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Class
Action all' amatriciana
di
Biagio Francesco Rizzo*
L’estate scorsa è stato abrogato il vecchio art. 140-bis del
Codice del Consumo rubricato “Azione collettiva risarcitoria”,
mai entrato effettivamente in vigore, ed introdotto quello
che è l’attuale art. 140-bis disciplinante la c.d. “Azione
di classe”, in vigore dal 1 gennaio 2010. Quello
della class action è solo l’ultimo degli esempi di importazione
di strumenti giuridici americani. Poco male, visto che si
tratta di un meccanismo di tutela del consumatore e quindi
della parte processuale debole di un rapporto di consumo.
Se non fosse che, ovviamente, questo efficace strumento è
stato introdotto con i consueti “aggiustamenti all’italiana”,
volti a preservare lo status quo e svilire, di fatto, lo spirito
dell’istituto.
Procediamo con ordine, dando un rapido sguardo alla nozione
di azione collettiva (class action) ed alla sua utilità processuale.
Un'azione collettiva viene istaurata e condotta da uno o più
soggetti i quali chiedono la risoluzione di una questione
comune di fatto o di diritto, che abbia degli effetti super
partes, per tutti i componenti della medesima classe (soggetti
con interessi simili). In pratica, anche gli altri soggetti
della medesima classe possono avvantaggiarsi dell’azione processuale
altrui. Attraverso la class action è possibile avanzare delle
pretese risarcitorie, che hanno la funzione di ristorare il
danneggiato ed altresì svolgere funzioni di deterrenza per
il danneggiante.
La
ratio dell’azione collettiva è cosi sintetizzabile: se un
numero elevato di consumatori subiscono, singolarmente, un
danno di portata economicamente modesta difficilmente deciderebbero
di sostenere individualmente le spese legali per promuovere
un’azione. Ecco perché è utile promuovere collettivamente
l’azione, in maniera tale da abbattere i costi del procedimento
ed acquisire forza processuale nei confronti del danneggiante
(che generalmente è un’azienda o multinazionale con notevoli
capacità economiche). La class action nei suoi connotati astratti
(ed in quelli della disciplina statunitense) costituisce un’arma
potentissima nelle mani del consumatore, coniugata altresì
dalla possibilità per i querelanti di avvalersi di avvocati
di fama, compensati attraverso una percentuale dei risarcimenti
stabiliti dal tribunale, che fanno sì che si ristabilisca
il rapporto tra grande impresa e consumatore, altrimenti squilibrato
a favore della prima. E’ evidente come questo sistema stimoli
i legali a prendere le parti del consumatore, poiché da un’eventuale
successo ne trarrebbero cospicui vantaggi economici.
Dal
2006, con il decreto Bersani, anche nel nostro paese è possibile
avviare meccanismi di questo tipo, grazie all’abrogazione
del divieto del cosiddetto patto di quota lite. Purtroppo,
la normativa entrata in vigore il primo gennaio scorso si
allontana clamorosamente dagli intenti propri dello strumento
e dalla disciplina statunitense. Prescindendo da qualsiasi
approfondita analisi comparatistica, è utile porre in evidenza
il funzionamento della class action in Italia e le gravi anomalie
presenti nel testo del 140bis del codice del consumo: la legittimazione
attiva è riconosciuta non solo alle associazioni dei consumatori
(come prevedeva la precedente disciplina) ma anche ai singoli
cittadini, esclusivamente nella veste di consumatori/utenti
che abbiano patito un danno contrattuale, escludendo pertanto
la possibilità di agire in tutti quei casi che esulano da
rapporti contrattuali con l’impresa danneggiante (ad esempio
è esclusa la possibilità di citare un’industria che inquina
il territorio). la norma impone che i diritti da tutelare
siano identici mentre sarebbe stato più opportuno che si parlasse
di interessi omogenei. È evidente come possa risultare arduo
scoprire l’identicità delle fattispecie.
Un
esempio potrà chiarire meglio le cose: le banche hanno eliminato
le “commissioni di massimo scoperto”, ma di fatto le hanno
sostituite con altre commissioni che aggirano la norma. Ciascuna
banca, però, ha scelto una denominazione diversa per la commissione
(si va dal “tasso di sconfinamento” al “costo di istruttoria
urgente”). In questo caso di tratterebbe di diritti identici
o interessi omogenei e pertanto non passibili di entrare nel
novero dei diritti tutelabili? altra grave e determinante
anomalia è la mancanza, nel testo, di una norma sul danno
punitivo (c.d. punitive damages). Ovvero un risarcimento per
il danno patito, che va oltre il mero valore del danno, ed
esplica, per l’appunto, uno scopo punitivo per la condotta
illecita tenuta dall’azienda.
La
norma (presente nella disciplina americana) ha un chiaro intento
deterrente, perché volta a garantire un monito efficace ad
evitare nuovi comportamenti delittuosi, oltre all’intento
di porre rimedio alle sofferenze morali e materiali dei consumatori
lesi.
La possibilità di condannare i colossi imprenditoriali al
pagamento di una somma ben maggiore del reale danno creato
è il baluardo della normativa statunitense, l’aspetto che
tiene in piedi l’intero meccanismo processuale. altro tasto
dolente è quello dei costi di pubblicità. Difatti la norma
prevede l’onere per le parti in merito alla pubblicità ritenuta
necessaria a tutela degli aderenti (comma 11). Sono a carico
di chi promuove l’azione i costi sostenuti per la pubblicità
dell’azione, finalizzata a rendere nota la possibilità di
aderire a tutti coloro che ritengono violati diritti identici
a quello dell’azione esperita.
Questa
norma rischia di scoraggiare i ricorrenti nell’intraprendere
l’azione, a causa dei costi elevati e non preventivabili della
pubblicità dell’azione. Senza considerare poi, i costi della
pubblicità in caso di soccombenza in giudizio. l’azione collettiva
non è retroattiva, ma potrà essere attivata solo per gli illeciti
compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della
presente legge , a far data, cioè, del 1 gennaio 2010. Rimarranno
perciò privi di tutela i recenti scandali nazionali (Parmalat,
Cirio, ecc.), che hanno comportato notevoli danni per migliaia
di consumatori ed utenti. non è prevista l’opt-out provision,
ovvero la possibilità di uscire in qualsiasi momento dalla
classe, ma resta salva la possibilità di poter esperire un’azione
individuale per chi decida di non aderire a quella collettiva,
qualora questa risulti penalizzante dal punto di vista risarcitorio.
Quanto alle adesioni invece, viene ribadito il meccanismo
del c.d. opt-in cioè che i consumatori e utenti che intendono
avvalersi della tutela di cui al presente articolo aderiscono
all’azione di classe (comma 3). In tal modo, la sentenza che
definisce il giudizio farà stato solo nei confronti degli
aderenti. l’azione collettiva stabilisce immediatamente sia
il diritto leso che l’entità del risarcimento. In sostanza,
la sentenza liquida immediatamente il danno subito. Infatti,
a differenza del precedente testo, la decisione finale si
qualifica come una sentenza di condanna con la quale il giudice
liquida le somme definitive a coloro che hanno aderito all’azione.
Tuttavia, la possibilità eccezionale di stabilire solo il
criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette
somme profila il pericolo di una liquidazione del danno non
immediata, qualora tale scelta residuale possa divenire la
regola, privando così il consumatore di qualsiasi utilità
propria del giudizio collettivo e costringendolo ad azionare
individualmente un giudizio di completamento per la liquidazione
delle somme a suo favore. è prevista anche la class action
contro la pubblica amministrazione (ospedali, scuole, aziende
dello Stato, uffici pubblci), però è escluso che il danneggiato
possa ricevere un risarcimento per il danno subito (es. disservizio
burocratico) ma serve esclusivamente a ripristinare la corretta
erogazione di un servizio pubblico.
In
conclusione, è indubbio il fatto che la class action italiana
presenti alcune affinità con quella americana, tuttavia manca
della portata devastante in termini di offesa al patrimonio
delle società che si sono rese responsabili di comportamenti
illegittimi verso i consumatori. La mancata previsione dei
“punitive damages” è una pecca determinante. Difficile tra
l’altro che si arrivi all’introduzione di questo concetto
visto che alcuni illustri commentatori giuridici italiani
affermano che tale meccanismo, non solo è sconosciuto al nostro
sistema giuridico, ma addirittura contrario ai principi generali
del nostro ordinamento che si basa, invece, sul concetto di
ripristino dell’integrità violata mediante il comportamento
illegittimo.
In definitiva, è probabile che la class action italiana creerà
fastidi alle imprese operanti in Italia, ma non avrà l’efficacia
deterrente che invece negli Stati Uniti riesce a perseguire.
Dall’impianto statunitense la disciplina italiana acquisisce
la tendenza a ridurre il cittadino a consumatore e trasformare
il nostro vivere civile in un mero rapporto di scambio commerciale,
funzionale ad una visione puramente utilitaristica dei diritti,
sul solco lasciato dal diritto comunitario. La class action
italiana introduce un modello di tutela dei diritti ex post
(caratteristica profonda della tradizione di common law) in
cui viene sostanzialmente tollerata la violazione dei diritti,
purché se ne risarciscano successivamente i titolari.
Occorre capire quanto sia utile effettuare distorsioni ai
principi del nostro ordinamento in nome di pretese risarcitorie
(legittime) a favore dei cittadini, spesso truffati ed ingannati
dalle grandi imprese o dalla pubblica amministrazione. Cittadini
non tutelati tout court nel loro status, ma solamente nelle
occasioni in cui assumono la veste del consumatore o utente,
e quindi solo all’interno della loro esistenza commerciale.
Acquisire solo lo spirito (già di per sé discutibile) di una
legge straniera senza avere l’abilità di riuscire a coglierne
i suoi aspetti vantaggiosi è un duplice errore, imperdonabile,
che solo il nostro Legislatore pasticcione è stato capace
di compiere. In ogni caso, occorre attendere i risvolti concreti
della legge che, attualmente, si trova soltanto alle sue battute
iniziali.
*
membro del Comitato tecnico giuridico dell'Osservatorio
Dossier
giustizia
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