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13 febbraio 2010
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Class Action all' amatriciana
di Biagio Francesco Rizzo*

L’estate scorsa è stato abrogato il vecchio art. 140-bis del Codice del Consumo rubricato “Azione collettiva risarcitoria”, mai entrato effettivamente in vigore, ed introdotto quello che è l’attuale art. 140-bis disciplinante la c.d. “Azione di classe”, in vigore dal 1 gennaio 2010. Quello della class action è solo l’ultimo degli esempi di importazione di strumenti giuridici americani. Poco male, visto che si tratta di un meccanismo di tutela del consumatore e quindi della parte processuale debole di un rapporto di consumo. Se non fosse che, ovviamente, questo efficace strumento è stato introdotto con i consueti “aggiustamenti all’italiana”, volti a preservare lo status quo e svilire, di fatto, lo spirito dell’istituto.

Procediamo con ordine, dando un rapido sguardo alla nozione di azione collettiva (class action) ed alla sua utilità processuale. Un'azione collettiva viene istaurata e condotta da uno o più soggetti i quali chiedono la risoluzione di una questione comune di fatto o di diritto, che abbia degli effetti super partes, per tutti i componenti della medesima classe (soggetti con interessi simili). In pratica, anche gli altri soggetti della medesima classe possono avvantaggiarsi dell’azione processuale altrui. Attraverso la class action è possibile avanzare delle pretese risarcitorie, che hanno la funzione di ristorare il danneggiato ed altresì svolgere funzioni di deterrenza per il danneggiante.

La ratio dell’azione collettiva è cosi sintetizzabile: se un numero elevato di consumatori subiscono, singolarmente, un danno di portata economicamente modesta difficilmente deciderebbero di sostenere individualmente le spese legali per promuovere un’azione. Ecco perché è utile promuovere collettivamente l’azione, in maniera tale da abbattere i costi del procedimento ed acquisire forza processuale nei confronti del danneggiante (che generalmente è un’azienda o multinazionale con notevoli capacità economiche). La class action nei suoi connotati astratti (ed in quelli della disciplina statunitense) costituisce un’arma potentissima nelle mani del consumatore, coniugata altresì dalla possibilità per i querelanti di avvalersi di avvocati di fama, compensati attraverso una percentuale dei risarcimenti stabiliti dal tribunale, che fanno sì che si ristabilisca il rapporto tra grande impresa e consumatore, altrimenti squilibrato a favore della prima. E’ evidente come questo sistema stimoli i legali a prendere le parti del consumatore, poiché da un’eventuale successo ne trarrebbero cospicui vantaggi economici.

Dal 2006, con il decreto Bersani, anche nel nostro paese è possibile avviare meccanismi di questo tipo, grazie all’abrogazione del divieto del cosiddetto patto di quota lite. Purtroppo, la normativa entrata in vigore il primo gennaio scorso si allontana clamorosamente dagli intenti propri dello strumento e dalla disciplina statunitense. Prescindendo da qualsiasi approfondita analisi comparatistica, è utile porre in evidenza il funzionamento della class action in Italia e le gravi anomalie presenti nel testo del 140bis del codice del consumo: la legittimazione attiva è riconosciuta non solo alle associazioni dei consumatori (come prevedeva la precedente disciplina) ma anche ai singoli cittadini, esclusivamente nella veste di consumatori/utenti che abbiano patito un danno contrattuale, escludendo pertanto la possibilità di agire in tutti quei casi che esulano da rapporti contrattuali con l’impresa danneggiante (ad esempio è esclusa la possibilità di citare un’industria che inquina il territorio). la norma impone che i diritti da tutelare siano identici mentre sarebbe stato più opportuno che si parlasse di interessi omogenei. È evidente come possa risultare arduo scoprire l’identicità delle fattispecie.

Un esempio potrà chiarire meglio le cose: le banche hanno eliminato le “commissioni di massimo scoperto”, ma di fatto le hanno sostituite con altre commissioni che aggirano la norma. Ciascuna banca, però, ha scelto una denominazione diversa per la commissione (si va dal “tasso di sconfinamento” al “costo di istruttoria urgente”). In questo caso di tratterebbe di diritti identici o interessi omogenei e pertanto non passibili di entrare nel novero dei diritti tutelabili? altra grave e determinante anomalia è la mancanza, nel testo, di una norma sul danno punitivo (c.d. punitive damages). Ovvero un risarcimento per il danno patito, che va oltre il mero valore del danno, ed esplica, per l’appunto, uno scopo punitivo per la condotta illecita tenuta dall’azienda.

La norma (presente nella disciplina americana) ha un chiaro intento deterrente, perché volta a garantire un monito efficace ad evitare nuovi comportamenti delittuosi, oltre all’intento di porre rimedio alle sofferenze morali e materiali dei consumatori lesi. La possibilità di condannare i colossi imprenditoriali al pagamento di una somma ben maggiore del reale danno creato è il baluardo della normativa statunitense, l’aspetto che tiene in piedi l’intero meccanismo processuale. altro tasto dolente è quello dei costi di pubblicità. Difatti la norma prevede l’onere per le parti in merito alla pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli aderenti (comma 11). Sono a carico di chi promuove l’azione i costi sostenuti per la pubblicità dell’azione, finalizzata a rendere nota la possibilità di aderire a tutti coloro che ritengono violati diritti identici a quello dell’azione esperita.

Questa norma rischia di scoraggiare i ricorrenti nell’intraprendere l’azione, a causa dei costi elevati e non preventivabili della pubblicità dell’azione. Senza considerare poi, i costi della pubblicità in caso di soccombenza in giudizio. l’azione collettiva non è retroattiva, ma potrà essere attivata solo per gli illeciti compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge , a far data, cioè, del 1 gennaio 2010. Rimarranno perciò privi di tutela i recenti scandali nazionali (Parmalat, Cirio, ecc.), che hanno comportato notevoli danni per migliaia di consumatori ed utenti. non è prevista l’opt-out provision, ovvero la possibilità di uscire in qualsiasi momento dalla classe, ma resta salva la possibilità di poter esperire un’azione individuale per chi decida di non aderire a quella collettiva, qualora questa risulti penalizzante dal punto di vista risarcitorio.

Quanto alle adesioni invece, viene ribadito il meccanismo del c.d. opt-in cioè che i consumatori e utenti che intendono avvalersi della tutela di cui al presente articolo aderiscono all’azione di classe (comma 3). In tal modo, la sentenza che definisce il giudizio farà stato solo nei confronti degli aderenti. l’azione collettiva stabilisce immediatamente sia il diritto leso che l’entità del risarcimento. In sostanza, la sentenza liquida immediatamente il danno subito. Infatti, a differenza del precedente testo, la decisione finale si qualifica come una sentenza di condanna con la quale il giudice liquida le somme definitive a coloro che hanno aderito all’azione. Tuttavia, la possibilità eccezionale di stabilire solo il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme profila il pericolo di una liquidazione del danno non immediata, qualora tale scelta residuale possa divenire la regola, privando così il consumatore di qualsiasi utilità propria del giudizio collettivo e costringendolo ad azionare individualmente un giudizio di completamento per la liquidazione delle somme a suo favore. è prevista anche la class action contro la pubblica amministrazione (ospedali, scuole, aziende dello Stato, uffici pubblci), però è escluso che il danneggiato possa ricevere un risarcimento per il danno subito (es. disservizio burocratico) ma serve esclusivamente a ripristinare la corretta erogazione di un servizio pubblico.

In conclusione, è indubbio il fatto che la class action italiana presenti alcune affinità con quella americana, tuttavia manca della portata devastante in termini di offesa al patrimonio delle società che si sono rese responsabili di comportamenti illegittimi verso i consumatori. La mancata previsione dei “punitive damages” è una pecca determinante. Difficile tra l’altro che si arrivi all’introduzione di questo concetto visto che alcuni illustri commentatori giuridici italiani affermano che tale meccanismo, non solo è sconosciuto al nostro sistema giuridico, ma addirittura contrario ai principi generali del nostro ordinamento che si basa, invece, sul concetto di ripristino dell’integrità violata mediante il comportamento illegittimo.

In definitiva, è probabile che la class action italiana creerà fastidi alle imprese operanti in Italia, ma non avrà l’efficacia deterrente che invece negli Stati Uniti riesce a perseguire. Dall’impianto statunitense la disciplina italiana acquisisce la tendenza a ridurre il cittadino a consumatore e trasformare il nostro vivere civile in un mero rapporto di scambio commerciale, funzionale ad una visione puramente utilitaristica dei diritti, sul solco lasciato dal diritto comunitario. La class action italiana introduce un modello di tutela dei diritti ex post (caratteristica profonda della tradizione di common law) in cui viene sostanzialmente tollerata la violazione dei diritti, purché se ne risarciscano successivamente i titolari.

Occorre capire quanto sia utile effettuare distorsioni ai principi del nostro ordinamento in nome di pretese risarcitorie (legittime) a favore dei cittadini, spesso truffati ed ingannati dalle grandi imprese o dalla pubblica amministrazione. Cittadini non tutelati tout court nel loro status, ma solamente nelle occasioni in cui assumono la veste del consumatore o utente, e quindi solo all’interno della loro esistenza commerciale. Acquisire solo lo spirito (già di per sé discutibile) di una legge straniera senza avere l’abilità di riuscire a coglierne i suoi aspetti vantaggiosi è un duplice errore, imperdonabile, che solo il nostro Legislatore pasticcione è stato capace di compiere. In ogni caso, occorre attendere i risvolti concreti della legge che, attualmente, si trova soltanto alle sue battute iniziali.

* membro del Comitato tecnico giuridico dell'Osservatorio

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