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Disconoscimento
di paternita'
di
Matteo
Santini e Beatrice Maiolini*
La filiazione, così come la famiglia legittima, è uno degli
istituti fondanti il nostro sistema, tutelato e riconosciuto
dalla Costituzione e dall'intero apparato normativo italiano.
Si comprende, quindi, la particolare attenzione che il legislatore
ha dedicato all'azione di disconoscimento di paternità, il
cui scopo è l'accertamento negativo dello stato di legittimità
di un figlio così come risultante dall'atto di nascita.
Con detta azione, quindi, il presunto padre (o gli altri soggetti
legittimati e tassativamente indicati dalla legge) adisce
l'Autorità Giudiziaria per far accertare che il soggetto che
risulta dai registri di nascita esser suo figlio, in realtà
non lo è dal punto di vista biologico. In particolare, in
tale settore la difficoltà maggiore è sempre stata la ricerca
di un delicato equilibrio tra due contrapposte esigenze di
tutela. Da un lato, di fatti, vi è la necessità di assicurare
la verità, intesa in tale ambito come esatta conoscenza della
genitorialità biologica e, cioè, come consapevolezza su chi
realmente sia il proprio genitore (favor veritatis); dall'altro,
tale esigenza deve necessariamente bilanciarsi con la contrapposta
necessità di tutelare la famiglia legittima (favor legitimitatis),
posto che l'azione di disconoscimento tende proprio ad eliminare
lo status di figlio legittimo, che ne costituisce di conseguenza
il necessario presupposto.
Naturalmente
tale punto di equilibrio è fortemente connaturato all'evoluzione
storica e al contesto culturale di un paese; così, se fino
a qualche tempo fa si privilegiava il favor legitimitatis,
oggi il legislatore e la giurisprudenza hanno cercato sempre
più di agevolare la ricerca della verità nell'ambito dei rapporti
familiari. Proprio a tale scopo è stata riformata più volte,
nel corso degli anni, la disciplina del disconoscimento di
paternità, con il chiaro intento di privilegiare il favor
veritatis, nonostante l'apparato legislativo sia ancora fortemente
rigoroso per ciò che concerne presupposti e modalità di esercizio
dell'azione di disconoscimento di paternità.
A
tal proposito, e proprio a dimostrazione di quanto sia difficile
contemperare le due opposte esigenze, anche in risposta a
quanti sostengono che l'attuale apparato normativo sia ancora
eccessivamente restrittivo e troppo orientato al favor legitimitatis,
la Cassazione ha rilevato che “pur a fronte di un accentuato
favore per una conformità dello status alla realtà della procreazione
– chiaramente espresso nel progressivo ampliamento in sede
legislativa delle ipotesi di accertamento della verità biologica
– il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza
costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che
l'articolo 30 della Costituzione non ha attribuito un valore
indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto
a quella legale, ma, nel disporre al quarto comma che “la
legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”,
ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare,
nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la
paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare
le condizioni e le modalità per far valere quest'ultima, così
affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione
più idonea per la realizzazione dell'interesse del minore”
(Cass. Civ. 20254/04).
Ciò premesso, per avere un quadro completo dell'attuale disciplina
del disconoscimento, si deve necessariamente accennare alla
disciplina della filiazione legittima, che ne costituisce
presupposto logico. Più precisamente, il codice civile stabilisce
che lo stato di figlio legittimo si acquista quando concorrono
quattro presupposti: vi sia un matrimonio valido e il figlio
venga partorito dalla donna sposata. La ricorrenza di questi
due presupposti è di immediata prova, bastando a tale scopo
il certificato di matrimonio e l'atto di nascita. Il concepimento
sia avvenuto in costanza di matrimonio. In relazione a tale
requisito il codice civile, all'art. 232, stabilisce che “si
presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando
sono trascorsi centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio
e non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell'annullamento,
dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili
del matrimonio” (cd. presunzione di concepimento in costanza
di matrimonio). Il nascituro sia “generato dal marito”. Anche
in relazione a tale presupposto, il codice civile detta all'articolo
231 la cd. presunzione di paternità, secondo cui il marito
si presume padre del bambino concepito durante il matrimonio.
I presupposti di concepimento in costanza di matrimonio e
di paternità sono presunzioni, nel senso che la legge presume
che il figlio nato entro il lasso di tempo che va dal centottantesimo
giorno dalla celebrazione del matrimonio al trecentesimo giorno
prima dello scioglimento dello stesso sia stata concepito
in costanza d matrimonio, così come presume che il padre legittimo
dello stesso sia il marito. Sono, tuttavia, presunzioni relative,
nel senso che la legge ammette che venga data la prova contraria,
limitatamente però nelle ipotesi e alle condizioni di cui
all'articolo 235 del codice civile. L'articolo
235 c.c., appunto, descrive le condizioni per cui, pur sussistendo
i presupposti di cui all'articolo 231 del c.c. e, quindi,
avendo il nascituro assunto lo status di figlio legittimo,
si può esercitare un'azione specifica per disconoscerne la
paternità.
Scopo di tale azione è, quindi, quello di rimuovere lo status
di figlio legittimo, accertando che lo stesso è stato concepito
da persona diversa dal presunto padre ex art. 231 c.c.; in
queste ipotesi, quindi, il legislatore privilegia il principio
del favor veritatis a discapito del favor legitimitatis. Tuttavia,
proprio alla ricerca di un equilibrio tra le su menzionate
contrapposte esigenze, il legislatore ammette che tale azione
possa essere esercitata solo in quattro ipotesi tassativamente
determinate.
La prima ipotesi ricorre quando “i coniugi non hanno coabitato
nel periodo compreso tra il trecentesimo ed il centottantesimo
giorno prima della nascita”. Dall'originaria nozione di coabitazione
intesa come impossibilità di fatto a coabitare, oggi si è
abbracciata un'accezione molto più ampia di coabitazione,
“comprensiva delle ipotesi in cui i coniugi - pur avendo abitato
nello stesso alloggio o vissuto nella stessa città o avuto
comunque possibilità di visita o incontro – si siano trovati
insieme in circostanze di tempo e di luogo e in condizioni
personali e soggettive tali da rendere improbabile che essi
abbiano potuto avere rapporti intimi. Dal che consegue che,
quando l'attore abbia dimostrato la non coabitazione, nel
senso precisato, la parte convenuta deve, essa, provare, fornendo
idonei elementi presuntivi, il ripristino anche temporaneo
della coabitazione ovvero che eventuali incontri occasionali
o saltuari siano sfociati in rapporti intimi” (Cass. Civ.
86/498).
La
seconda ipotesi ricorre nel caso in cui, nel periodo compreso
tra il trecentesimo e il centottantesimo giorno prima della
nascita, il marito era affetto da impotenza, anche se soltanto
di generare. Pertanto, il presunto padre che intenda disconoscere
il figlio deve provare l'esistenza, per tutto il periodo corrispondente
al concepimento, di una impotenza; tale dimostrazione può
essere fornita con la cd. prova seminologica, essendo sufficiente
dimostrare, nel periodo in questione, una costante ed assoluta
mancanza di spermatozoi. Questo è ciò che è richiesto dalla
noma, non essendo invece necessario l'accertamento in ordine
alle cause di tale azoospermia né se siffatta anomalia sia
reversibile o meno.
La terza ipotesi si ha nel caso in cui nel periodo di concepimento
“la moglie ha commesso adulterio o ha tenuto celata al marito
la propria gravidanza e la nascita del figlio. In tali casi
il marito è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche
genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle
del presunto padre, o ogni altro fatto tendente ad escludere
la paternità”.
L'articolo
235 c.c. contiene in realtà tre ipotesi diverse ed autonome
alla presenza delle quali è possibile attivare l'azione di
disconoscimento della paternità. La prima ricorre nel caso
in cui la moglie abbia celato al marito la gravidanza e la
nascita del figlio. In particolare, il celamento della gravidanza
rende ammissibile l'azione di disconoscimento della paternità,
anche indipendentemente dal celamento della nascita, quando
la moglie abbia occultato la gravidanza stessa con un comportamento
cosciente e volontario, anche se non preordinato, ovvero privo
della convinzione circa l'estraneità del marito rispetto al
concepimento, quando tale comportamento si sia protratto per
un apprezzabile periodo di tempo fra la conoscenza dello stato
di gravidanza e la sua comunicazione al marito, nell'arco
compreso tra il trecentesimo e il centottantesimo giorno prima
della nascita (Cass. Civ. 8420/94).
La seconda ipotesi ricorre nel caso di adulterio della moglie
durante il periodo di concepimento. È stato rilevante in tale
ambito un intervento della Corte Costituzionale che si è pronunciata
con sentenza del 06.07.2006, n. 266. In particolare, prima
di detta sentenza, la giurisprudenza riteneva che l'esame
ematologico e genetico a cui rinvia l'art. 235, comma primo,
n. 3 (cd. Test del DNA) fosse possibile solo subordinatamente
alla previa dimostrazione dell'adulterio della moglie. Occorreva,
cioè, prima dimostrare che la moglie avesse commesso adulterio
e solo successivamente si potevano introdurre prove tecniche
atte ad accertare la non compatibilità della caratteristiche
genetiche / ematiche del “presunto” figlio con quelle del
“presunto” padre.
La Consulta, con detto intervento, ha dichiarato “illegittimo
l'art. 235, comma 1, n. 3, c.c., nella parte in cui, ai fini
dell'azione di disconoscimento della paternità, subordina
l'esame delle prove tecniche, da cui risulta che il figlio
presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno
incompatibili con quelle del presunto padre, alla previa dimostrazione
dell'adulterio della moglie”. Evidentemente, si è riconosciuto
che l'esito del test del DNA possa costituire una prova implicita
dell'adulterio e ciò sopratutto grazie ai progressi della
scienza medica che ormai fanno si che tale test conduca a
risultati pressoché equivalenti alla certezza. Pertanto, ad
oggi, è possibile, indipendentemente dalla prova dell'adulterio,
produrre a sostegno dell'azione de quo prove genetiche ed
ematologiche rivolte a dimostrare che le caratteristiche genetiche
/ ematologiche del figlio sono incompatibili con quelle del
padre. In
tale ambito, può accadere che il coniuge contro cui è proposta
l'azione rifiuti di sottoporsi al necessario prelievo per
le verifiche tecniche. Se ciò accade, è ormai orientamento
consolidato quello secondo cui il giudice possa valutare tale
rifiuto ai sensi dell'art. 116 c.p.c.; in particolare, il
giudice da tale rifiuto, laddove ingiustificato, può desumere
argomenti di prova su cui fondare il proprio convincimento.
Per
quanto riguarda gli aspetti procedurali, legittimati attivi
a proporre l'azione di disconoscimento sono il presunto padre,
la madre, il figlio una volta che abbia raggiunto la maggiore
età. Il figlio minore non può attivarsi in proprio ma, se
già sedicenne, solo per il tramite di un curatore speciale
nominato ad hoc dal giudice; se invece il minore non ha ancora
compiuto i sedici anni, l'azione può essere proposta dal pubblico
ministero (art. 244 c.c.). Nel caso in cui il titolare dell'azione
di disconoscimento muoia prima di averla promossa, la facoltà
di esercitare l'azione è trasmessa agli eredi (art. 246 c.c.).
Nello
specifico, nel caso di morte del presunto padre o della madre,
legittimati sono i discendenti e gli ascendenti mentre, nel
caso di morte del figlio, legittimati sono il coniuge o gli
ascendenti. Per quanto concerne la legittimazione passiva,
il presunto padre, la madre e il figlio sono litisconsorti
necessari. L'azione, proprio per esigenze di stabilità e certezza
in relazione allo status di figlio legittimo, può essere proposta
entro termini decadenziali piuttosto brevi; di fatti, “i termini
di decadenza per l'esercizio dell'azione di disconoscimento
di paternità concorrono...a definire l'ambito nel quale il
disconoscimento di paternità è esperibile e, con esso, a delineare
il punto di equilibrio tra verità biologica e certezza dello
status come presuntivamente attribuito” (Cass. Civ. 6302/07).
Tali termini si differenziano a seconda dei soggetti che intendono
proporre detta azione: la madre può proporre l'azione entro
il termine di sei mesi decorrente dalla nascita del figlio
ovvero, in caso di impotenza a generare, decorrente dal giorno
in cui sia venuta a conoscenza di detta impotenza (Corte Cost.,
sent. n. 170 del 14.05.1999); il presunto padre può proporre
l'azione entro un anno decorrente:
(i) dalla nascita del figlio, se era presente;
(ii) dal giorno del suo ritorno, se era lontano;
(iii) dal giorno in cui ha avuto notizia della nascita, se
prova di non averne avuto notizia prima; (iv) dal giorno in
cui ha avuto conoscenza della propria impotenza a generare
(Corte Cost., sent. n. 170 del 14.05.1999);
(v) dal giorno in cui ha avuto conoscenza dell'adulterio della
moglie, nel caso di cui al n. 3 dell'art. 235 c.c. (Corte
Cost., sent. n. 134 del 06.05.1985).
il figlio può proporre l'azione entro un anno decorrente dal
compimento della maggiore età o dal successivo momento in
cui sia venuto a conoscenza di fatti che rendono esperibile
l'azione. Non può mai proporre tale azione il presunto padre
biologico che rimane estraneo all'intero procedimento.
La
sentenza che accoglie l'azione di disconoscimento è una sentenza
di accertamento costitutivo, nel senso che comporta una modifica
dello stato del figlio e, come tale, ha effetti erga omnes.
Detti effetti, praticamente, si sostanziano nella fatto che
il figlio disconosciuto: perde lo status di figlio legittimo
nonché il cognome del marito della madre; acquista lo status
di figlio naturale riconosciuto dalla sola madre, salvo il
successivo riconoscimento del vero padre.
*
Avv. Matteo Santini, Dott.ssa Beatrice
Maiolini, legali in Roma
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