07 marzo 2009

 
     

Pena di morte : ulteriore recensione a Forbice
di Claudio Giusti*

Non volevo occuparmi del nuovo libro di Aldo Forbice “Assassini di Stato” (Garzanti, 2009). Lo stavo giusto scorrendo, cogliendovi numerose inesattezze, quando sono stato tradito dalla la mia formazione di storico.

Come d’abitudine ho accuratamente visionato note e bibliografia, trovandole datate, gravemente incomplete e quantomeno strane: come afflitte da una sorta di Millennium Bug. Così le ho confrontate con quelle del libro che AF ha pubblicato nel 2002 (“I signori della morte” Sperling 2002) e ho scoperto che il nuovo testo è in gran parte composto da quello vecchio.

Forbice ha attinto a piene mani dal suo primo libro sulla pena di morte e questo spiega, almeno in parte, i grossolani errori e le incongruenze del secondo. A pagina 73 del nuovo testo leggiamo, come a pagina 69 del vecchio, che: “Negli ultimi anni sono stati oltre 74 i casi di giustiziati [americani] riconosciuti innocenti post mortem mediante l’esame del DNA”.

Negli ultimi cento anni nessun condannato a morte è stato riabilitato dopo l’esecuzione: nemmeno Sacco e Vanzetti, e sono 15 i condannati a morte usciti dal braccio grazie al DNA. Solo John Snowden e Lena Baker hanno ricevuto un perdono decenni dopo l’esecuzione (ma non un riconoscimento d’innocenza), mentre Frank Lee Smith è morto nel braccio poco prima di essere riconosciuto non colpevole e, giorni fa, Timothy Cole (condannato per stupro) è stato riabilitato dieci anni dopo essere morto in carcere. In ogni caso, dai tempi di Haymarket, nessuna autorità giudiziaria americana ha riconosciuto di avere ucciso una persona innocente.

A pagina 60 (50 del vecchio testo) AF ripete quello che andava più o meno bene anni fa, ma che oggi non è più vero: “Come si è detto, 38 dei 50 stati degli Usa mantengono la pena capitale dal 1976.”

Delle 53 giurisdizioni statunitensi sono 38 ad avere la pena di morte e non 40. Fino a non molto tempo fa erano 38 gli stati con la pena capitale, ma oggi New Jersey e New York si sono aggiunti ai dodici stati abolizionisti. Il primo ha cancellato il patibolo con una legge del parlamento, mentre nel secondo è stata la locale corte suprema (che si chiama Court Of Appeals, mentre la New York Supreme Court è una normalissima corte di giustizia).

Nella stessa pagina AF liquida in una battuta l’immensa giurisprudenza capitale americana: “Le fasi processuali, per i reati da pena capitale sono due: nella prima una giuria popolare stabilisce, con una sentenza, se l’imputato è colpevole o innocente: nella seconda, un magistrato o una corte di tre giudici valuta le circostanze aggravanti o attenuanti e decide la condanna. Anche l’appello è disciplinato allo stesso modo.”

La realtà è alquanto diversa. Nella prima parte del processo una giuria decide all’unanimità il verdetto. Se l’imputato è dichiarato colpevole di un reato capitale si passa al sentencing: un secondo dibattimento alla fine del quale la stessa giuria decide se il condannato debba essere o meno ucciso. Anche per la sentenza (vita o morte) i dodici giurati devono essere unanimi.

In Texas occorre l’unanimità per decidere la futura pericolosità e la mancanza di fattori mitiganti, ma la decisione inversa può essere ottenuta con un voto di dieci a due. La Florida è l’unica giurisdizione in cui la giuria non deve essere unanime nel decidere che vi è almeno un’aggravante capitale. Fino alla sentenza RING in tre stati (Arizona, Idaho e Montana) la sentenza di morte era decisa dal giudice e in due (Colorado e Nebraska) da un panel di tre. (RING non è retroattiva e ci possono essere strascichi apparentemente incostituzionali). Sempre fino a RING in Alabama, Florida, Delaware e Indiana il giudice poteva ribaltare (overrule) la decisione che non era necessariamente presa all’unanimità dalla giuria.

Ora in Delaware la giuria decide all’unanimità e il giudice ha la teorica possibilità di ribaltarne la decisione. In Montana e Nebraska la giuria deve trovare all’unanimità l’esistenza di almeno un fattore aggravante, poi il giudice (MT) o un panel di tre giudici (NE) decide la sentenza. In Alabama e Florida la giuria non ha ancora l’obbligo di essere unanime e il giudice può ancora ribaltarne la raccomandazione. Non è però chiaro se questo sia conforme ai desiderata della Corte Suprema. In Arizona, Colorado, Indiana e Idaho la giuria ora decide la sentenza all’unanimità.

L’appello non consiste nel rifacimento nemmeno parziale del dibattimento, ma nella revisione formale del verbale del processo. Non c’è giuria, non si ascoltano i testi e il condannato deve dimostrare che, al processo, vi sono stati errori così gravi e numerosi da esigere che verdetto e/o sentenza siano annullati. La revisione inizia come appello diretto statale e può continuare come habeas corpus prima statale e poi federale, percorrendo un cammino lungo e complicato che può arrivare per tre volte alla Corte Suprema. Dura in media un decennio, ma nel braccio della morte c’è gente che aspetta il boia da più di trent’anni.

Alcune parti del libro sono effettivamente nuove, come quella con i dati sulle esecuzioni dal 1608, ma a pagina 59 troviamo una frase incomprensibile: “Da quando gli Usa erano ancora delle colonie europee sono appena una ventina – su circa 20.000 esecuzioni – i bianchi impiccati o finiti sulla sedia elettrica. La cifra sale a poco di 30 se si considerano coloro che si sono resi colpevoli di avere distrutto la proprietà di un bianco.”

Le cose stanno così: “Secondo Amnesty International su 18.000 esecuzioni legali avvenute negli attuali Stati Uniti non più di 30 hanno riguardato bianchi rei di avere assassinato un nero. In 10 dei casi il nero ucciso era uno schiavo e quindi il bianco venne impiccato per avere distrutto la proprietà di un altro bianco." (vedi)

Inoltre Paula Cooper non fu salvata dall’opinione pubblica internazionale, ma dalle sentenze Thompson v. Oklahoma e Stanford v. Kentucky. Troy Davis non avrà un nuovo processo, ma è a un passo dall’esecuzione. Il South Dakota ha fatto, dopo sessant’anni, la sua prima esecuzione nel 2007.

La giurisprudenza di common law non consente l’esecuzione di un pazzo. Ma, se chi è pazzo può chiedere di non essere condannato a morte, chi chiede di non essere condannato a morte non è pazzo.

Infine

Non è saggio riporre troppe aspettative nelle capacità taumaturgiche della Moratoria delle esecuzioni, non fosse altro perché il resto del mondo l’ha ignorata. Comunque il cammino delle Nazioni Unite contro la pena di morte è iniziato molto tempo fa e vale la pena ricordare l’Articolo Sei del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR) del 1966 e il commento che ne ha fatto il Comitato per i Diritti Umani, le Garanzie Ecosoc del 1984, il Secondo Protocollo Opzionale all'ICCPR del 15 dicembre 1989 e le numerose Risoluzioni abolizioniste a partire dalla 2857 del 20 dicembre 1971.

P.S. Queste note sono state scritte frettolosamente e mi riservo una futura critica ben più approfondita e puntigliosa.

* membro del Comitato scientifico dell'Osservatorio.

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