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Etica
e famiglia
di
Rita Guma*
Sul
tema etica e famiglia molto si potrrebbe dire. Mi sembra giusto
soffermarmi su tre punti importanti.
Il
primo riguarda la famiglia come luogo di coltivazione dei
valori e di trasmissione di valori. Si e' parlato del
ruolo della famiglia per costruire la legalita', ma la domanda
e': la famiglia e' in grado oggi di trasmettere valori, di
insegnare la legalita'? Il fatto e' che una volta la societa',
la scuola, la televisione, la politica insegnavano gli stessi
valori della famiglia, mentre oggi la societa' e la televisione
propongono modelli di successo facile violando le regole ed
i politici - che forse anche una volta non erano santi ma
operavano con discrezione e dichiaravano valori che oggi vengono
calpestati - si fanno un vanto di evidenziare le scorrettezze
mediante le quali hanno conquistato soldi e potere. Dunque
diviene difficile per la famiglia trasmettere i valori, sempre
che essa voglia farlo e non mostri di ritenere normali clientelismi
e raccomandazioni ormai tanto difusi nella societa'.
Un altro importante aspetto del tema etica e famiglia e' quello
dell'etica di chi opera con le famiglie in crisi. Mi
riferisco a tutti quei soggetti, avvocati, assistenti sociali,
psicologi etc che intervengono nel momento della separazione,
del divorzio e dell'affidamento.
Sono certa che i giuristi presenti - e ci si augura anche
tutti gli altri soggetti summenzionati - opereranno in modo
coerente con la deontologia professionale. Tuttavia per chi
si trova a margine di un conflitto e' forte la tentazione
di aizzare i contententi, esasperare i toni e spesso suggerire
l'uso dei figli come arma di ricatto.
Tutto questo non soltanto danneggia i minori, i quali vanno
sempre salvaguardati al massimo, ma non giova nemmeno ai propri
assistiti, perche' occorre ricordare che quella famiglia spezzata
dovra' continuare a dialogare e collaborare in modo civile
nell'interesse dei figli, specialmente in caso di affidamento
condiviso. Dovremmo quindi porre attenzione a che tutti i
soggetti in causa operino in modo corretto e con particolare
attenzione.
Ma vorrei soffermarmi su un altro aspetto che raccorda l'etica
e la famiglia - di tutt'altra specie ma parimenti importante
e attualissimo e soprattutto particolarmente inerente al titolo
del nostro convegno - e cioe' la modifica della morale
sociale con la diffusione delle famiglie allargate, dei
conviventi e delle coppie omosessuali, nonche' con gli immigrati
che spesso ci costringono a confrontarci con modelli culturali
e giuridici che generano contaminazioni anche nella nostra
giurisprudenza.
Giurisprudenza che - se maggiormente nota - indurrebbe anche
ad una riflessione sociale, dato che - lungi dall'essere,
come spesso taluni propongono, risposta alla volonta' popolare
- la giurisprudenza delle alte Corti, proprio perche' chiamata
a dire l'ultima parola su questioni del tutto nuove - spesso
precorre i tempi e disegna un percorso di diritti che potrebbe
essere importante insegnamento di etica pratica anche per
la societa' stessa. Quello che mi interessa infatti sottolineare
e' l'aspetto etico portato nelle motivazioni della Corte,
non quello giuridico che compete ad altri valutare e che e'
gia' stato sinteticamente analizzato in altra sede.
Con
la
sentenza n. 7472 Cassazione civile, sez. I, del 20.03.2008
con cui la Corte ha bocciato il ricorso del Ministero degli
Affari Esteri avverso un decreto del Tribunale che disponeva
il rilascio del visto per il ricongiungimento familiare (in
Italia), ad un cittadino marocchino e alla coniuge sulla base
del legame con la piccola affidata loro in custodia dai suoi
genitori con atto notarile redatto da due notai nel paese
d'origine. In questo caso la Corte si e' dovuta confrontare
con l'istituto islamico della kafalah. Negli ordinamenti musulmani,
infatti - stante la sancita illiceità di qualsiasi rapporto
sessuale fuori dal matrimonio, l'esclusa giuridicità, ad ogni
effetto, nei confronti del padre, dei figli naturali, e la
considerazione di quelli adottati come "non veri figli" -
il dovere di fratellanza e di solidarietà, cui pure esorta
il Corano, è assolto, nei confronti dei minori illegittimi,
orfani o comunque abbandonati, attraverso l'unico strumento
di tutela e protezione dell'infanzia definito "Kafalah" mediante
il quale il minore, per il quale non sia possibile attribuire
la custodia ed assistenza (hadana) nell'ambito della propria
famiglia legittima, può essere accolto da due coniugi od anche
da un singolo affidatario (kafil), che si impegnano a mantenerlo,
educarlo ed istruirlo, come se fosse un figlio proprio, fino
alla maggiore età, senza però che l'affidato (makful) entri
a far parte, giuridicamente, della famiglia che così lo accoglie.
Il
Ministero poneva un quesito di diritto: "se la kafalah
di diritto islamico possa essere considerata rilevante al
fine del ricongiungimento familiare ai sensi del D.Lgs. n.
286 del 1998 nonostante la sua natura esclusivamente negoziale
e l'assenza di ogni intervento giurisdizionale volto alla
verifica dei presupposti di fatto della situazione di abbandono
del minore e dell'idoneità dei kafil (o affidatari)". Lo stesso
Ministero dava risposta negativa basandosi principalmente
sulla presupposta "natura eccezionale" ("in linea con le politiche
di contenimento della immigrazione") dell'istituto del ricongiungimento
familiare, che il decreto in parola (non suscettibile, a suo
avviso, di interpretazione analogica od estensiva) circoscriverebbe
ai soli specifici rapporti (di filiazione, adozione, affidamento
e tutela) testualmente elencativi. La Corte l'appello aveva
invece ritenuto la kafalah equipollente all'istituto dell'affidamento.
Argomenta
la Cassazione: "Laddove, ove plurimi, ed antagonisti,
siano i valori costituzionali di riferimento (come, appunto,
nel caso del ricongiungimento familiare, con riguardo al quale
vengono in gioco, da un lato, l'esigenza di protezione dei
minori e dall'altro, la tutela democratica dei confini dello
Stato), potrà considerarsi "adeguata" solo quella interpretazione,
della norma ordinaria, che realizzi l'equo bilanciamento di
tali superiori interessi, alla luce anche della scala, di
valori presupposta dal Costituente. Bilanciamento - questo
- che con riguardo al T.U. sulle immigrazioni, la stessa Corte
Costituzionale (Giudice naturale, in materia) ha già avuto
appunto occasione di operare (in sede di controllo di legittimità
di altre sue denunziate disposizioni), nel segno di una tendenziale
prevalenza del valore di protezione del minore, anche in relazione
al minore straniero, rispetto a quelli di difesa del territorio
e contenimento dell'immigrazione (cfr. sent.ze nn. 198 e 205/2003).
Prevalenza che, a maggior ragione, appare peraltro coessenziale
ad una esegesi costituzionalmente orientata della disciplina
sul ricongiungimento, per lo specifico profilo che qui viene
un rilievo, ove si consideri che - mentre ai "pericoli di
strumentalizzazione ai fini di elusione della normativa in
materia di immigrazione", non irragionevolmente paventati
dal Ministero ricorrente, può comunque porsi in qualche modo
rimedio attraverso i controlli interni al complesso e articolato
procedimento autorizzatorio che (previo nulla osta dello Sportello
Unico per l'immigrazione e visto d'ingresso dell'autorità
consolare) si conclude con il rilascio del permesso di soggiorno
per motivi familiari - una pregiudiziale esclusione (come
quella che pretende l'Amministrazione) del requisito per il
ricongiungimento familiare per i minori affidati in "Kafalah",
penalizzerebbe (anche con vulnus al principio di eguaglianza)
tutti i minori di paesi arabi, illegittimi, orfani o comunque
in stato di abbandono, per i quali la kafalah è - come si
dirà- l'unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti
islamici."
L'alta Corte ricordava che "Ogni singolo Paese di area islamica
ha disciplinato, in maniera più o meno dettagliata, la Kafalah
la quale e' espressamente riconosciuta come istituto di protezione
del fanciullo anche nella Convenzione di New York del 20 novembre
1989 (sub. art. 20)".
La Cassazione aggiungeva poi che "tra la Kafalah islamica
e il modello dell'affidamento nazionale prevalgono, sulle
differenze, i punti in comune, non avendo entrambi tali istituti,
a differenza dell'adozione, effetti legittimanti, e non incidendo,
sia l'uno che l'altro, sullo stato civile del minore; ed essendo
anzi la Kafalah, più dell'affidamento, vicina all'adozione,
in quanto, mentre l'affidamento ha natura essenzialmente provvisoria,
la Kafalah (ancorchè ne sia ammessa la revoca) si prolunga
tendenzialmente fino alla maggiore età dell'affidato.4/4.
Per cui, conclusivamente, può darsi risposta affermativa al
quesito di diritto, come sopra formulato, con enunciazione
del principio per cui la Kafalah di diritto islamico, come
disciplinata (nella specie) dalla legislazione del Marocco,
può fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare,
e dare titolo allo stesso".
Questo
non significa che la Corte assecondi gli usi di altre culture
quando essi contraddicono i diritti e comunque principi etici
propri della protezione che deve essere garantita nell'ambito
familiare. Ne e' un esempio la sentenza 02.03.2009 n. 9276
della Corte di Cassazione, sez. V penale, riguardante
un caso di abbandono di minore. Con essa la Corte ha bocciato
la tesi del ricorrente, condannato a 7 mesi di reclusione
per abbandono del figlio di sette anni, lasciato incustodito
per svariate ore della giornata sulla pubblica via e giunto
in questura dopo la sottrazione di un telefonino dal banco
di un'agenzia di viaggi, tesi secondo cui c'era stata violazione
dell'art. 591 c.p., perchè la norma connette la responsabilità
al pericolo per l'incolumità della persona (Cass., Sez. 5^,
n. 4408/98), estremo non ricorrente nella specie (il bambino,
di origine nomade, si accompagnava ad altri in città), e rapporta
l'elemento psicologico all'incapacità del soggetto passivo
di provvedere alle proprie esigenze in una situazione di pericolo
per la propria integrità fisica (Cass., Sez. 5^, n. 15147/07)
mentre il minore sarebbe stato affidato alla nonna paterna
presso l'abitazione di lei, ove erano i cugini.
La Suprema Corte ha tuttavia spiegato che "L'evento
di pericolo per la incolumità di un minore può essere escluso
solo se, chi ha l'obbligo di custodia, vigila sui suoi comportamenti
attuali o potenziali, ed ha cura dei suoi bisogni, in maniera
da prevenire il pericolo secondo la sua capacità in rapporto
al tempo ed al luogo. La custodia implica perciò diverse modalità
di esercizio ed è delegabile solo ad un affidatario maggiorenne
e capace. In questa luce è evidente perchè le ragioni di cautela
cui si ispira la norma incriminatrice dell'art. 591 c.p. hanno,
per legge, a che fare solo con l'astratta capacità del soggetto
passivo connessa all'età e cioè a sue assunte consapevolezze
e responsabilità. L'esclusione del pericolo non è invero affatto
assicurata dalle abitudini della famiglia recepite dal minore,
se l'ambiente esterno è governato da diversi costumi, la qualcosa
rende il pericolo maggiormente complesso e difficile da evitare.
In particolare la cultura nomade non radica alcuna presunzione
riconoscibile in una città europea, e la diversa opinione
travisa del tutto il diritto alla sicurezza del minore che
circola per le sue strade. Inoltre, sul piano soggettivo del
reato rileva esclusivamente la volontà dell'abbandono, che
per sè implica coincidenza tra risultato voluto della propria
condotta ed evento. Pertanto il dolo non è escluso dal fatto
che chi ha il dovere di custodia stimi il minore capace di
badare a se stesso, per l'aiuto di coetanei legati a lui di
vincolo di parentela". Ammonimento valido non soltanto per
chi sia di cultura nomade, ma per tutti coloro che hanno la
responsabilita' genitoriale.
Da
segnalare - in tema di etica e famiglia - anche la sentenza
n.24668/2010 della quinta sezione penale della Corte di Cassazione,
la quale ha stabilito che il reato di maltrattamenti in famiglia
sussiste a prescindere dalla convivenza o dalla coabitazione.
Secondo la Corte per la configurabilità del reato previsto
e punito dall'articolo 572 del codice penale è "sufficiente
che intercorrano relazioni abituali tra il soggetto passivo
e quello attivo". La norma infatti, evidenziano i supremi
giudici, tutela le persone della famiglia "ove per famiglia
non si intende soltanto un consorzio di persone avvinte da
vincoli di parentela naturale o civile, ma anche una unione
di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini
di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione
e di solidarietà".
La
giurisprudenza di legittimita' - ricorda la Corte -
"ha da tempo chiarito che il delitto di maltrattamenti in
famiglia è ravvisabile anche per la cosiddetta 'famiglia di
fatto', ovvero quando in un consorzio di persone si sia realizzato,
per strette relazioni e consuetudini di vita, un regime di
vita improntato a rapporti di umana solidarieta ed a strette
relazioni, dovute a diversi motivi, anche assistenziali" (v.
Cass. n. 8953/1997). In tale sentenza si precisava che non
è necessaria la convivenza e la coabitazione; ciò perchè la
convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie
criminosa in questione.
La decisione della Suprema Corte richiama anche la sentenza
n. 49109/2003 in cui la Corte ha affermato che il reato sussiste
anche quando la convivenza sia cessata a seguito di separazione
legale o di fatto. I supremi giudici ammettono che in giurisprudenza
esiste anche un orientamento diverso ma ritengono che, stando
al tenore letterale della norma, non è possibile desumere
che la sussistenza del delitto censurato sia subordinabile
al presupposto di stabile convivenza e/o coabitazione.
E
infatti va in tale direzione anche la Cassazione penale,
sez. VI, con sentenza 22.05.2008 n. 20647 relativa al
ricorso di un uomo gravemente indiziato del reato di cui all'art.
572 c.p., per avere sottoposto per anni la convivente a continue
violenze fisiche e morali e per il quale il Tribunale aveva
stabilito misure cautelari giustificate con la gravità dei
fatti e con lo scopo di evitare possibili inquinamenti probatori,
in relazione alla testimonianza resa dalla figlia minore della
vittima, presente all'ultima aggressione. L'indagato, chiedendo
la sostituzione della misura cautelare in carcere con quella
degli arresti domiciliari, contestava anche la sussistenza
del reato di maltrattamenti che a suo dire non si sarebbe
potuto configurare, in quanto la donna era semplice convivente.
La
Corte ha ritenuto il ricorso manifestamente infondato
ed ha dichiarato che "Ai fini della configurabilità del reato
di maltrattamenti in famiglia non assume alcun rilievo la
circostanza che l'azione delittuosa sia commessa ai danni
di persona convivente more uxorio. Infatti, il richiamo contenuto
nell'art. 572 c.p., alla "famiglia" deve intendersi riferito
ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni
e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza
e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, ricomprendendo
questa nozione anche la "famiglia di fatto". Una consolidata
giurisprudenza di questa Corte richiede soltanto che si tratti
di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale
e di fatto, instaurato tra due persone con legami di reciproca
assistenza e protezione". Da notare che si parla genericamente
di "persone".
Oltre
alle ovvie conseguenze, vorrei far notare come il principio
stabilito dalle sentenze citate riguardo alla convivenza e
la definizione di famiglia richiamata - che nella sua forma
non fa riferimento al genere dei 'contraenti' il rapporto
ne' al tipo di legame fra essi - apre scenari di interpretazioni
estensive a tipi di rapporti non convenzionali di qualsiasi
natura. Tali sentenze, infatti, pur essendo per loro stessa
natura sanzionatorie di comportamenti criminosi, pongono speculari
interrogativi sulle nuove forme di famiglia oggi non riconosciute
dalla morale sociale prevalente ne' dalla legislazione nazionale
ma fra le quali esitano relazioni abituali e un rapporto tendenzialmente
stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra due
persone con legami di reciproca assistenza e protezione. Possiamo
quindi pensare che siano ricomprese in questa definizione
non solo le coppie di fatto, ma anche le coppie omosessuali,
il sodalizio fra un giovane e un nonno adottato e cosi' via…
Concludo,
perche' mi sembra che questi tre casi, sebbene non esaustivi
del complesso tema affidatomi, racchiudano in se' una chiara
sintesi della capacita' di adattamento all'evoluzione della
societa' e del modello famigliare mantenendo la barra sulla
stella polare dei diritti e senza compromettere i principi
etici riguardanti la famiglia. Anzi, essi contribuiscono ad
ampliare il concetto di 'cure familiari' come tradizionalmente
inteso in Italia, sia assorbendo l'evoluzione dei costumi
costituita da nuovi modelli di famiglia, sia mettendo in luce
istituti con cui veniamo a contatto grazie alla questione
immigrazione e prima sconosciuti, come ad esempio la kafalah.
Insomma, se non possiamo parlare di estensione dimensionale
dell'etica legata all'evoluzione della tematica familiare,
poiche' i principi etici e costituzionali a fondamento della
tutela dei diritti restano sempre gli stessi, possiamo notare
come oggi sia necessario (e anche possibile, come dimostrano
queste sentenze) declinare l'etica familiare in un numero
crescente e sempre piu' complesso di modalita'. E questa vuole
essere sia una riflessione, sia un auspicio indirizzato al
legislatore, perche' prenda in carico il problema senza contrapposizioni
ideologiche.
*
presidente dell'Osservatorio, intervento al Convegno "Legalita'
e famiglia" di Catanzaro Lido, 10 e 11 sett 2010
Dossier
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