto, ma anche le coppie omosessuali, il sodalizio fra un giovane e un nonno adottato e cosi' via…

Concludo, perche' mi sembra che questi tre casi, sebbene non esaustivi del complesso tema affidatomi, racchiudano in se' una chiara sintesi della capacita' di adattamento all'evoluzione della societa' e del modello famigliare mantenendo la barra sulla stella polare dei diritti e senza compromettere i principi etici riguardanti la famiglia. Anzi, essi contribuiscono ad ampliare il concetto di 'cure familiari' come tradizionalmente inteso in Italia, sia assorbendo l'evoluzione dei costumi costituita da nuovi modelli di famiglia, sia mettendo in luce istituti con cui veniamo a contatto grazie alla questione immigrazione e prima sconosciuti, come ad esempio la kafalah.

Insomma, se non possiamo parlare di estensione dimensionale dell'etica legata all'evoluzione della tematica familiare, poiche' i principi etici e costituzionali a fondamento della tutela dei diritti restano sempre gli stessi, possiamo notare come oggi sia necessario (e anche possibile, come dimostrano queste sentenze) declinare l'etica familiare in un numero crescente e sempre piu' complesso di modalita'. E questa vuole essere sia una riflessione, sia un auspicio indirizzato al legislatore, perche' prenda in carico il problema senza contrapposizioni ideologiche.

* presidente dell'Osservatorio, intervento al Convegno "Legalita' e famiglia" di Catanzaro Lido, 10 e 11 sett 2010

per approfondire...

Dossier giustizia

_____
NB: I CONTENUTI DEL SITO POSSONO ESSERE PRELEVATI
CITANDO L'AUTORE E LINKANDO
www.osservatoriosullalegalita.org

°
avviso legale